di Pierfrancesco Palmisano
In molti – credenti o meno – suscitano “scandalo” le c.d. “ricchezze della Chiesa”, che dimostrerebbero “la non rispondenza agli insegnamenti di Gesù” e con le quali “si potrebbero salvare tutti i bambini del Terzo Mondo”.
Per affrontare questo spinoso (apparentemente) tema, abbiamo deciso di cominciare dalla fine, ovvero dai paramenti d’oro (e magari tempestati di pietre preziose) di Benedetto XVI, messi ad impietoso confronto con un bambino povero dell’Africa che muore di fame.
Ma, prima ancora di iniziare, è bene ricordate come questi tempi (ultimi) siano tempi di grande confusione, non solo valoriale nella sfera soggettiva di ciascuno di noi, ma anche di confusione razionale, difficoltà di comprendere il “senso”, il “fine ultimo” delle cose, ovvero di rispondere alla domanda «a cosa serve la tal cosa? qual è il suo scopo? il suo fine?» e poi «come bisogna usare la tal cosa per raggiungere quel fine?».
Ovvero nel caso specifico, prima domanda: «A cosa serve la Chiesa?». Rispondiamo con estrema facilità: «la Chiesa (e tutti gli “atti” che compiamo in ambito religioso) servono alla salvezza della propria anima». Ovvero la Chiesa non ha il compito di essere un ente di assistenza dei poveri, non ha il compito di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. «Ma come? – dirà qualcuno – non è proprio questo l’insegnamento di Cristo? Non è stato proprio Lui a dirci di dare da mangiare agli affamati ed agli assetati?».
L’obiezione è esatta, soltanto che, non è una obiezione!
Infatti pur essendo vero che Cristo ha detto di dare da mangiare agli affamati, bere agli assetati, assistere i malati, accogliere i forestieri etc, va assolutamente fatto notare che Egli non lo ha detto “alla Chiesa”, ma lo ha detto a noi! Lo ha detto a noi, a ciascuna singola persona, a ciascun “cristiano”! Non lo ha detto a Enti o Istituzioni e neppure all’unica Istituzione divina e soprannaturale da Lui stesso fondata.
Ed anche qui però, chiediamoci, qual è lo scopo? Perché dobbiamo dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati? La risposta è che dobbiamo farlo non soltanto e non principalmente per alleviare la fame dell’affamato e la sete dell’assetato (a ciò basterebbero gli Enti benefici e variamente “filantropici” su menzionati), quanto piuttosto per salvare la nostra anima! Dunque anche tale gesto, umanamente “altruista”, è in realtà un gesto “egoistico” (di quell’unico egoismo consentito ed approvato da Cristo stesso) in quanto con tale gesto si baratta qualcosa di scarso valore (un po’ del nostro tempo e del nostro danaro) con qualcosa di elevatissimo valore (la salvezza eterna della nostra anima)!
Dunque l’esistenza dei poveri (pur essendo sicuramente una conseguenza delle “ingiustizie sociali” del mondo in cui viviamo, che a loro volta sono una conseguenza della imperfezione e malvagità degli uomini, che a loro volta sono una conseguenza della natura “malata” dell’uomo, che a sua volta è una conseguenza del peccato originale[i]) è permessa da Dio (che sa sempre ricavare dal male un bene superiore) quale strumento attraverso il quale i più ricchi (o semplicemente i meno poveri), esercitando la Carità, ovvero l’amore verso il prossimo (in virtù dell’amore verso Dio) possano compiere le c.d. “buone opere” co-necessarie (insieme alla Fede) alla salvezza della propria anima.
Orbene, uno degli aspetti “satanici”[ii] delle moderne società è l’aver delegato ad Istituzioni di varia natura e genere il compito dell’assistenza ai poveri… Ciò che veniva denunciato da Attilio Mordini nei confronti degli stati comunisti, ovvero che gli stessi, volendo rendere gli uomini tutti ugualmente benestanti (almeno nelle intenzioni) avrebbero di fatto resa impossibile la Carità[iii], trova analoga, seppur leggermente diversa, applicazione nella modernità: l’assistenza ai poveri viene “delegata” dal singolo “cristiano” ad istituzioni astratte: lo Stato, la Caritas, la Chiesa, la Parrocchia, l’Unicef, la FAO, etc etc etc… Ma queste astratte istituzioni hanno forse un’anima da salvare? No di certo! Sono istituzioni anonime, anodine burocrazie! Se lo Stato italiano aiuta 10mila poveri, quale anima se ne giova? Nessuna! Se invece fossero stati 10mila italiani a prendersi cura, ciascuno, di un povero, essi avrebbero compiuto una “buona opera” che sarebbe stata “tenuta in buon conto” dal Divin Giudice per il Giudizio particolare che attende ciascuno di noi!
Ed invece accade che lo Stato, o la Caritas (che gode di contributi statali), con i miei soldi pagati per generiche tasse (e quindi senza neppure nessuna particolare intenzione meritoria da parte mia!) “aiuta i poveri”, togliendomi la possibilità di aiutarli io stesso. Quindi i miei stessi soldi, pagati in tasse, vengono usati per arrecare un ulteriore ed occulto[iv] danno alla mia anima.
Naturalmente, in realtà, ciascuno di noi può ancora incontrare un “povero” o un “barbone” per la strada ed invitarlo a mangiare a casa propria. Ma questa cosa, oltre a non farla per motivi egoistici (parlo di quell’egoismo stupido che in realtà ci trattiene dall’effettuare il “lucroso baratto” di cui ho parlato sopra), probabilmente a molti non viene neppure in mente… Quando incontriamo un povero o un mendicante ci viene piuttosto in mente una frase del tipo: «ma guarda, è tutta colpa dello Stato , del Comune, dell’assistenza sociale, della Chiesa etc etc etc se questo poveraccio sta qui per strada al freddo senza cibo! Tutta colpa dei politici, degli assessori, dei preti etc etc etc!!!»
Ecco: colpa degli altri (preferibilmente istituzioni senz’anima), mai colpa mia…! E mai che venga colta la grande occasione ed opportunità di “guadagno” per la nostra anima che ci si presenta innanzi… Eppure Gesù stesso ebbe a dire «Procuratevi amici potenti con la disonesta ricchezza…». Sembra una frase degna di qualche politicante corrotto(se non compresa) ma in realtà il Divin Maestro ci stava dicendo che con le nostre ingiuste ricchezze (ovvero con le ricchezze che possediamo in più rispetto a quello che ci serve per la nostra sussistenza[v]) dovremmo aiutare i poveri, che sono “amici potenti” perché la loro preghiera di ringraziamento sarà ben accetta a Dio e perché alcuni di loro ci precederanno in Paradiso.
Invito tutti a leggere un qualche romanzo di scrittori dell’ottocento o precedenti. Si troverà spesso la figura di qualche dama o di qualche nobiluomo, o ricco borghese, ma anche semplici contadini, che si dedicano – come attività del tutto usuale – ad accogliere nella propria casa poveri o pellegrini, nutrendoli ed assistendoli personalmente, proprio per compiere questa opera di Carità. Grande vantaggio per le loro anime!
Davvero un bell’hobbie!
Perché non lo pratichiamo anche noi?
In molti preferiscono dedicarsi piuttosto all’assistenza dei poveri cagnolini randagi[vi], ma anche questo non credo sarà computato a loro vantaggio in occasione dell’Eterno Giudizio.
Ma torniamo alla Chiesa. Compito della Chiesa non è dunque fare Lei assistenza ai poveri (come detto ne fa già fin troppa – contrariamente a quel che “mariadefilippicamente” si ritiene), ma esortare ed insegnare ai cristiani ad amare il prossimo, dare da bere agli assetati, da magiare agli affamati, assistere ed accogliere i poveri ed i barboni, etc etc…
«Ma – dirà sempre il qualcuno di prima – il buon esempio? Se la ricchezza è un peccato, perché il papa va vestito tutto d’oro? Perché nelle chiese ci sono i candelabri d’oro, i calici d’oro, gli altari d’oro, le statue d’oro, i tappeti d’oro, i rubinetti d’oro? Se Cristo e gli Apostoli erano poveri, perché anche la Chiesa non è povera?»
Buon argomento, al quale vale la pena di rispondere.
Innanzitutto, faccio notare che non è vero che essere ricchi sia un peccato. Rileggiamo i dieci comandamenti: non c’è “non essere ricco”. Rileggiamo i sette vizi (o peccati) capitali: non è “ricchezza”. Dunque sorprendentemente (per i moderni anticlericali tanto preoccupati che la Chiesa sia “coerente” e non “ipocrita”[vii]) essere ricchi non è un peccato.
Però la povertà è preferibile, anzi è un elemento di perfezione. Vale la pena di riportare e commentare il seguente famoso passo del Vangelo di Matteo:
«Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Egli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. Ed egli chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso”. Il giovane gli disse: “Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?”. Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze. Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”»[viii]
Dunque, da quanto Cristo dice, si deduce chiaramente che non è strettamente necessario essere poveri per ottenere la vita eterna. Infatti inizialmente Gesù dice al giovane di osservare i dieci comandamenti di Mosè, al quale aggiunge “ama il prossimo tuo come te stesso”. Solo successivamente, poiché il giovane insiste, Gesù gli dice: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri…”. La povertà è dunque un qualcosa in più, mentre il rispetto dei dieci comandamenti e l’amore verso Dio e verso il prossimo sono fondamentali.
Poi, però, Cristo ci ricorda che è (umanamente) molto difficile per un ricco entrare nel Regno dei Cieli.
Perché?
Perché la ricchezza non è, in sé, un peccato, ma è molto facile che la ricchezza induca a peccare… Proviamo a porre ad uno qualsiasi dei nostri amici o conoscenti la fatidica domanda “cosa faresti se vincessi 100 milioni di euro al superenalotto?”… Ben difficilmente otterremo risposte edificanti.
E tuttavia – lo ripetiamo – non è la ricchezza in sé ad essere peccaminosa. Supponiamo di spendere 50mila euro per una autovettura. Potremmo acquistare un’auto sportiva, con la quale “rimorchiare” ragazze, o un mini-pulmino, con il quale accompagnare le vecchiette alla Messa. In entrambi i casi avremmo la stessa “ricchezza” (un autoveicolo da 50mila euro), ma nel primo caso la ricchezza sarebbe stata utilizzata per finalità “edonistiche”, nel secondo caso per compiere un’opera di bene. Come si vede, dunque, la differenza non è nella ricchezza, ma nell’uso che se ne fa.
Da sempre la Chiesa ha insegnato che la ricchezza deve essere “ordinata al bene”, cioè “utilizzata a fin di bene”. E – senz’altro – rendere culto a Dio è un’opera di bene, anzi L’OPERA di bene per eccellenza (sebbene la mentalità moderna non concordi). Paramenti, calici, candelabri etc d’oro costituiscono una ricchezza utilizzata a fin di bene, in quanto sono diretti a rendere culto a Dio. Ed infatti possiamo fare la “prova del 9” chiedendoci: «queste “ricchezze” spingono ad un qualche peccato?» Ci accorgeremo che la risposta è negativa. Un Pontefice od un vescovo non portano una “collana d’oro” od un “anello d’oro” per soddisfare qualche desiderio peccaminoso. Non sono paragonabili agli ornamenti di una ragazza o di un giovanotto che servono per essere “più belli”, “più affascinanti” e poter in tal modo più facilmente soddisfare, ad esempio, i propri desideri lussuriosi. Tali ricchezze non inducono alla “pigrizia” come quelle di chi “vive di rendita”. Tali ricchezze non conducono a “peccati di gola” come quelle spese per organizzare banchetti.
Prendiamo l’esempio di un Pontefice Santo quale Pio XII. Egli indossava senz’altro tutti i paramenti d’oro necessari alle varie circostanze liturgiche, utilizzava candelabri e calici d’oro dei più preziosi. E tuttavia lo stesso dormiva, per fare penitenza, su dure tavole di legno e si cibava, per gran parte dell’anno in maniera molto modesta. Lo stesso si può dire per Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti (già molto “potenti” sin da quando il fondatore era in vita) che tuttavia per tutta l’ultima parte della sua vita si cibò solo di pane ed acqua.
E allora mi chiedo e vi chiedo: chi vive con maggiori “comodità”? Chi utilizza paramenti e calici d’oro per celebrare la Messa, ma poi dorme su tavole di legno e mangia solo pane ed acqua o chi, guadagnando mille o duemila euro al mese, torna a casa propria, mangia ciò che vuole e si corica con la propria moglie (anche questo dettaglio non di poco conto) su di un comodo materasso?
Non è dunque la ricchezza in sé ad essere peccaminosa, ma il peccato potrebbe nascere dall’animo umano che dalla ricchezza e dal più facile accesso che la stessa offre alle comodità mondane ed alle possibilità di peccare, si lascia tentare e corrompere.
Ma la storia ci ha offerto esempio di grandi personaggi, oggettivamente ricchi, che hanno vissuto santamente la propria condizione, avendo considerato con “distacco” e senza “cupidigia” la propria ricchezza ed avendola, anzi, utilizzata a fin di bene. Ci sono – ad esempio – numerosi casi di Re Santi, come San Luigi IX, Re di Francia, o Santo Stefano d’Ungheria, fino allo stesso Carlo Magno.
Per non parlare poi del grande salmista, il Re Davide, che veniva additato addirittura quale esempio di povertà ed umiltà[1], pur essendo egli stesso un Sovrano, poiché viveva con distacco la propria condizione, mettendo al primo posto Dio soltanto.
Dunque, visto che a Dio tutto è possibile, ci sono stati e ci saranno nella storia uomini ricchi che useranno santamente la propria ricchezza e che grazie ad essere potranno compiere opere benefiche divenendo pertanto santi. Ma, ordinariamente, la povertà è preferibile.
Ma la ricchezza, se utilizzata per rendere gloria a Dio, è ben utilizzata, come si è mostrato con alcuni esempi, e come Cristo stesso ci dice, nel brano seguente:
«Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”»[2].
Si noti, che è proprio Giuda Iscariota a fare l’obiezione dei laicisti ed anticlericali moderni: «ma quei soldi [che Maria, sorella di Lazzaro, utilizza per “rendere culto” a Gesù] non li potremmo utilizzare per darli ai poveri?». Leggendo il Vangelo di Marco, sembrerebbe addirittura che fu questo episodio a convincere Giuda a tradire Gesù[3]!
Si noti un’altra cosa fondamentale di questo passo: che Gesù e gli Apostoli erano personalmente poveri, ma avevano in comune una cassa!
Bisogna dunque distinguere fra povertà del singolo sacerdote o vescovo, che sarebbe cosa buona in quanto imitazione di ciò che fecero Gesù e gli Apostoli, e la “povertà della Chiesa” reclamata dai laicisti ed anticlericali!
La povertà della Chiesa (come istituzione) non è stata affatto e mai ordinata da Gesù! Non solo gli tutti gli ordini religiosi dal Medioevo (ed anche prima) in poi hanno sempre distinto fra povertà personale del singolo monaco o frate e possibilità (lecita) per l’ordine di detenere beni e ricchezze in proprietà od in uso, ma – come abbiamo visto – già gli apostoli, durante il tempo della predicazione di Gesù, avevano una “cassa in comune”, cosa che si potrà ulteriormente riscontrare leggendo anche gli Atti degli Apostoli.
Dunque, giunti in conclusione, vorrei riassumere in maniera schematica quanto detto, auspicando che queste considerazioni siano utili non tanto per i laicisti ed anticlericali (i quali troveranno sempre una “non buona” “sragione” per attaccare la Chiesa), quanto piuttosto per quei fedeli che rimangono “scandalizzati” da tali argomentazioni e non sanno in che modo rispondere né verbalmente né “in cuor loro”.
Abbiamo dunque dimostrato che:
1 – la ricchezza in sé non è un peccato;
2 – la ricchezza può essere utilizzata bene o male, ed usarla per rendere culto a Dio è un modo buono (anzi “IL modo OTTIMO”) di utilizzarla;
3 – il fatto utilizzare paramenti sacri, calici e candelabri d’oro non reca all’utilizzatore alcuna “comodità” né “agevolazione” nella sua vita personale, che anzi spesso è costellata di penitenze che l’uomo comune non pratica neppure lontanamente;
4 – ogni cristiano (quindi laici e sacerdoti allo stesso modo) personalmente è chiamato (“se vuole essere perfetto”) alla povertà, ma ciò non vuol dire che debba essere povera la Chiesa in quanto istituzione. Anzi fin dai tempi di Gesù gli apostoli avevano una “cassa”;
e soprattutto:
5 – ogni cristiano è chiamato, per amore del prossimo, a dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati etc, ed il “fine ultimo” di questi gesti non è tanto aiutare materialmente il povero, quanto aiutare spiritualmente chi compie il gesto. Pertanto delegare questo compito ad istituzioni astratte (Stato, Caritas, Chiesa, Servizi Sociali, ONU, etc) è un gravissimo errore che abbiamo additato come “inganno satanico”;
6 – pertanto, visto che il fine ultimo della Chiesa è quello di salvare le anime dei cristiani, Essa non deve fornire in prima “non-persona” (visto che è una “istituzione”, per quanto divina, e non una “persona”) assistenza ai poveri, ma deve insegnare ai cristiani la Fede e spingerli ad evitare i peccati e compiere le “buone opere” necessarie alla salvezza, fra le quali senz’altro c’è anche l’assistenza ai bisognosi che ciascuno di noi deve compiere.
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[i] va dunque fatto notare che qualsiasi ricetta “politica” e/o “sociale” che cerchi di risolvere il problema della povertà senza tener conto di questo dato di partenza è destinata ad essere – nella migliore delle ipotesi –del tutto inefficacie;
[ii] chiaramente usiamo il termine “satanico” non in senso strettamente letterale e rotocalchistico, ovvero alludendo a “messe nere” e roba del genere, ma nel senso non meno reale di “inganno satanico”, ovvero di una di quelle “idee” o “pratiche” che si diffondono e sembrano a tutti (o quasi) eminentemente buone, filantropiche, innocue etc etc, ma che in realtà, facendo leva sul “sentimentalismo”, conducono a conseguenze spirituali davvero devastanti. Chi volesse approfondire legga ad esempio W. Soloviev, I tre dialoghi ed il racconto dell’anticristo, ed. Vita e pensiero, o più modestamente il nostro articoletto “Il dolce musetto di Satana” pubblicato in due parti su questo stesso blog;
[iii] cfr. A. Mordini, Il tempio del Cristianesimo, ed. Sette Colori;
[iv] “ulteriore ed occulto”, chiaramente rispetto a tutti gli altri che conosciamo e riconosciamo in maniera più palese;
[v] cfr,ad esempio, San R. Bellarmino, L’arte di ben morire e S. Agostino di Ippona, discorso 113 sul Vangelo di Luca;
[vi] cfr. il già citato “Il dolce musetto di Satana” su questo blog;
[vii] la parola “ipocrita” è la preferita da costoro;
[viii] Mt 19:16-26
[1] un esempio fra i tanti possibili, ad attestare tale considerazione:
«Un tale disse al padre Giovanni il Persiano: “Abbiamo tanto penato per il regno dei cieli; lo erediteremo infine?”. E l’anziano disse: “Confido di ereditare la Gerusalemme dell’alto iscritta nei cieli: Colui che ha promesso è fedele, perché dovrei dubitare? Sono stato ospitale come Abramo, mite come Mosè, santo come Aronne, paziente come Giobbe, UMILE COME DAVIDE, eremita come Giovanni, contrito come Geremia, dottore come Paolo, fedele come Pietro, saggio come Salomone. E credo come il ladrone che colui che per la sua bontà mi ha donato tutto ciò, mi darà anche il regno dei cieli”». (Apoftegmata Patrum: 237d-240a).
[2] Gv. 12:3-8
[3] Mc 14:10
da www.radiospada.org