Per illustrare queste meravigliose giornate del Pellegrinaggio UNA CUM PAPA NOSTRO, culminate con la Processione verso San Pietro e con la S. Messa Pontificale, abbiamo deciso di pubblicare un bellissimo commento ricevuto da un anonimo pellegrino.
Sono reduce dalla partecipazione al pellegrinaggio “Una cum Papa nostro”, e non riesco ad astenermi dal formulare qualche considerazione a caldo, nella speranza che un così importante avvenimento prolunghi nel tempo i suoi frutti.
Nato dal desiderio di dare visibile sostegno ai sempre più numerosi e sempre più autorevoli pastori che, anche ai vertici della Chiesa, sostengono e promuovono la diffusione della liturgia tradizionale, le circostanze – apparentemente avverse; in realtà, io credo, del tutto provvidenziali – hanno trasformato il pellegrinaggio nella manifestazione spontanea e, vorrei dire, indifesa della fede, della lealtà, dell’entusiasmo, della tenacia e della speranza di tutti quei fedeli che, provenendo da origini spesso molto diverse tra loro, vedono nella Messa di sempre (è giusto chiamarla così, ad onta di tutte le precisazioni ed i distinguo storici e filologici, perché è la Messa che ci congiunge senza soluzione di continuità alle origini della Chiesa e della sua liturgia) la fonte perfetta della loro santificazione, l’espressione intatta della fede della Chiesa, la manifestazione completa della loro adesione alla Sacrificio Eucaristico e la realizzazione vera di quella actuosa participatio che troppo spesso ci si affanna a cercare dove non è, confidando solo nelle povere risorse dell’umana fantasia. Per questo è stato il pellegrinaggio del popolo – o, se preferite, della famiglia – del Summorum Pontificum: il pellegrinaggio in cui potevano porsi fraternamente l’uno accanto all’altro – e, grazie a Dio, è stato largamente così – sia quanti hanno trovato nel Motu Proprio il coronamento di un combattimento spesso pluridecennale, sia coloro che hanno scoperto solo da cinque anni una ricchezza della quale, senza il Summorum Pontificum, probabilmente non sarebbero mai venuti a conoscenza.
Pur avendo davanti agli occhi la realtà concreta dei fedeli, provenienti davvero da tutto il mondo, che si sono radunati a Roma, dobbiamo sempre ricordare che il pellegrinaggio non voleva rispondere alla domanda che, pure, talora noi stessi ci facciamo e molti altri, dall’esterno, ci fanno: siamo un movimento, un popolo, una famiglia?… questa domanda merita, però, un po’ di attenzione – anche se fosse solo per dire che è mal posta – perché ciascuno di noi deve sentire la responsabilità di svolgere nella Chiesa il ruolo che la Provvidenza, nonostante i nostri tanti demeriti, ci assegna. Non ho certo la pretesa di fornire la risposta, e nemmeno di avviare una riflessione – men che meno una discussione. Dico solo che la giornata conclusiva del pellegrinaggio mi è parsa “figura” di quello che è – o dovrebbe essere – il presente ed il prossimo futuro dei fedeli della Messa di sempre. Abbiamo iniziato in pochi, in San Salvatore in Lauro, in adorazione davanti al Santissimo Sacramento; abbiamo recitato il Rosario e l’Angelus, abbiamo ricevuto la benedizione eucaristica; dopo tre ore di adorazione, siamo usciti nella città, tra l’iniziale indifferenza degli astanti, apparentemente trascurabili e marginali (come siamo spesso considerati); abbiamo cantato a squarciagola le litanie dei santi, gli inni della tradizione, e, infine, il credo; siamo cresciuti di numero solo camminando per le strade, e in via della Conciliazione eravamo già più del doppio rispetto all’inizio; in piazza San Pietro ci eravamo davvero moltiplicati; poi siamo entrati in Basilica, dalla porta principale, attraversando la navata centrale tra lo stupore dei presenti: tutto questo con un misero altoparlante da processione rionale e con messalini stampati quasi in economia e portati pressoché a spalle da alcuni volonterosi fedeli.
Probabilmente, a molti tutto ciò è parso e continuerà ad apparire una debolezza, un’infelice espressione di ingenuo pressapochismo organizzativo: ma riuscire a raggiungere l’obiettivo – pur nella consapevolezza di quanto avrebbe potuto esser fatto meglio – contando, in buona sostanza, solo sulle forze che sono sorte spontaneamente dai coetus fidelium, ha forse dimostrato quanto i fedeli della Messa di sempre possono effettivamente realizzare, solo che si sforzino di uscire sempre più allo scoperto e non rinuncino ad occupare il posto che spetta loro, ad iniziare dalle parrocchie.
Il tonante Deo gratias dei fedeli che, all’Ite, ha riempito tutta la Basilica di San Pietro (lo si può ascoltare in internet) mi è parso la dimostrazione sonora che i fedeli del Summorum Pontificum hanno preso sul serio il fatto di non essere di troppo nella Chiesa: non riusciamo a vederci come cattolici di serie B, perché – pur gravati dal peso dei nostri peccati – non crediamo di avere una fede di serie B, né di amare una liturgia di serie B. E, non essendo figli di serie B, ci aspettiamo che i nostri pastori non si comportino con noi come padri di serie B.
Non so se sia appropriato dire che il Motu Proprio – del quale con il Pellegrinaggio abbiamo celebrato il quinto anniversario – è l’editto di Costantino della liturgia tradizionale, anche se lo trovo suggestivo; sono convinto, però, che siamo noi a dover credere per primi che, per la Messa di sempre, il tempo delle catacombe è finito, ed avere la forza di abbandonare i timori e le diffidenze che esse inevitabilmente comportano. È con questo spirito che abbiamo partecipato al pellegrinaggio “una cum Papa nostro”: non è uno spirito di rivincita, ma – come usa dire oggi – di servizio, e preghiamo che esso riesca a fortificarci per contrastare il Giuliano l’Apostata nel quale potremmo sempre imbatterci, e a favorire, se Dio vorrà, un futuro editto di Teodosio.
Un pellegrino