XVI – LAVABO
Mentre s’incensa il coro e i fedeli, il sacerdote si lava le mani, cerimonia che è stata collocata a questo punto perché il sacerdote ha toccato il turibolo, che lascia sempre sulle mani qualche traccia di fumo. Ma, al tempo stesso, l’abluzione delle mani racchiude un significato misterioso, poiché con essa si manifesta la necessità che v’è per il sacerdote di purificarsi sempre più, a misura che avanza nel santo Sacrificio. Come Nostro Signore ha lavato i piedi agli Apostoli prima d’istituire la Santa Eucaristia e dar loro la santa Comunione, così anche il sacerdote deve purificarsi.
Nella liturgia ambrosiana il rito di lavarsi le mani si compie nel corso del Canone, prima della consacrazione; il significato è sempre lo stesso, cioè la necessità che ha il sacerdote di purificarsi, però il momento scelto dalla Chiesa romana, sempre così saggia e prudente nelle sue decisioni, è preferibile a quello adottato dal rito ambrosiano.
Per accompagnare quest’azione, che indica quanto grande deve essere la purezza del sacerdote, la Chiesa ha scelto il salmo 25, che si trova nell’Ufficio monastico al primo notturno del mattutino della domenica: Judica me, Domine, quondam ego in innocenza mea ingressus sum, “fammi giustizia, o Signore, perché cammino nell’innocenza”. In questo salmo è Nostro Signore che parla; ben si comprende, infatti, che il sacerdote non potrebbe applicar a se stes?so queste parole. La Chiesa gliene fa dire solamente la metà, cominciando dalle parole: Lavabo inter innocentes manus meas et cir-cumdabo altare tuum, Domine…, “lo voglio lavare le mie mani, o Signore, e rendermi simile a coloro che sono nell’innocenza, per essere degno di avvicinarmi al tuo altare, di ascoltar i tuoi sacri cantici e di narrare le tue meraviglie”. Tutte parole che s’adattano perfettamente alla circostanza.
Più innanzi consideriamo questa parola del Profeta: Domine, dilexi decorem domus tuas, et locum habitationis gloriae tuae, “Signore amo la bellezza della tua casa, il luogo che hai scelto per abitazione della tua gloria”. Davide parla qui del tabernacolo, all’ombra del quale si sentiva felice, quantunque il tempio non esistesse ancora, poiché fu co?struito da Salomone. Il sacerdote recita il salmo sino alla fine, avendo così il tempo necessario per lavarsi e asciugarsi le mani.
Quest’altro versetto: Ego autem in innocentia mea ingressus sum, “sono entrato con la mia innocenza”, ci prova ancora una volta che questo salmo si riferisce a Gesù Cristo; il sacerdote lo dice dunque in nome di Nostro Signore col quale costituisce, durante l’azione del Sacrificio, un essere unico.
Nelle Messe dei defunti e nel tempo di Passione (nella Messa propria del Tempo), si omette il Gloria Patri alla fine del salmo. L’omissione del Gloria in questo punto si fonda sulla medesima ragione per cui si omette il salmo Judica all’inizio della Messa.