Riceviamo dall’amica Ilaria Pisa il suo personale, toccante e quasi casuale incontro con la S. Messa di sempre e le emozioni profonde che ha suscitato, emozioni che hanno cambiato la sua vita come quella di tanti altri fedeli.
Ringraziandola di cuore per questa testimonianza, ci auguriamo che con questo articolo inizi un proficua collaborazione con il nostro sito
di Ilaria Pisa
Ricordo solo che era una sera fredda, o forse un pomeriggio, ma già aveva fatto buio. La piccola chiesa di S. Giovanni Domnarum era troppo grande o i fedeli troppo pochi, pochissimi giovani. Come spesso faccio, mi misi in fondo alla navata, non distante da un anziano signore che appariva spaesato quanto me, e ad un uomo di mezza età che tramite il messalino seguiva la celebrazione. Fu un trauma. Non capii nulla di nulla e mi sentii tremendamente fuori posto. Passarono alcuni mesi e nel giugno 2011, se non ricordo male, assistetti ad una nuova celebrazione, questa volta nella Basilica del Carmine. Andò meglio: i foglietti appositamente preparati dal mio migliore amico mi aiutarono a raccapezzarmi in quel rito per me così diverso, così misterioso. Poi venne una terza Missa, e una quarta, e poi tante altre, al punto che non le conto più: del resto quale innamorato “conta” gli appuntamenti con la sua amata? Semmai, conta i giorni che lo separano dall’incontro. Il santo rito di sempre mi portò in tante chiese, e di tutte la bellezza appariva illuminata, esaltata dal nobile, austero, genuino splendore di quelle parole, di quegli atti, di quella lex orandi che – avrei scoperto a poco a poco – mi interrogava profondamente sulla mia lex credendi, che pensavo di aver ormai acquisito e di non dover più ridiscutere. Quella Messa non era una semplice funzione religiosa, non era un appuntamento umano, non “piaceva” nel senso più banale ed estetico del termine, era divenuta una necessità, e tale sete di bellezza e di autenticità non accennava a sfumare, anzi cresceva sempre più. Il punto è che quando scopri uno scrigno pieno di tesori, quale è la Santa Messa di sempre, ti domandi anche perché sia rimasto tanto a lungo nascosto, chi lo abbia seppellito sottoterra, che cosa ci fosse di così grave da nascondere agli uomini e alle donne di oggi. Un rito troppo elitario, da intellettuali. Eppure, oggi siamo tutti mediamente colti, possiamo andare a scuola per anni senza che la miseria o l’isolamento ci costringano all’analfabetismo, abbiamo a disposizione mezzi di formazione e di informazione che i nostri avi si sognavano. Un rito freddo, formalistico. Eppure il calore, il fervore, l’ascesi quasi mistica che ho avvertito nella Santa Messa di sempre non li avevo mai sentiti prima, e nella “Messa nuova” non li ho mai provati, neppure dopo aver “scoperto” il rito antico. Una lingua morta, buona per i topi da biblioteca. Eppure l’icasticità, il ritmo, la forza di quelle parole venute da lontano mi presero il cuore più di quelle altre parole, familiari alle mie labbra da quand’ero bambina. Lascio a chi ha una preparazione storica e teologica la dolce incombenza di spiegare, nel modo splendido che ho sentito dal mio don Marino che mai ringrazierò abbastanza, che cosa sia successo cinquant’anni fa, perché i tesori della fede siano stati chiusi in un forziere e – quasi in una replica della parabola dei talenti – sepolti in un campo. Lascio a chi sa più di me il compito tutt’altro che semplice di spiegare ai fedeli che “dare le spalle” al mondo significa guardare verso il Signore, e che parlare una lingua “sconosciuta” ai più significa invece parlare la lingua in cui la Chiesa ha gioito, pianto, ammaestrato e ammonito lungo i secoli. Con queste poche righe, che sono quasi una pagina di diario, vorrei solo dire “grazie” a chi mi ha mostrato quei tesori, la cui luce ha cambiato completamente la mia vita, e dire “non abbiate paura” a chi pensa che quei tesori siano oggi anacronistici. La conversione del cuore avviene sì nel tempo, ma avviene perché l’eternità ci incontra, e ci fa capire che il tempo e la storia non hanno mai l’ultima parola sulle promesse e sui progetti di Dio.