STORIA DELLA QUARESIMA
Chiamiamo Quaresima quel periodo di preghiera e di penitenza, durante il quale la Chiesa prepara le anime a celebrare degnamente il mistero della Redenzione.
La preghiera.
A tutti i fedeli, anche i più ferventi, essa offre questo tempo come ritiro annuale che loro offre l’occasione di riparare le negligenze passate e ravvivare la fiamma del loro zelo. Offre ai catecumeni, come nei primi secoli, l’istruzione e la preparazione alla fede battesimale; richiama ai penitenti la gravità del peccato, per eccitarli al pentimento e ai buoni propositi, e promette loro il perdono del Cuore di Nostro Signore.
Nel xlix capitolo della sua Regola, san Benedetto raccomanda ai suoi monaci che si applichino, durante questo santo tempo, a una preghiera “accompagnata da lacrime”, siano esse del pentimento o dell’amore.
Nella messa di ciascun giorno il cristiano, a qualsiasi stato appartenga, troverà le più belle formule di preghiere, con le quali si rivolgerà a Dio. Antiche spesso di quindici e più secoli, s’adattano sempre alle aspirazioni d’ognuno e ai bisogni di tutti i tempi.
La penitenza.
La penitenza s’esercita, o meglio s’esercitava, principalmente mediante la pratica del digiuno. Le temporanee dispense concesse dal Sovrano Pontefice alcuni anni fa non costituiscono per noi una ragione sufficiente di sottacere un dovere così importante, al quale fanno incessante allusione le orazioni di ogni messa di Quaresima, e di cui tutti debbono almeno conservare lo spirito, qualora la durezza dei tempi che si attraversano o la gracilità della salute non ne permetterà l’osservanza in tutta la sua estensione e il suo rigore.
Essa risale ai primi tempi del cristianesimo, ed è anche anteriore. La pratica del digiuno fu osservata dai profeti Mosè ed Elia, i cui esempi ci saranno esposti il mercoledì della prima settimana di Quaresima; per quaranta giorni e quaranta notti fu osservata da Nostro Signore in modo assoluto, senza prendere il minimo alimento; e sebbene egli non abbia voluto farne un precetto, che non sarebbe stato più suscettibile di dispense, pure tenne a dichiarare che il digiuno, spesso comandato da Dio nell’Antica Legge, sarebbe stato osservato anche dai figli della Nuova Legge.
Un giorno i discepoli di Giovanni si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Per qual motivo, mentre noi e i farisei digiuniamo spesso, i tuoi discepoli non digiunano?” E Gesù rispose loro: “Come è possibile che gli amici dello sposo possano fare lutto finché lo sposo è con loro? Verranno poi i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno” (Mt 9,14-15).
I primi cristiani si ricordarono di quelle parole di Gesù, e cominciarono molto presto a passare nel digiuno assoluto i tre giorni (che per loro era uno solo) del mistero della Redenzione, cioè dal Giovedì santo al mattino di Pasqua.
Fin dal II e III secolo abbiamo la prova che in parecchie Chiese si digiunava il Venerdì e il Sabato santo e sant’Ireneo, nella lettera la papa san Vittore, afferma che molte Chiese d’Oriente facevano la stessa cosa durante tutta la Settimana santa. Il digiuno pasquale si estese poi nel IV secolo, fino a che la preparazione alla festa di Pasqua, attraverso un periodo di crescente aumento, divenne di quaranta giorni, cioè Quadragesima o Quaresima.
La più antica menzione della “Quarantena”, in Oriente, si riscontra nel can. V del Concilio di Nicea (325). Il vescovo di Tmuis, Serapione, attesta a sua volta, nel 331, che la “Quaresima” era al suo tempo una pratica universale, sia in Oriente che in Occidente. I Padri, come sant’Agostino (discorso 210) dicono antichissima tale pratica; e san Leone (discorso 6) arriva a pensare, però a torto, che risaliva ai tempi apostolici. I primi a parlarci del digiuno quaresimale furono i Padri, e tra loro sant’Ambrogio e san Girolamo.
I Sermoni di sant’Agostino dimostrano che la Quaresima cominciava sei domeniche prima di Pasqua. Siccome la domenica non si digiunava, non rimanevano che 34 giorni, 36 col Venerdì e il Sabato santo; tuttavia la Quaresima restava sempre una “quarantena” di preparazione alla solennità della Pasqua. Difatti anche allora, e come adesso, non era il digiuno l’unico mezzo per prepararsi alla Pasqua. Sant’Agostino insiste che al digiuno vada aggiunto: il fervore della preghiera, l’umiltà, la rinuncia ai desideri meno buoni, la generosità nell’elemosina, il perdono delle offese e la pratica d’ogni opera di pietà e di carità.
Della medesima durata consta in Ispagna nel VII secolo, nella Gallia e a Milano. Per sant’Ambrogio il Venerdì santo è la grande solennità del mondo: la stessa festa di Pasqua comprende il triduo della morte, della sepoltura e della risurrezione di Cristo (Lettera 23.a). La domenica s’interrompeva il digiuno, ma non s’abbandonava mai, grazie alla liturgia, il colore penitenziale.
Anche san Leone afferma che la Quaresima è un periodo è un periodo di quaranta giorni che termina il Giovedì santo sera; e, come sant’Agostino, dopo aver insistito sui vantaggi del digiuno corporale, raccomanda energicamente l’esercizio della mortificazione e della penitenza, e sopra tutto l’aborrimento del peccato e la pratica fervente delle opere buone e di tutte le virtù.
Necessità della penitenza.
La necessità della penitenza è sempre attuale. Nell’epoca nostra di sensualità, in cui sembra caduta in disuso la mortificazione corporale, non crediamo sia inutile spiegare ai cristiani l’importanza e l’utilità del digiuno. A favore di questa santa pratica stanno le divine Scritture, sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento; anzi si può dire che vi si raggiunge la testimonianza della tradizione di tutti i popoli; infatti, l’idea che l’uomo possa placare la divinità con opere di espiazione del suo corpo è costante presso tutti i popoli della terra e la troviamo in tutte le religioni, anche le più lontane dalla purezza delle tradizioni patriarcali.
Il precetto dell’astinenza.
Il precetto cui furono sottoposti i nostri progenitori nel paradiso terrestre, osservano san Basilio, san Giovanni Crisostomo, san Girolamo e san Gregorio Magno, era un precetto di astinenza, e per non aver essi rispettata questa virtù precipitarono nell’abisso del male, trascinando seco tutta la discendenza. La vita di privazioni, alla quale il re decaduto della creazione si vide condannato sulla terra, che doveva produrgli solo triboli e spine, giorno per giorno giustificò tale legge d’espiazione, che il Creatore impose alle membra ribelli dell’uomo peccatore.
Fino all’epoca del diluvio i nostri antenati si sostentarono unicamente dei frutti della terra, che ricavavano con sudato lavoro. In seguito, per supplire in qualche maniera all’indebolimento delle forze della natura, Dio permise che si nutrissero della carne degli animali. Ugualmente Noè, forse per ispirazione di Dio, cominciò a spremere il succo della vite; e così un altro alimento venne a soccorrere la debolezza dell’uomo.
Astinenza dalla carne e dal vino.
La natura del digiuno fu quindi determinata in base ai diversi elementi che servivano al sostentamento dell’uomo. A principio dovette solo consistere nell’astinenza dalla carne degli animali, essendo meno indispensabile alla vita tale alimento, dono dell’accondiscendenza di Dio. Per molti secoli, come anche oggi nelle Chiese d’Oriente, erano proibite le uova e tutti i latticini, per essere sostanze ricavate dagli animali; e anche nelle Chiese latine non erano permesse, fino al XIX secolo, se non in virtù di un’annuale dispensa più o meno generale. Il rigore dell’astinenza dalla carne era tale, che a principio non veniva sospesa neppure la domenica di Quaresima, quando invece s’interrompeva il digiuno; e quelli che erano dispensati dal digiunare durante la settimana, rimanevano sempre tenuti a detta astinenza, salvo una dispensa particolare.
Nei primi secoli del cristianesimo il digiuno comprendeva anche l’astinenza dal vino: lo afferma san Cirillo di Gerusalemme (IV catechesi), san Basilio (I omelia al popolo di Antiochia), Teofilo d’Alessandria, ecc. Ma questo rigore scomparve ben presto fra gli occidentali, mentre durò più a lungo tra i cristiani d’Oriente.
Unico pasto.
Da ultimo, per essere completo, il digiuno doveva limitare anche la misura dei cibi, fino alla privazione dell’alimentazione ordinaria: in tal senso non tollera che un solo pasto quotidiano. Ciò si deduce e risulta da tutta la pratica della Chiesa, sebbene molteplici modifiche vennero a prodursi, di secolo in secolo, nella disciplina della Quaresima.
Il pasto dopo i Vespri.
La costumanza giudaica, che nel Vecchio Testamento era di posticipare al tramonto del sole l’unico pasto consentito nei giorni di digiuno, passò nella Chiesa cristiana e fu seguita anche dai paesi occidentali, ove venne conservata a lungo immutabile. Però dal IX secolo essa cominciò a mitigarsi lentamente nella Chiesa latina, come risulta, a quell’epoca, da un capitolare di Teodolfo, vescovo d’Orléans, nel quale il prelato protesta contro coloro che si credono in diritto di pranzare all’ora di Nona, cioè tre ore dopo mezzogiorno.
Ma il rilassamento, a poco a poco, insensibilmente, si estese; infatti nel secolo successivo abbiamo la testimonianza del celebre Rathier, vescovo di Verona, il quale, in un discorso sulla Quaresima, riconosceva ai fedeli la facoltà di rompere il digiuno dopo Nona. Si trovano ancora tracce di richiami e contestazioni dell’XI secolo, in un concilio di Rouen, che proibiva ai fedeli di pranzare prima che fosse cominciato in chiesa l’ufficio dei Vespri, terminata l’ora di Nona: ma si trova qui già l’uso di anticipare l’ora dei Vespri, per dar modo ai fedeli di consumare prima i loro pasti.
Fino quasi a quest’epoca era rimasta infatti in vigore la costumanza di non celebrare la messa, nei giorni di digiuno, se non prima di aver cantato l’ufficio di Nona, che aveva inizio alle tre pomeridiane, e di non cantare i Vespri se non dopo il tramonto del sole. Ma se andava sempre più mitigandosi la disciplina del digiuno, mai la Chiesa credette giusto d’invertire l’ordine delle ore, che risaliva alla più remota antichità. Successivamente, essa anticipò prima i Vespri, poi la messa, infine Nona, per far sì che i Vespri terminassero prima di mezzogiorno, dato che l’uso aveva autorizzato i fedeli a fare i loro pasti a metà del giorno.
Il pasto dopo Nona.
Sappiamo da un passo di Ugo di San Vittore che nel XII secolo l’uso di rompere il digiuno all’ora di Nona era diventato generale (Della Regola di sant’Agostino c. 3); pratica che fu consacrata nel XIII secolo dall’insegnamento dei teologi scolastici. Alessandro di Ales, nella sua Somma, lo insegna formalmente (p. 4, quaest. 28, art. 2), e san Tommaso d’Aquino non è meno esplicito (II IIae, quaest. 147, art. 7).
Il pasto a mezzogiorno.
Ma questa mitigazione doveva ancora allargarsi, perché sappiamo che alla fine del medesimo XII secolo il teologo Riccardo di Middleton, celebre francescano, insegnava non doversi considerare violatore del digiuno chi pranzava all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno perché, dice, quest’uso è ormai prevalso in moltissimi luoghi, e l’ora nella quale si può mangiare non è così essenziale al digiuno quanto l’unicità del pasto (nella IV dist. 15, art. 3, quaest. 8).
Il XIV secolo sancì con una pratica e un insegnamento formale l’opinione di Riccardo di Middleton. Citeremo a testimonianza il famoso teologo Durando di Saint-Pourcain, domenicano e vescovo di Meaux, il quale senz’alcuna difficoltà fissa all’ora di mezzogiorno il pasto dei giorni di digiuno; perché questa è, dice, la pratica del Papa, dei cardinali e anche dei religiosi. (nella IV dist. 15, quaest. 9, art. 7). Non sorprenderà più, quindi, di vedere tale insegnamento sostenuto nel XV secolo dai più gravi autori, come sant’Antonio, Stefano Poncher, vescovo di Parigi, il card. Gaetano, ecc. Invano Alessandro di Ales e san Tommaso cercarono di riportare all’ora di Nona la cessazione del digiuno; furono gli ultimi scogli da superare; poi l’attuale disciplina s’impose, per così dire, fin dai loro tempi.
La “colazione”.
A causa d’essere stata anticipata l’ora del pranzo, il digiuno, che consiste essenzialmente nel mangiare un unico pasto, era diventato difficile a praticarsi, a motivo del lungo intervallo di tempo fra un mezzogiorno e l’altro. Per cui bisognò venire incontro ancora una volta all’umana debolezza, autorizzando la cosiddetta “colazione”. L’origine di questo uso è pure antichissima e deriva dalle costumanze monastiche. La Regola di san Benedetto prescriveva una quantità di altri digiuni, oltre a quello della Quaresima ecclesiastica; ma ne temperava il rigore permettendo un pasto all’ora di Nona: il che rendeva quei digiuni meno penosi di quello della Quaresima, perché a questo erano tenuti tutti i fedeli, secolari e religiosi, fino al tramonto del sole. Per altro, siccome i monaci dovevano sostenere le dure fatiche dei campi, nell’estate e nell’autunno, quando i digiuni fino all’ora di Nona erano così frequenti da diventare giornalieri, a partire dal 14 settembre, gli Abati, usando d’una facoltà contemplata nella Regola, permisero ai religiosi di bere verso sera un bicchiere di vino prima di Compieta, per ristorare le forze stanche delle fatiche del giorno. Tale ristoro si prendeva in comune, mentre si faceva la lettura della sera chiamata Conferenza, in latino Collatio, e che consisteva per lo più nel leggere le famose Conferenze (Collationes) di Cassiano: da qui derivò la parola colazione data a quel piccolo sollievo dal digiuno monastico.
Nel IX secolo l’Assemblea d’Aquisgrana (817 – Labbe, Conciles, t. vii) estende ugualmente tale facoltà al digiuno della Quaresima, per la straordinaria fatica che sostenevano i monaci nell’assolvere ai divini Uffici in questo sacro tempo. Ma in seguito si accorsero che il solo uso di quella bevanda poteva nuocere alla salute, se non vi si aggiungeva qualche cosa di solido; e dal XIV al XV secolo s’introdusse la consuetudine di distribuire ai religiosi un pezzettino di pane, che mangiavano nella “colazione” della sera quando bevevano quel bicchiere di vino.
Naturalmente, introdottesi nei chiostri mitigazioni del genere sul digiuno primitivo, si estesero ben presto anche a vantaggio dei secolari; il che avvenne a poco a poco, con la facoltà di bere fuori dell’unico pasto; e nel XIII secolo san Tommaso stesso, studiando il caso se il bere rompesse il digiuno, concluse negativamente (4ª Quest. 147, art. 6); ma continuò ad ammettere che invece lo rompeva l’aggiunta di qualsiasi nutrimento solido. Quando alla fine del XIII secolo e durante il XIV fu, definitivamente, anticipato il pranzo a mezzogiorno, non poteva più bastare, alla sera, una semplice bevuta di vino, a reggere le forze del corpo; di conseguenza s’introdusse, prima nei chiostri, e poi fuori, la consuetudine di prendere, oltre quella bevanda, pane, verdura e frutta, sempre a condizione d’usare di quegli alimenti con tale moderazione da non trasformare mai la “colazione” in un secondo pasto.
Astinenza dai latticini.
Tali furono le conquiste che ottennero sull’antica osservanza del digiuno, sia il rilassamento del primitivo fervore, sia l’indebolimento generale delle forze fisiche, presso i popoli occidentali. Ma non sono questi gli unici temperamenti che dobbiamo rilevare. Per molti secoli l’astinenza dalla carne comprendeva la proibizione di tutto ciò che proveniva dal regno animale, escluso il pesce, per diverse misteriose ragioni fondate sulle sacre Scritture. I latticini d’ogni sorta furono per molto tempo proibiti; a Roma fino a pochi anni fa erano proibiti il cacio e il burro tutti i giorni nei quali non si poteva mangiar carne.
L’uso dei latticini in Quaresima si andò affermando dal IX secolo in poi nell’Europa occidentale, specialmente in Germania e nelle regioni settentrionali. Invano cercò di eliminarlo, nell’XI secolo, il Concilio di Kedlimbourg (Labbe, Conciles, t. x), di modo che, dopo aver legittimata la pratica mediante dispense temporanee che ottenevano dai Sommi Pontefici, quelle Chiese finirono per usufruirne pacificamente per l’inveterata consuetudine. Le Chiese di Francia mantennero l’antico rigore fino al XVI secolo, anzi sembrò non cedere del tutto fino al XVII secolo; tanto che, per riparare alla breccia fatta all’antica disciplina, e quasi a compensare con un atto pio e solenne il rilassamento circa l’articolo dei latticini, d’allora in poi tutte le parrocchie di Parigi, alle quali si univano i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani e gli Agostiniani, si recavano in processione alla Chiesa di Notre-Dame la Domenica di Quinquagesima; nello stesso giorno il Capitolo Metropolitano, col clero delle quattro parrocchie dipendenti, andava a fare una stazione nel cortile della Curia e a cantare un’Antifona davanti alla Reliquia della vera Croce, che si esponeva nella Cappella Santa. Queste belle tradizioni, aventi lo scopo di tenere impressa nella memoria l’antica disciplina, durarono fino alla Rivoluzione.
Astinenza dalle uova.
La facoltà di usare latticini non comprendeva l’uso delle uova in Quaresima. Su questo punto rimase per molto tempo in vigore l’antica norma di concedere questo cibo solo se compreso nella dispensa che si soleva dare annualmente. Fino al XIX secolo a Roma non si potevano mangiare le uova nei giorni in cui non era stata concessa la dispensa dell’uso della carne; altrove, le uova in certi giorni erano permesse, in altri no, specie durante la Settimana Santa; mentre l’attuale disciplina non conosce più tali restrizioni.
Se non che la Chiesa, sempre preoccupata del bene spirituale dei suoi figli, e nel loro interesse, ha cercato di mantenere in vigore tutto ciò ch’è stato possibile delle osservanze salutari che li devono aiutare a soddisfare la giustizia divina. In virtù di questo principio Benedetto XIV, allarmato fin dal suo tempo dell’estrema facilità con cui si moltiplicavano da per tutto le dispense circa l’astinenza, con una solenne Costituzione, in data 10 giugno 1745, rinnovò la proibizione, oggi nuovamente abolita, di mangiare nello stesso pasto pesce e carne nei giorni di digiuno.
Enciclica di Benedetto XIV.
Fin dal primo anno del suo pontificato, il 30 maggio 1741, lo stesso Pontefice indirizzò una Lettera Enciclica a tutti i Vescovi del mondo cattolico, esprimendo il suo vivo dolore nel constatare il rilassamento che s’introduceva ovunque con indiscrete e ingiustificate dispense.
“L’osservanza della Quaresima, diceva il Pontefice, è il vincolo della nostra milizia; con quella ci distinguiamo dai nemici della Croce di Gesù Cristo; con quella allontaniamo i flagelli dell’ira divina; con quella, protetti dal soccorso celeste durante il giorno, ci fortifichiamo contro i prìncipi delle tenebre. Se ci abbandoniamo a tale rilassamento, è tutto a detrimento della gloria di Dio, a disonore della religione cattolica, a pericolo per le anime cristiane; né si deve dubitare che tale negligenza non possa divenire sorgente di sventure per i popoli, di rovine nei pubblici affari e di disgrazie nelle cose private” (Costituzione “Non ambigimus”).
Sono passati due secoli dal solenne monito del Pontefice, ma purtroppo quel rilassamento che egli volle frenare andò sempre più crescendo. Nelle nostre città, quanti cristiani si possono contare fedeli all’osservanza quaresimale? Ora dove ci condurrà questa mollezza che aumenta senza limiti, se non al decadimento universale dei costumi e perciò allo sconvolgimento della società? Già le dolorose predizioni di Benedetto XIV si sono visibilmente avverate. Le nazioni che conobbero l’idea dell’espiazione sfidano la collera di Dio; per loro non resta altra sorte che la dissoluzione o la conquista. Per ristabilire l’osservanza domenicale in seno alle popolazioni cristiane asservite all’amore del denaro e degli affari sono stati compiuti coraggiosi sforzi, coronati da insperati successi. Chissà che il braccio del Signore, alzato a percuoterci, non s’arresti alla vista d’un popolo che comincia a ricordarsi della casa di Dio e del suo culto! Dobbiamo sperarlo: ma questa nostra speranza sarà più solida quando vedremo i cristiani della nostra società rammollita e degenerata rientrare, come gli abitanti di Ninive, nella via da tempo abbandonata dell’espiazione e della penitenza.
Le prime dispense.
Riprendiamo ora la narrazione storica e segnaliamo ancora alcuni tratti della fedeltà degli antichi cristiani alle sante osservanze della Quaresima. Non sarà qui fuori proposito richiamare la formalità delle prime dispense il cui ricordo è conservato negli Annali della Chiesa; vi si attingerà un salutare insegnamento.
Ai fedeli di Braga (Portogallo).
Nel XIII secolo l’Arcivescovo di Braga fece ricorso al Romano Pontefice, allora Innocenzo III, per fargli presente che la maggior parte del suo popolo era stato costretto a mangiare carne durante la Quaresima a causa d’una carestia che aveva privata la provincia di tutte le ordinarie provvigioni; il prelato chiedeva al Papa quale riparazione poteva imporre ai fedeli per questa violazione forzata dell’astinenza quaresimale. Inoltre consultava il Pontefice sulla condotta da tenere riguardo ai malati, che chiedevano la dispensa per l’uso degli alimenti grassi. La risposta di Innocenzo III, ch’è inserita nel Corpo del Diritto (Decretali, l. 3 sul digiuno, tit. xlvi), è piena di moderazione e di carità, com’era da attendersi. Ma da questo fatto noi comprendiamo ch’era tale allora il rispetto della legge generale della Quaresima, da riconoscere che solo l’autorità del Sommo Pontefice poteva sciogliere i fedeli. I secoli successivi non intesero diversamente il caso delle dispense.
Al re Venceslao.
Venceslao, re di Boemia, colpito da un’infermità che gli rendeva nociva alla salute l’alimentazione quaresimale, si rivolse nel 1297 a Bonifacio VIII, per ottenere il permesso di mangiare carne. Il Papa incaricò due Abati dell’Ordine dei Cistercensi per informarlo sullo stato reale della salute del monarca; e dietro loro favorevole rapporto, accordò la dispensa richiesta, ma ingiungendo le seguenti condizioni: si sincerassero che il re non si fosse imposto con voto di digiunare a vita durante la Quaresima; i venerdì, i sabati e la vigilia di san Mattia erano esclusi dalla dispensa; finalmente il re doveva prender cibo privatamente, e farlo con sobrietà.
Ai re di Francia.
Nel secolo XIV abbiamo due Brevi di dispensa, indirizzati da Clemente VI, nel 1351, a Giovanni re di Francia ed alla regina sua sposa. Nel primo il Papa, avuto riguardo al fatto che il re, durante le guerre di cui si occupa, si trova spesso in luoghi dov’è raro il pesce, concede al suo confessore il potere di permettere a lui e al suo seguito l’uso della carne, fatta riserva, però, dell’intera Quaresima, dei venerdì e di certe Vigilie dell’anno; assodato inoltre, che né il re né i suoi si fossero legati con voto all’astinenza per tutta la vita (D’Achery, Spicilegium, t. iv). Col secondo Breve Clemente VI, rispondendo alla domanda che gli era stata presentata dal re Giovanni per essere esentato dal digiuno, incarica ancora il confessore del monarca e coloro che gli succederanno in quell’ufficio, di dispensarlo insieme alla regina, dall’obbligo del digiuno, dopo aver consultato i medici (ibid.).
Alcuni anni più tardi, nel 1376, Gregorio IX emanava un altro Breve in favore del re di Francia Carlo V e della regina Giovanna sua sposa, col quale delegava al loro confessore il potere d’accordare l’uso delle uova e dei latticini durante la Quaresima, sentito il parere dei medici e gravatane la loro coscienza, come anche quella del confessore che ne avrebbe risposto davanti a Dio. Il permesso si estendeva ai cuochi ed ai camerieri, ma solo per assaggiare le vivande.
A Giacomo III re di Scozia.
Il XV secolo continua a fornirci esempi di simili ricorsi alla Sede Apostolica per la dispensa dalle osservanze quaresimali. Citiamo particolarmente il Breve che Sisto IV, nel 1483, indirizzò a Giacomo re di Scozia, col quale permette a questo principe di fare uso della carne nei giorni d’astinenza, sempre col consiglio del confessore. Nel XVI secolo vediamo Giulio II accordare una simile facoltà a Giovanni, re di Danimarca, ed alla regina Cristina sua consorte; e qualche anno più tardi, Clemente VII elargiva il medesimo privilegio all’imperatore Carlo V, e poi in seguito ad Enrico II di Navarra ed alla regina Margherita sua sposa.
Tale era la gravità, con la quale si procedeva, ancora qualche secolo fa, a sciogliere gli stessi principi da un obbligo, che è quanto di più universale e di più sacro ha il cristianesimo. Da questo si può giudicare il cammino seguito dalla moderna società nella via del rilassamento e della indifferenza. Si paragonino quelle popolazioni, che per il timore di Dio e la nobile idea dell’espiazione si imponevano tutti gli anni così lunghe e rigide privazioni, con la nostra tiepida e rammollita generazione, il cui sensualismo della vita va sempre più estinguendo il senso del male, che si commette così facilmente, che così prontamente viene perdonato e così debolmente riparato.
Dove sono ara le gioie dei nostri padri nella festa di Pasqua, quando, dopo una privazione di quaranta giorni, riprendevano i cibi più nutrienti e graditi che s’erano interdetti durante questo lungo periodo? Con quale attrattiva e con quale serenità di coscienza essi tornavano alle abitudini d’una vita più facile, che avevano sospesa per affliggere l’anima nel raccoglimento, nella separazione dal mondo e nella penitenza! Ciò c’induce ad aggiungere ancora una parola, con l’intento d’aiutare il lettore cattolico a ben rilevare l’aspetto della cristianità nei periodi della fede, durante il tempo della Quaresima.
Vacanza dei tribunali.
Immaginiamoci dunque un tempo in cui, non solo erano interdetti dalle pubbliche autorità [1] i divertimenti e gli spettacoli, ma rimanevano vacanti anche i tribunali, affinché non fosse turbata quella pace e quel silenzio delle passioni così favorevoli al peccatore per approfondire le piaghe della sua anima e prepararla a riconciliarsi con Dio. Fin dal 380, Graziano e Teodosio avevano dettata una legge che ordinava ai giudici di soprassedere e tutte le procedure ed istanze quaranta giorni prima di Pasqua (Cod. Teodos. l. ix, tit. xxxv, l. 4). Il Codice Teodosiano contiene parecchie altre disposizioni analoghe; e sappiamo che i Concili di Francia, ancora nel IX secolo, si rivolsero ai re Carolingi per reclamare l’applicazione di quella misura ch’era stata sanzionata dai canoni e raccomandata dai Padri della Chiesa (Concilio di Meaux, dell’845. Labbe, I Concili, t. vii. Concilio di Tribur, dell’895. Ivi, t. ix). La legislazione d’Occidente ha lasciato cadere da molto tempo quelle cristianissime tradizioni; mentre costatiamo, a nostra umiliazione, ch’esse sono tutt’ora rispettate dai Turchi, i quali sospendono ogni azione giudiziaria durante i trenta giorni del Ramadan.
Divieto della caccia.
La Quaresima fu per molto tempo considerata incompatibile con l’esercizio della caccia, a motivo della dissipazione e del tumulto che porta con sé. Nel IX secolo, durante questo sacro tempo, fu interdetta dal Papa san Nicolò I ai Bulgari (Ad consultat. Bulgarorum. Ivi, t. viii), che s’erano riconvertiti al cristianesimo. E anche nel XIII secolo san Raimondo di Pennafort, nella sua Somma dei casi penitenziali, insegna che non si può durante la Quaresima, senza commettere peccato, esercitare la caccia rumorosa e col concorso dei cani e dei falchi (Summ. cas. Poenit., l. iii, tit. xxix De laps et disp. § 1). Tale ordinanza è fra quelle cadute in disuso; ma san Carlo la riportò in vigore nella provincia di Milano in uno dei suoi concili.
Del resto non avremo più da meravigliarci nel vedere interdetta la caccia durante la Quaresima, quando sappiamo che nei secoli passati del cristianesimo anche la guerra cessava le sue ostilità, s’era necessaria la sollievo e al legittimo interesse delle nazioni. Nel IV secolo Costantino aveva ordinato la cessazione delle operazioni militari i venerdì e le domeniche, in segno di omaggio a Gesù Cristo, che in tali giorni patì e risuscitò, e per non distogliere i cristiani dal raccoglimento che si richiede per celebrare quei misteri. Nel IX secolo la disciplina ecclesiastica d’Occidente esigeva universalmente la sospensione delle armi durante l’intera Quaresima, eccetto il caso di necessità, come risulta dagli atti dell’assemblea di Compiègne, nell’833, e dai concili di Meaux e d’Aquisgrana, della stessa epoca. Le istruzioni del Papa san Nicolò I ai Bulgari esprimono lo stesso pensiero; e da una lettera di san Gregorio VII a Desiderio, Abate di Montecassino, consta che tale norma era ancora rispettata nell’XI secolo (Labbe, I Concili, t. vii, viii e x). La vediamo ancora osservata fino al XII secolo in Inghilterra, come c’informa Guglielmo di Malmesbury, da due armate schierate di fronte: l’una dell’imperatrice Matilde, contessa d’Angiò, figlia del re Enrico; l’altra del re Stefano conte di Boulogne, che nel 1143 stavano per cozzare a causa della successione alla corona.
La tregua di Dio.
È nota a tutti i nostri lettori la mirabile istituzione della Tregua di Dio, per mezzo della quale la Chiesa, nell’XI secolo, riuscì ad arrestare in tutta l’Europa lo spargimento del sangue col sospendere l’uso delle armi quattro giorni ogni settimana, dal mercoledì sera fino al lunedì mattina, per tutta la durata dell’anno. Tale regolamento, sanzionato dall’autorità dei Papi e dei Concili con concorso di tutti i principi cristiani, non era che l’estensione ad ogni settimana dell’anno di quella disciplina, in virtù della quale rimaneva sospesa in Quaresima ogni azione militare. Il santo re d’Inghilterra Edoardo il Confessore migliorò ancora questa sì preziosa istituzione, emanando una legge che fu confermata dal suo successore Guglielmo il Conquistatore, e in merito alla quale la Tregua di Dio doveva essere inviolabilmente osservata dall’apertura dell’Avvento fino all’ottava dell’Epifania, dalla Settuagesima fino all’ottava di Pasqua e dall’Ascensione fino all’ottava di Pentecoste; in più, tutti i giorni delle Quattro Tempora, le Vigilie di tutte le Feste, e finalmente ogni settimana nell’intervallo fra il sabato dopo Nona e il lunedì mattina (Labbe, I Concili, t. ix).
Urbano II, nel concilio di Clermont (1095), dopo aver regolato tutto ciò che concerneva la spedizione della Crociata, intervenne anche con la sua apostolica autorità ad estendere la Tregua di Dio, prendendo a base la sospensione delle armi osservata durante la Quaresima, e stabilì, con un decreto che fu rinnovato nel Concilio tenuto a Rouen l’anno appresso, che dovevano rimanere interdette tutte le azioni di guerra dal mercoledì delle Ceneri fino al lunedì successivo all’ottava di Pentecoste, e in tutte le Vigilie e Feste della Santa Vergine e degli Apostoli: tutto senza pregiudicare quanto stabilito in precedenza per ogni settimana, cioè dal mercoledì sera fino al lunedì mattina (Orderico Vitale, Storia della Chiesa, l. ix).
Il precetto della continenza.
Così la società cristiana testimoniava il suo rispetto verso le tante osservanze della Quaresima e prendeva dall’anno liturgico le sue stagioni e le sue feste per inserirvi le sue più preziose istituzioni. Anche la vita privata ne risentiva la salutare influenza, e l’uomo v’attingeva ogni anno un rinnovamento di forze per combattere gl’istinti sessuali e risollevare la dignità della propria anima mettendo a freno l’attrattiva del piacere. Per molti secoli si richiese dagli sposi la continenza in tutto il corso della santa Quaresima; e la Chiesa, nel Messale (Missa pro sponso et sponsa), ha conservato la raccomandazione di questa salutare pratica.
Usanza delle Chiese d’Oriente.
Interrompiamo qui l’esposizione storica della disciplina quaresimale, col dispiacere d’avere appena sfiorata una materia così interessante [2]. Avremmo voluto fra l’altro dilungarci sulle usanze delle Chiese d’Oriente, che meglio di noi hanno conservato il rigore dei primi secoli del cristianesimo; ma ce ne manca assolutamente lo spazio. Ci limiteremo, perciò, ad alcuni sommari dettagli.
In altra parte della nostra opera il lettore ha potuto osservare, che la Domenica che noi chiamiamo di Settuagesima, presso i Greci è chiamata Prosfonesima, per annunciare imminente l’apertura del digiuno quaresimale. Il lunedì appresso viene contato per il primo giorno della seguente settimana, chiamata Apocreos, dal nome della Domenica con la quale essa termina e che corrisponde alla nostra di Sessagesima; la parola Apocreos è un avvertimento per la Chiesa greca, che fra poco si dovrà sospendere l’uso della carne. Il lunedì seguente apre la settimana chiamata Tirofagia, la quale termina con la Domenica che ha questo nome, cioè la nostra Quinquagesima; durante questa intera settimana non sono permessi i latticini. Finalmente, il lunedì che segue è il primo giorno della prima settimana di Quaresima, il cui digiuno comincia fin da questo lunedì in tutto il suo rigore, a differenza dei Latini che lo aprono il mercoledì.
Durante tutto il periodo della Quaresima propriamente detta, i latticini, le uova e anche il pesce sono proibiti; l’unico nutrimento possibile con il pane sono i legumi, il miele e, per chi abita vicino al mare, le diverse conchiglie ch’esso fornisce loro. L’uso dei vini, per tanto tempo proibito nei giorni di digiuno, ha finito per introdursi anche in Oriente, come pure la dispensa di mangiare pesce il giorno dell’Annunciazione e la Domenica delle Palme.
Oltre poi la Quaresima di preparazione alla festa di Pasqua, i Greci ne celebrano ancora altre tre nel resto dell’anno: quella che chiamano degli Apostoli che va dall’ottava di Pentecoste fino alla festa dei SS. Pietro e Paolo; quella della Vergine Maria, che comincia col primo agosto e finisce con la vigilia dell’Assunta; e finalmente la Quaresima di preparazione al Natale, che dura quaranta giorni interi. Le privazioni che i Greci osservano durante queste tre Quaresime sono simili a quelle della grande Quaresima, però non così rigorose.
Le altre nazioni cristiane dell’Oriente pure celebrano diverse Quaresime e con un’austerità anche maggiore di quella osservata dai Greci. Ma tutti questi particolari ci porterebbero troppo lontani. Perciò concludiamo qui tutto quello che dovevamo dire della Quaresima dal punto di vista storico, per passare ad esporre i misteri che questo sacro tempo contiene.