di don Nicola Bux
(Relazione al Convegno sul Summorum Pontificum – Madrid, 24 aprile 2010)
1. “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine(cfr Gv 13,1) in Gesù Cristo crocifisso e risorto”[1]. Se Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, questi perde l’orientamento con le conseguenze deleterie che constatiamo, in primis la deriva etica e l’immoralità. Ora, la Chiesa e il Successore di Pietro esistono per condurre gli uomini a Dio e in secondo luogo unire i credenti. Queste le ragioni addotte da Benedetto XVI, della revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità S.Pio X fondata da Mons.Marcel Lefebvre.
Queste ragioni si ritrovano nel Proemio della Costituzione sulla sacra Liturgia, il primo testo fondamentale del concilio ecumenico Vaticano II, che “ritiene suo dovere interessarsi in modo speciale anche della riforma(instaurandam) e dell’incremento (fovendam) della Liturgia” (1). Quantunque si parli nei testi magisteriali di “riforma liturgica del Concilio (liturgica Concilii reformatio)”[2], il verbo ‘instaurare’ – tanto in latino tanto in italiano – va inteso come restaurare e non già come trasformare. ‘Instaurare’, allora, significare ‘ritornare ai fondamenti’. Mi sembra questo il senso di ‘riforma’ nell’insegnamento di Benedetto XVI e prima di Joseph Ratzinger teologo e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “Io sono evidentemente per il Vaticano II, che ci ha portato tante belle cose. Ma dichiarare ciò insuperabile e giudicare inaccettabile ogni riflessione su ciò che noi dobbiamo riprendere dalla storia della Chiesa, ecco un settarismo che io non accetto! […] io sono per la stabilità! Se si cambia la liturgia ogni giorno, essa non è più vivibile! Bisogna anche avere un po’ di memoria: personalmente, tutto quello che ho vissuto in più di settanta anni ha nutrito la mia spiritualità. Ma, d’altra parte, il fissismo – “Ora tutto è fatto…” – è comunque sbagliato. Infatti, spetta ad ogni generazione valutare ciò che si può migliorare per essere sempre più conformi alle origini e al vero spirito della liturgia. E io penso che ci sia effettivamente materia anche oggi, per la nuova generazione, per “riformare la riforma”. Non attraverso delle rivoluzioni (io sono un riformista, non un rivoluzionario…), ma cambiando ciò che deve essere cambiato. Dichiarare ogni riforma impossibile mi sembrerebbe un dogmatismo assurdo”[3].
2. Ora veniamo alla liturgia come intesa dalla Costituzione liturgica. La Chiesa è una realtà divina e umana, permanentemente rivolta a Gesù Cristo che riconosce presente in mezzo a lei grazie alla potenza dello Spirito Santo (cfr Sacrosanctum Concilium 7): tale riconoscimento si chiama adorazione, cioè una religione o relazione di culto pubblico integrale o – dal greco – liturgia, che imita quella celeste come è descritta nell’Apocalisse (cfr ivi). Lo sforzo imitativo tra quella celebrata in terra e la celeste porta necessariamente a deformazioni che necessitano poi di ri-forme, a cominciare da quella di se stessi, cioè della Chiesa e quindi della liturgia. Il fine della liturgia è la gloria e l’adorazione del Signore e non l’esibizione o peggio esaltazione di sé. Più l’uomo dà gloria a Dio Padre e più si salva. Bisogna sapere che il cielo è aperto da quando Gesù Cristo il Figlio di Dio vi è salito con l’Ascensione e dal quale egli scende nella liturgia con tutti i suoi santi (cfr 8). Tale esercizio di mediazione tra Dio e l’uomo è la liturgia e lo compie il sacerdote, dal latino ‘sacrum’, perciò “è azione sacra per eccellenza”( 7). Sacro non è la stessa cosa di santo: sono due concetti diversi. Il primo termine riguarda cose fisiche o giuridiche (la vita, la legge…); il secondola persona. Unfedele laico può essere un santo, un sacerdote può non essere santo, anche se è un ministro sacro. Infatti può amministrare ‘cose sante’, i sacramenti, ma non essere santo. La definizione del sacro è l’irruzione della Presenza divina, della vita soprannaturale, il massimo di vita e di purezza: è questo il criterio per ordinare i segni nella liturgia.
La sacra o divina liturgia – termini con cui è definita rispettivamente dai latini e dagli orientali “non è una rappresentazione fredda e priva di vita degli eventi del passato o un semplice e vuoto ricordo di un tempo passato. Ma piuttosto Cristo stesso sempre vivente nella sua Chiesa” [4]. La presenza di Cristo cambia nel suo essere l’uomo, toccando e santificando tutti i momenti della vita [5], unendo gli uomini e proponendo la Chiesa quale segno di salvezza che raccoglie i dispersi[6]. Così scrive Pio XII nella enciclica Mediator Dei, fondamentale per comprendere la Costituzione liturgica: si capisce meglio la celebre frase: “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” (cfr 10). Soprattutto “i segni visibili, di cui la sacra liturgia si serve per significare le realtà divine invisibili, sono stati scelti da Cristo o dalla Chiesa”(33): questo è essenziale per capire la sua sacralità, quindi la sua immutabilità. E’ di istituzione divina, possiamo dire di diritto divino ed è opus publicum. Si configura qui l’ ius o dimensione giuridica della liturgia. Forse la valutazione di alcuni studiosi per i quali “SC 21 distingue la parte mutabile della liturgia dalla parte immutabile senza però definire quale quest’ultima sia”[7] può essere riveduta almeno quanto ai principi.
Quindi l’ “accurata riforma generale” della liturgia che il Vaticano II riprendeva in continuità con la Mediator Dei e l’opera di Pio XII aveva tali intenti; non certo toccare questa “parte immutabile, perchè di istituzione divina” (Sacrosanctum Concilium 21), ma quelle parti in cui “si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della liturgia, o si fossero resi meno opportuni” (ivi). Tale riforma doveva tener conto di alcune norme generali: che regolare la sacra liturgia compete unicamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto (non in deroga ma in applicazione), al vescovo ed entro certi limiti alle assemblee episcopali territoriali. “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(22,3); anche per il fatto che: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa …” (26).
La Costituzione liturgica pone una condizione per la riforma: “Per conservare la sana tradizione e aprire però la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale. Inoltre si prendano in considerazione sia le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia, sia l’esperienza derivante dalla più recente riforma liturgica e dagli indulti qua e là concessi. Infine, non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti”(23).
Si deve constatare, insieme ad autorevoli studiosi che pure erano stati periti conciliari, che tale auspicio è stato disatteso. Un esempio: la Costituzione liturgica raccomanda che i riti non abbiano bisogno di molte spiegazioni (cfr ivi, 23), ma solo nei momenti più opportuni (cfr 35,3); invece si assiste a liturgie dove l’eloquenza dei segni è subissata da una colluvie di parole e didascalie che impediscono ai primi di parlare al cuore del fedele.
Un altro esempio: si invita a ristabilire nella Messa ciò che è caduto in disuso, secondo la tradizione dei padri(cfr 50): l’uso del latino, da conservare nei riti latini (cfr 36,1), mentre la lingua volgare si concede nelle letture e monizioni, in alcune preghiere e canti, nell’orazione comune e altre parti spettanti al popolo (cfr 54); si esorta anche a che “si abbia cura però che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi”(54); per i chierici l’ufficio divino in lingua latina (cfr 101,1). Perché il latino? La liturgia non è una devozione privata nella quale rivolgersi a Dio in modo individuale, con la propria lingua, ma azione pubblica della Chiesa che per l’occidente ha la sua lingua liturgica e sacra, il latino, fattore di unità ecclesiale oltre che culturale. Inoltre, il latino è garanzia di ortodossia del linguaggio dottrinale e liturgico. Certo, la comunicazione di Dio all’uomo nella Scrittura è giusto che per essere compresa possa avvenire nella liturgia anche in lingua vernacola; ma è altrettanto degno e giusto che la comunicazione della Chiesa col Signore avvenga ‘una voce dicentes’, come fa comprendere l’espressione conclusiva del prefazio: e il latino esprime ciò adeguatamente. Gli orientali questo principio l’hanno conservato, usando, per esempio, l’aramaico, il greco antico e lo slavo ecclesiastico. Poi, non conserviamo nella liturgia latina parole ebraiche e greche come amen, alleluia, osanna? Nella cosiddetta società multiculturale odierna e con lo strumento di internet, l’argomento dell’incomprensibilità del latino è superato, in primis per i giovani.
Così per il gregoriano: la Costituzione liturgica afferma che è riconosciuto dalla Chiesa e gli è riservato nella liturgia il posto principale perchè è il canto proprio della liturgia romana (cfr 116) e i suoi libri sono da rieditare: lo ha fatto Paolo VI col Graduale simplex (36,1, 37 e 117). Il gregoriano è musica sacra perchè ha una oggettività che prescinde dal gusto soggettivo, anche se se ne serve. Perciò, va rimediata la sparizione del repertorio musicale rimpiazzato dalla musica derivata dalla cultura profana, secolarizzata e incompatibile col Vangelo. Quanto all’arte sacra, per garantirla la Chiesa si riserva il diritto di essere arbitra delle forme artistiche (Ivi,122) e di valutare ciò che può essere ritenuto sacro perché rispondente alla fede, alla pietà e ai canoni della tradizione (cioè le norme religiosamente tramandate), allontanando dalla casa di Dio quelle contrarie “che offendono il genuino senso religioso,o perché depravate nelle forme, o perché mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica”(124). In tal senso la Costituzione invita alla revisione dei canoni dell’arte sacra (cfr 128).
3. C’è un insegnamento previo di J. Ratzinger che traduce la Costituzione liturgica: da dottore privato, teologo perito del Concilio e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha prodotto studi alcuni dei quali ora raccolti nell’Opera omnia e in parte reperibili in Davanti al Protagonista e soprattutto nell’Introduzione allo spirito della liturgia tradotto in molte lingue. Da collaboratore di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ecclesia de Eucharistia a cui è seguita la Istruzione Redemptionis sacramentum.
Alcuni mesi prima dell’elezione pontificia, egli si è appellato ad un’altra riforma liturgica che rappresenterebbe un vero “sviluppo organico” in rapporto al movimento liturgico come si è svolto fino al 1948 e che ha preso corpo nelle riforme di Pio XII. Egli presenta la riforma post-conciliare come una deviazione della vera riforma pensata in Concilio e che questo stesso avrebbe voluto armonicamente continuare: non di rottura ma di continuità, per usare i termini da lui stesso usati nel celebre passaggio sull’ermeneutica del Concilio nel discorso tenuto alla Curia Romana il 22 dicembre 2005 a pochi mesi dall’elezione. Paolo VI aveva istituito un Consilium ad exsequendam (per eseguire) la Costituzione liturgica non per interpretarla o stravolgerla. Ci sarà bisogno dello studio d’archivio, in specie del diario del segretario mons. Bugnini, per capire se le prime riforme postconciliari, quelle del 1964-1965, fossero nell’alveo stabilito dal concilio, prima della svolta radicale del 1967 con la cosiddetta “messa normativa” presentata al sinodo dei vescovi e che sorprese la maggior parte di loro: una messa nuova in cui era abolita la specificità essenziale della liturgia romana, cioè la preghiera eucaristica unica. Questo giudizio è condiviso oggi da non pochi liturgisti [8].
Ora che è pontefice, con l’Esortazione Sacramentum caritatis e il Motu proprio Summorum Pontificum, si può parlare di avvio della “riforma della riforma”. La liturgia resta sempre «culmine e fonte» della vita della Chiesa (cfr Sacramentum caritatis nn. 3, 17, 70, 76, 83, 93).
Dunque, nell’insegnamento di Benedetto XVI la riforma della liturgia deve avvenire in modo organico, modificarsi un po’ come si modifica il paesaggio, in modo impercettibile, naturale nell’evoluzione. In tal senso vanno intesi i principi generali per il restauro e l’incremento della liturgia nella Costituzione conciliare. La chiave per capire i successivi articoli è il 14: lo scopo della riforma è la partecipazione dei fedeli, ove il termine actuosa, tradotta con attiva, significa invece interna e contemplativa, di mente e di cuore [9]; così l’hanno sempre intesa e raccomandata la tradizione e i pontefici.
Lo spirito da cui scaturisce la riforma è indicato nei n 15-19: la riforma comincia dall’educazione e formazione del clero, a cominciare dal seminario, e dei laici a partire dal catechismo, allo “spiritu et virtute liturgiae”, altrimenti si tratta di attivismo. I fondamenti della liturgia sono ora reperibili nel Catechismo della Chiesa Cattolica art. 1077-1112.
L’alveo in cui deve rimanere la riforma dei riti è descritto, come già detto, nell’“avvertenza” di Sacrosanctum Concilium 23: “…che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti”. Questo richiama l’art. 50 circa l’instaurazione di pratiche cadute in disuso. La frase cruciale del 23: “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa” spiega che la riforma che il concilio dava mandato di fare, non era un ‘assegno in bianco’ per una riforma liturgica radicale, ma per una equilibrata e moderata, prudente e tradizionale. Per esempio, circa la riforma della Messa, la Commissione liturgica del Concilio aveva assicurato i padri così: “Hodiernus Ordo Missae, qui decursu saeculorum succrevit, retinendus est”[10]. Cosa è successo con quella promulgata nel 1969?
4. Dunque il concilio ha voluto dire che la liturgia è suscettibile di riforma, ma deve essere uno sviluppo organico e non un’innovazione radicale. In tal senso si sono espressi studiosi come Jounel. La Chiesa non deve inventare le forme dei suoi riti, nati dalla tradizione apostolica, non deve la liturgia apparire come una rottura col passato o come una rivoluzione dei riti. La liturgia è vita e questa, ordinariamente non si sviluppa attraverso mutamenti repentini [11]. La riforma postconciliare è andata oltre i legittimi e tradizionali confini che il concilio stesso aveva stabilito: pur enunciando i principi in modo preciso “la loro forza normativa vien fortemente attenuata dalle non poche e sempre generiche eccezioni previste…A tali eccezioni, infatti, va ricondotta la rozza situazione di anarchia liturgica ch’è sotto gli occhi di tutti e sta quotidianamente ingigantendosi”[12].
Se la liturgia ha subito seri danni, come va riparata? 1. Seguire il Papa che sa bene come fare; 2. Studiare; 3. Celebrare degnamente. “Ciò che era sacro rimane sacro”, ha scritto nel Motu proprio. Dove cominciare la riforma della riforma? “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”[13]. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Perciò vanno eliminate le “deformazioni della liturgia al limite del sopportabile”[14]. La liturgia non può essere fabbricata, perciò c’è bisogno di arricchimento vicendevole tra la forma antica ora straordinaria e quella nuova ordinaria: questa dovrà ispirarsi al carattere sacro e stabile della prima. Perchè nella liturgia Cristo diviene contemporaneo a noi.
Ratzinger osserva che si è andati oltre col nuovo messale: così la crisi della Chiesa è dovuta alla crisi della liturgia, diventata senza regole, dimentica del ius divinum, self- made, “una danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”[15]. E aggiunge: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita […]come se in essa non importasse più se Dio c’è, e se ci parla e ci ascolta…”[16].
Allora si può riassumere la riforma di Benedetto XVI in tre priorità: 1. la nozione di participatio actuosa di ognuno alla Messa [17]: non troppe parole, non teatralizzazione, non spontaneismo e improvvisazione; salvaguardare il rito romano: per aprirci alle altre culture non dobbiamo dimenticare la nostra; 2. il posto del silenzio ‘riverente’ nella Messa (cfr SC 30); perchè l’azione a cui prendere parte è il dono di Cristo sulla Croce; la Costituzione liturgica non chiede di essere ‘attivi’ in ogni parte della Messa, ma di fare l’offerta di sé e l’adorazione (con i segni di croce, le mani giunte, l’inginocchiarsi con riverenza), soprattutto il silenzio dei fedeli e del sacerdote. 3. l’orientamento del sacerdote all’altare, specialmente dall’offertorio in poi. La posizione verso il popolo è stato un errore tragico, mutuato dal fraintendimento dell’Ultima Cena. Il sacerdote invece deve essere rivolto al Signore, il Sole che sorge, il Risorto e il veniente. Così la Chiesa ha espresso la vera forma della Messa cioè l’eucaristia “pignus futurae gloriae”, perché nella Messa la salvezza è incompleta. La Messa verso il popolo fa della liturgia un “cerchio chiuso”[18].
Dunque, bisogna ripartire dalla teologia della liturgia per un nuovo movimento liturgico: “come il (primo) movimento liturgico, che ha preparato l’avvento del concilio Vaticano II, è cresciuto rapidamente in una corrente impetuosa, così anche in questo caso l’impulso dovrà venire da chi veramente vive la fede. Tutto dipenderà dall’esistenza di luoghi esemplari in cui la liturgia sia celebrata correttamente, in cui si possa vivere di persona ciò che questa è…”[19] . Esso è già in atto, di giovani fedeli laici. Basta andare su internet.
E’cominciata una riforma paziente: “in questo tempo in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell’amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza”[20].
[1] Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi, 10 marzo 2009.
[2] Cfr. Redemptionis sacramentum, n. 4; Ecclesia de Eucharistia, n. 10. [3] Davanti al Protagonista, Siena 2009, p 181.
[4] Pio XII, Enciclica Mediator Dei; DS 3855. [5] Ivi, 61.
[6] Ivi, 2.
[7] R.Amerio, IotaUnum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di E.M.Radaelli, Lindau,Torino 2009, p 561-562.
[8] cfr C.Barthe, La Messe a l’endroit, Orthez 2020, p 34.
[9] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello B. 2001, p 171-177.
[10] A.Reid, in Aa.Vv, The Genius of the Roman Rite. Historical, Theological and Pastoral Perspectives on Catholic Liturgy, ed.U.M.Lang, Chicago/Mundelein,Illinois,2010, p 208. [11] Cfr anche McManus, Bouyer, Jungmann in: ivi, p 204 s.
[12] cfr B.Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II: un Discorso da fare, Casa Mariana
Editrice, Frigento (Av), 2009, p 140. [13] Davanti al Protagonista, p 56-57.
[14] Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del Motu proprio Summorum
Pontificum, 7 luglio 2007, n.5.
[15] Via Crucis 2005: Meditazione IX stazione, Città del Vaticano 2005; cfr anche:
Introduzione allo spirito della liturgia, p 19.
[16] J.Ratzinger,La mia vita, San Paolo 1997, p 113. [17] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, p 168. [18] Ivi, p 77-78.
[19] J.Ratzinger, Dio e il mondo, S.Paolo 2005, p 380.
[20] V.Messori a colloquio con J.Ratzinger, Rapporto sulla fede, C. Balsamo 1985, p 10.