Tutti a Roma con il CNSP!
III PELLEGRINAGGIO INTERNAZIONALE DEL
POPULUS SUMMORUM PONTIFICUM
ROMA – NORCIA, DAL 24 AL 26 OTTOBRE 2014
TUTTI A ROMA CON IL CNSP!
Il CNSP è lieto di proporre a tutti i pellegrini italiani il programma di viaggio per partecipare al III Pellegrinaggio Internazionale del Populus Summorum Pontificum che si terrà a Roma e Norcia dal 24 al 26 ottobre 2014. Per cercare di soddisfare le esigenze di tutti, il programma prevede diverse opzioni.
I. A Roma in bus Gran Turismo
da Genova – Torino – Milano – Verona -Brescia – Bergamo – Bologna
Sistemazione in Istituto religioso zona Vaticano
Colazione e cene incluse: € 195,00 a persona in camera doppia (supplemento singola: € 30,00)
Sistemazione in Hotel 3*** zona Termini
Colazione e cene incluse: € 240,00 a persona a persona in camera doppia (supplemento singola: € 50,00)
La quota comprende: Bus G.T. a disposizione per gli spostamenti come da programma del pellegrinaggio (dalla Via Crucis di venerdì 24 ottobre fino alla Messa Pontificale di Norcia del 26 ottobre), tasse ingresso Roma, Parcheggi, sistemazione in Hotel / Istituto religioso per due notti (24 e 25 ottobre) con trattamento di colazione e cena.
NB: Il trasporto in bus G.T. potrà essere confermato solo da quelle città di partenza in cui si raggiungerà il numero minimo di 30 partecipanti
II. A Roma con mezzi propri
Solo soggiorno:
per ogni notte presso Istituto religioso zona Vaticano (comprensivo di cena e colazione): € 55,00 a persona in camera doppia (supplemento singola: € 15,00)
per ogni notte presso Hotel 3*** zona Termini (comprensivo di cena e colazione): € 70,00 a persona in camera doppia (supplemento singola: € 25,00)
III. Da Roma a Norcia e ritorno il 26 ottobre
Trasferimento in Bus da Roma Termini a Norcia a/r in giornata: € 35,00
Per evidenti ragioni organizzative (legate alla disponibilità alberghiera), è necessario iscriversi ENTRO IL 20 GIUGNO 2014. Il trasporto in pullman potrà essere confermato solo da quelle città di partenza in cui si raggiungerà il numero minimo di 30 partecipanti. PER OGNI INFORMAZIONE, CHIARIMENTO, RICHIESTA PARTICOLARE, E PER ISCRIVERVI!, VI PREGHIAMO DI CONTATTARE DIRETTAMENTE L’AGENZIA NITORIN di Piacenza (v. Morigi 75, Piacenza; tel. 0523/716510; fax 0523/716494; email nitorin@tin.it
I Coetus dell’Emilia Romagna in pellegrinaggio al santuario del Poggetto (Ferrara)
Lamentazione sui tempi presenti del Cardinale Giacomo Biffi
L’ideologia post-conciliare
Essa deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma attraverso un processo di “distillazione fraudolenta” immediatamente posto in atto all’indomani dell’assise ecumenica. L’operazione potrebbe schematicamente essere descritta così: la prima fase sta nella lettura discriminatoria dei passi conciliari, che distingue tra quelli accolti e citabili, e quelli da passare sotto silenzio; nella seconda fase si riconosce come vero insegnamento del concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito;con la terza fase si arriva a dire che la vera dottrina del concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coraggiosi, più coerenti. Con un metodo esegetico siffatto – non enunciato mai in modo esplicito, ma non per questo meno implacabilmente applicato – è facile immaginare i risultati. I quali, per quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono sempre messi in conto al Vaticano II; e chi si azzarda anche timidamente a dissentire è segnato col marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura classificato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti. E poiché tra i “distillati di frodo” dal Vaticano II c’è anche il principio che nessun errore può essere condannato nella Chiesa a meno di peccare contro il dovere della comprensione e del dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.
Concilio e “post-concilio”
Credo che il lavoro preliminare da compiere sia di distinguere accuratamente il concilio dal “postconcilio”, in modo che si possa accogliere il primo con totale cordialità e valutare il secondo alla luce del primo e di tutto l’insegnamento rivelato con animo libero da qualunque intimidazione e da qualunque ricatto culturale. Questa distinzione non deve turbare un cuore credente. Chi alla luce della fede riflette sulla storia della salvezza, sa benissimo che nella nostra vicenda come non c’è evento nefasto dal quale Dio non ricavi qualche bene per i suoi figli, così non c’è divino capolavoro che il demonio non tenti di tramutare per qualche aspetto in occasione di malessere e di rovina. Il che vale anche per il Vaticano II, opera senza dubbio provvidenziale e supernamente ispirata.
Gli “idoli” post-conciliari
Propiziati dal “post-concilio”, nella coscienza della cristianità contemporanea si celano, come nella sella del cammello di Rachele (Gn 31,19.34), molti svariati idoletti. Non tentiamo di ricordarli tutti ovviamente; ci limitiamo a segnalare quelli che più vistosamente influenzano tanto la ricerca teoretica quanto l’attività pastorale.
1. La “antropolatria”
Nei primi decenni del secolo XIX Feuerbach affermava che “il segreto della teologia è l’antropologia” e vagheggiava l’avvento di una teologia di nuovo genere, contrassegnata dal fatto “che essa pone nell’al di qua l’essere divino che la teologia comune, per paura e incomprensione, pone nell’al di là”. Viene da pensare che il pensatore tedesco, sia pure anonimamente, abbia fatto scuola presso molti cattolici della seconda metà del secolo XX e che la sua aberrante intuizione, probabilmente veicolata dalla grande ubriacatura marxista, dopo tanto tempo sia stata tacitamente ricevuta. L’uomo sembra divenuto l’unico oggetto dei nostri pensieri, dei nostri interessi, della nostra adorazione. E, nel desiderio di coglierlo in se stesso, nella sua autonoma e singolare natura, si è addirittura proposto da qualcuno che anche il credente debba guardare l’uomo “ut si Deus non daretur”, come se Dio non ci fosse, prescindendo cioè dal suo Creatore e valutando soltanto l’umanità come tale, presa a sé e separata da qualunque dipendenza e da qualunque superiore significazione. Sennonché l’uomo è intrinsecamente e non per un sopraggiunto rivestimento “immagine di Dio” e totale relazione a lui; e dunque escludere Dio sia pur metodologicamente dalla prospettiva sull’uomo vuol dire snaturare l’uomo e non coglierlo nella sua verità. Se con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa (Gaudium et spes, 36). Si arriva così anzi a una contraddizione esistenziale. Noi siamo “adoratori costituzionali”: privati ideologicamente del vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili impulsi latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni altra l’uomo. D’altra parte, l’uomo avulso dal suo Archetipo e dalla sua Sorgente è così fragile, debole, manipolabile, che, nell’atto stesso in cui crediamo di adorarlo, poniamo le premesse della sua profanazione. È facile rilevare come lo smarrimento del Padre abbia di solito fatalmente condotto sia al culto indebito della personalità e alla venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei fratelli. Naturalmente questa “antropolatria” non ha niente a che vedere con l‘“antropocentrismo” di chi riconosce nell’uomo “il culmine dell’universo e la suprema bellezza del creato”, colui che detiene “la sovranità su tutti gli esseri viventi”, come dice sant’Ambrogio. L’antropocentrismo è prerogativa essenziale del disegno divino, in quest’ordine di cose liberamente eletto tra gli infiniti possibili, dal momento che il Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo divinamente personalizzato, al centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli uomini a sé, facendoli partecipare, mediante l’inabitazione dello Spirito Santo, prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il rapporto privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e non lascia spazio ad alcuna forma di antropolatria. Antropolatria e antropocentrismo, anche se all’esterno possono presentare qualche somiglianza, nella realtà sono dunque diversi e incompatibili. L’antropolatria è propria di chi ha “cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile” (Rm 1,23); ed è l’approdo obbligato di chi, perdendo di vista l’Autore dell’essere e della vita, ha in sostanza una visione atea del mondo. L’antropocentrismo è proprio di chi onora l’uomo per quello che l’uomo è; esso non insidia affatto il culto del vero Dio, costituisce la predella da cui ci si può lanciare al riconoscimento del Padre. La cultura antropolatrica dà regolarmente origine a società disumane, nelle quali l’uomo – teoricamente adorato – è di fatto avvilito, reso servo, privato di ogni scopo plausibile dell’esistere. La cultura antropocentrica è un appello intrinseco al Padre e al suo disegno d’amore, senza di che l’uomo non solo non può essere visto come il centro di tutte le cose, ma appare piuttosto un frammento trascurabile di materia alla deriva sul mare dell’insignificanza. L’esteriore somiglianza può talvolta indurre in equivoci; ma non – c’è dialogo o convivenza possibile tra antropolatria e antropocentrismo, a meno che l’una o l’altra comincino a non essere più nei fatti quello che il loro nome significa in sé. In realtà la questione della riscoperta del Padre è preliminare a ogni serio discorso su un umanesimo non illusorio. Una delle citazioni più frequentemente ripetute in questi anni è la splendente frase di Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”. Se ne coglierebbe meglio la verità, si eviterebbe il pericolo di travisamenti ideologicamente strumentalizzati, si dimostrerebbe maggior rispetto verso il pensiero dell’antico scrittore, se ci si abituasse a riferirla nella sua integrità: “La gloria di Dio é l’uomo vivente; ma la vita dell’uomo sta nella contemplazione di Dio”.
2. La “cronolatria”
Il secondo idolo è stato indicato da J. Maritain, quando ha parlato di “cronolatria” o “adorazione dell’attualità”. La lucidità della denuncia del pensatore francese non ha però impedito che questo “culto” si estendesse e si affermasse sempre più nella cristianità, al punto da essere ormai un’abitudine mentale acquisita che neppure sente più il bisogno di giustificarsi. Senza affermarsi mai espressamente, essa trapela in modo spesso involontario e quindi tanto più significativo dal linguaggio d’uso corrente, nel quale l’aggettivazione del biasimo teorico non è: falso, errato, illogico, cattivo, aberrante; ma piuttosto: superato, sorpassato, attardato, vecchio. Non conta tanto la verità quanto la formulazione recente. Le idee, come le uova, devono essere “di giornata”. Talvolta si sente perfino squalificare un teologo o un vescovo con la frase: “è fermo al concilio di Trento”; dove è mirabile il fatto che la condanna sia espressa con l’indicazione non di ciò che, una volta dimostrato, potrebbe costituire una giusta critica (e cioè, ad esempio, la non consonanza con l’insegnamento del Vaticano II), ma di ciò che dovrebbe se mai rappresentare un titolo di merito (e cioè la fedeltà alla dottrina di un magistero solenne che, per quanto antico, resta tuttora autorevole). E con questa disinvoltura “cronolatrica” ci si dispensa dall’addurre le prove di una eventuale infedeltà al magistero più recente. Allo stesso modo, veniamo spesso esortati a pregare per gli “uomini del nostro tempo”, come se qualcuno fosse mai tentato di ricordare nelle sue orazioni gli assiro-babilonesi; o a vivere nel “mondo di oggi”, contro il pericolo di sconfinare inavvertitamente nell’epoca carolingia; o a impegnarci a “essere moderni”, che è un po’ come se una mucca si impegnasse ad avere la coda. Non ci si meraviglia allora di notare che il tema della “vita eterna” si faccia sempre più raro nei discorsi ecclesiastici, dove invece hanno sempre più larga parte le questioni del “tempo presente”. Queste è giusto e doveroso affrontare senza evasioni alienanti, ma non “invece di quella”, bensì “alla luce di quella”: solo con la coscienza sempre pungente della “vita eterna” e della sua impareggiabile rilevanza è possibile “redimere il tempo presente”, ridonandogli senso e spessore. Naturalmente non c’è niente di male nell’uso di queste locuzioni, le quali possono anche avere la buona finalità di richiamare il cristiano da un atteggiamento “astratto” e troppo remoto dalle condizioni esistenziali. Ma, considerate come un “vezzo linguistico”, sono la spia di un atteggiamento spirituale indebitamente ossessionato dal culto dell’attualità. Si ha talvolta l’impressione che i credenti si ritengano piuttosto mobilitati a riscattare il tempo presente, non dalla vanità e dalla malizia dei “giorni cattivi” (cfr. Ef 5,16), ma proprio dalla incombenza oppressiva dell’eterno, il quale – se è troppo insistentemente rammemorato – si teme non lasci spazio all’inserimento nel quotidiano. Il caso è preoccupante: quando si scambia il fondamento della libertà con la ragione della tirannia, la medicina con la malattia, la fonte dell’energia con la causa della paralisi, le speranze di sopravvivere sono poche. Di solito, poi, prevaricare nei confronti della fede porta anche ad attentare alla ragione. E in effetti la “cronolatria”, rovesciando la prospettiva cristiana, guasta altresì i meccanismi del raziocinio. ”Lo spirito che si inquieta per la verità e arriva a cogliere la verità, trascende il tempo”. Perciò “sottoporre le cose dello spirito alla legge dell’effimero, che è quella della materia e del puro fatto biologico”, vuol dire soffocare la vita stessa dell’anima. Quando resta se stessa e non viene traviata, “la ragione non si preoccupa di essere inserita o di accettare la storia, né allo stesso modo si interessa e si dà pena di essere contemporanea, ma solo di essere ‘ragione’, perciò di essere vera”.
3. La “cosmolatria”
Di tutte le idolatrie che ci affliggono, l’adorazione del mondo è senza dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe contro il “mondo”, deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei recensori più benevoli e pii. Questa “cosmolatria” fa tanto più spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell’ascetica tradizionale: la “fuga dal mondo”, la “rinuncia al mondo”, il “disprezzo del mondo” dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono, stati temi classici della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l’ “inserimento nel mondo” e perfino il “servizio del mondo”. A esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l’impressione che i due vocaboli “mondo” e “Chiesa” rispetto all’uso di prima si siano semplicemente scambiati di senso. Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi valori. Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose. Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di vocabolario? All’origine di questo mutamento c’è la “Gaudium et spes”; ma si tratta della “Gaudium et spes” passata al filtro della ideologia post-conciliare e, così mortificata, acriticamente accolta da molti strati della cristianità. Affrontando il tema dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo, il Vaticano II ha compiuto un’opera preziosa di chiarificazione e di illuminazione. Mettendosi nella prospettiva della Genesi e della Somma teologica, vale a dire considerando la natura umana e il mondo in ciò che li costituisce in se stessi, la Costituzione pastorale afferma senza esitazioni la loro bontà radicale e l’invito al progresso che, per quanto ostacolato dall’ambiguità della materia e dalle ferite del peccato, è iscritto nella loro essenza. E mostra, non solo in maniera generale ma con analisi molto accurata e con tutta la generosità che deriva dalla divina carità, come la Chiesa, restando perfettamente nel campo della sua missione esclusivamente spirituale e nell’ambito delle “cose di Dio”, possa e voglia aiutare il mondo e la specie umana nel loro sforzo di avanzare verso i loro fini temporali. A dire il vero si trova qui nuovamente affermata la dottrina perenne della Chiesa – ma con connotazioni nuove ed eccezionalmente importanti, dal momento che è riaffermata sotto il segno della libertà – non più per rivendicare il diritto della Chiesa di intervenire ratione peccati nelle cose del mondo al fine di combattere il male (a questo, credo, sarà sempre obbligata, sotto una forma o l’altra), ma per dichiarare il suo diritto, e la sua volontà, di animare, stimolare, assistere dall’alto, ratione boni perficiendi, se posso dire, e senza attentare all’autonomia del temporale, gli sviluppi del mondo verso il raggiungimento di un bene più grande. Ma l’ideologia postconciliare, oltrepassando indebitamente questa prospettiva, ha letto il documento come se esso avesse voluto offrire – a proposito delle relazioni tra il “mondo”, di cui si parla ripetutamente negli scritti apostolici, e la Chiesa – un insegnamento in netto contrasto con quello delle pagine di san Giovanni e di san Giacomo. Il prevalere di questa ideologia ci spiega come mai in questo tempo di esasperato biblismo ci siano molte frasi del Nuovo Testamento che non si ascoltano mai: è una sorta di censura tacita ma severissima, esercitata sul Libro di Dio. Proprio perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po’ per comodità del lettore.”Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv 7,7).”Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv12,31).”Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14,27).”Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,18-19).”Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio” (Gv 16,8).”Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).”Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 17,9).”Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14).”Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17,25).”Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1 Gv 2,15).”Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1 Gv 2,17).”La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3,1).”Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia” (1 Gv 3,13).”Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,4-5).”Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1 Gv 5,19).”Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27).”Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!” (Gc 4,4).”Il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio” (1 Cor 1,21).”Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio” (1 Cor 2,12).”La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Cor 3,19).”La tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10).”Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Sappiamo benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni nelle quali la parola “mondo” indica la creazione di Dio che è buona, e l’umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes, fortunatamente non si pone. Si pone invece per quelle che abbiamo sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela? Tutto sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell’odierna riflessione teologica e pastorale. Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l’organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella “cosmolatria” che stiamo qui denunciando. Occorre ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione. Una frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della parola di Dio a proposito di “mondo”.”Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10).In due righe il vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse.”Era nel mondo”: si riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà creaturale. E’ una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: “il campo è il mondo” (Mt 13,38). ”Il mondo fu fatto per mezzo di lui”: qui è implicitamente affermata l’originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo è detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). ”Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola “mondo” esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente, ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l’iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa tragica realtà. Il mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata Ciò che non c’è nel Nuovo Testamento è l’idea che la Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. Neppure c’è l’idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa. Chi muove dalla pur giusta convinzione dell’intrinseco e inalienabile valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come “buone” (cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul “mondo”, rischia obiettivamente di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo. Molti atteggiamenti rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del “mondo” sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste. L’irenismo a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un’abusiva pregustazione dello stato d’animo che ci rallegrerà nell’eterna Gerusalemme: rispetto al tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione. Il “servizio del mondo”. Parrebbe anche utile una breve riflessione circa il “servizio del mondo”, che ci viene indicato spesso come dovere della Chiesa e dei credenti. L’affermazione è carica di ambiguità e, se non è chiarita, può alla lunga provocare una visione distorta dell’impegno cristiano. Gli equivoci possibili sono due: sul concetto di “mondo” e sul dovere del “servizio”. Per “mondo” qui si può intendere solo l’umanità che – dolorante, sviata, senza luce – è in attesa della salvezza. Non certo il “mondo” per il quale il Signore non ha pregato e che poi dalla parola di Dio siamo invitati a odiare; della cui oscura esistenza non dobbiamo mai dimenticarci. E il “servizio” più urgente e necessario che può essere reso agli uomini decaduti e infelici è l’annuncio del Salvatore e del progetto d’amore che il Padre ha pensato per noi: questa é la vera “promozione umana”, che poi diventa la molla propulsiva di ogni altro “progresso” nel benessere, nella pace sociale, nella giustizia terrena. Va anche detto che l’unico a dover essere propriamente e direttamente servito da noi è il Figlio di Dio, Gesù Cristo. “Ci sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore” (1 Cor 12,5). Nessun altro può essere riconosciuto come padrone. Vero è che l’unico nostro Signore si è fatto “servo” di tutti: e noi, se vogliamo veramente e concretamente servirlo, dobbiamo servirlo anche associandoci a lui in questo servizio degli altri e attendendo dunque alle necessità reali di tutti. La delucidazione, che può sembrare sottile e puntigliosa, è invece essenziale: noi, servi di Cristo, diventiamo in lui servi degli uomini; ma non per questo siamo tenuti a dare agli uomini sempre ciò che a loro piace o che da noi essi si aspettano. Noi abbiamo il “foro”. Un secondo esempio significativo è dato dal fenomeno del monachesimo, che, chiudendosi nel microcosmo del monastero per inseguire l’ideale di una vita evangelica perfettamente coerente, di fatto ha contribuito in modo determinante al sorgere della nuova Europa. È curioso notare nella storia ecclesiale che il programma spirituale e culturale della “fuga dal mondo” di solito riesce ad animare un’azione incisiva nella società e a riplasmarla effettivamente alla luce del Vangelo. Basti pensare all’incidenza nella realtà sociale e politica del suo tempo di sant’Ambrogio, che pure ha scritto un De fuga saeculi e teorizza continuamente nei suoi scritti l’urgenza della solitudine.
4. La “schizolatria”
La quarta “latria” nasce ed è alimentata da una “fobia”. La paura ossessiva dell’integralismo – cioè dell’abitudine mentale a risolvere tutti i problemi umani di ogni ordine e grado deducendo immediatamente le soluzioni dai princìpi di fede – induce alcuni incauti al culto esasperato della divisione degli ambiti e alla esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l’altro dell’impegno umano. Alcune annotazioni si impongono a questo proposito. L’inerzia mentale, lo schematismo linguistico, l’incapacità a seguire l’effettivo succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico – che pur ha avuto una sua lunga e deleteria stagione – oggi non esiste più se non in frange trascurabili della cristianità. È morto da un pezzo, anche se il suo fantasma è continuamente evocato da alcuni sprovveduti e da molti interessati. A lottare contro le ombre non c’è pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi che si slanciano in queste battaglie. Per contro esistono – graffianti, acritici, sicuri di sé – altri integralismi di vario colore: c’è un integralismo marxista, un integralismo radicale, un integralismo laicista, un integralismo liberale, perfino un integralismo mazziniano. Ogni “parrocchia” politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della realtà, in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese quelle che si riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti dell’impegno religioso. alle forme di esercizio del, magistero ecclesiale. Tutte queste “parrocchie” si adoperano a tenere viva la fobia dell’integralismo cattolico; e il più delle volte viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di irradiare la fede nella cultura e nella vita. Né c’è da stupirsene; stupisce piuttosto che questo tipo di intolleranza trovi consensi in molti credenti anche sinceri. Ma la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione cristiana della realtà. Essa sembra dimenticare totalmente l’esistenza di un solo Signore, nel quale, per mezzo del quale, in vista del quale tutto esiste, sia nell’ordine della redenzione sia nell’ordine della creazione. Conseguentemente colpisce al cuore l’unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di questo universo di fatto esistente. Ci sia consentito riprodurre qui alcune pagine lucidissime di Inos Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita meditazione. ”Il primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la distinzione tra piano creaturale / o di natura, e piano redentivo / o della grazia. Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino alla separazione, non è teologicamente accettabile e proponibile. Essa viene a misconoscere il dato primo dell’attuale e concreto ordine di realtà: ed è il progetto originario, assoluto e totalizzante – su cui abbiamo già insistito – consistente nella predestinazione dell’uomo e dell’universo in Gesù Cristo risorto da morte. E’, indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine di provvidenza; è indiscutibile che solo la fede – che fa uditori della Parola – trasmette integralmente questo disegno originario di fronte al quale tutti gli altri sono ipotetici: ma questo è in ogni modo un fatto, fuori del quale esiste solo, obiettivamente, la non esistenza o l’ipotesi. Una teologia corretta non accetterà mai un ordine naturale e ad esso giustapposto un ordine soprannaturale concretamente esistenti e che si tratterebbe di tenere uniti. E di conseguenza: una specie di natura-ragione neutra, valida per tutti, non riferita a Gesù Cristo, di “pura” entità “creaturale” (ossia dipendente dalla pura creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere l’atto di chi si sforza di mettere insieme tali due ordini inizialmente separati, essa è semplicemente scorretta e impossibile. Purtroppo ci è dato di constatare che un certo linguaggio e certe impostazioni concettuali traducono esattamente questa inconsistente dicotomia. Manca un pensiero che traduca, oltre la cultura religiosa e storica, una dottrina teologica criticamente fondata. La verità è un’altra: nel disegno originario in Gesù Cristo è compresa la “ragione”, la “filosofia”, l’incontrovertibilità, dell’essere e vi è compresa non come sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità. Per il fatto di essere creata in Gesù Cristo la ragione non smette di essere tale: l’accoglienza per fede del disegno divino in Cristo non la degenera e non la umilia. Per poter giustamente parlare di mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il cristiano va anche più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante, ma di fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la ragione a se stessa. Un secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da un lato il dato della fede, dall’altro il dato della storia, e quindi della temporalità, della politica, come se alla fede non appartenesse la storicità, la politicità, in una parola sola: l’antropologia filosofica. Ci sono dati di intelligibilità e di struttura antropologica la cui mortificazione significherebbe la mortificazione dello stesso disegno originario. Il cristiano non prende a prestito dalla filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell’uomo: piuttosto, eventualmente, riconosce che al di fuori dell’orizzonte della fede consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di salvezza, il quale non si separa e non si distingue affatto – in concreto! – dal piano “creaturale” come abbiamo ora detto. Facendo storia, cultura, politica, ecc., il cristiano non fa altro che rilevare e determinare una dimensione del contenuto della sua fede, mettendo in atto la razionalità che è un reale ingrediente del disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione, ricerca, confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo senso che non c’è passaggio diretto dalla fede alla politica, è altrettanto vero che la politica mette in opera elementi che non sono discordi o àlteri rispetto al piano integrale originario. S’è parlato, con preciso fondamento, di “umanesimo integrale”. Occorrerebbe più compiutamente parlare di “cristianesimo integrale”. Ancora: si è detto – e giustamente in una determinata prospettiva – che si deve distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si deve “distinguere nell’unito”. Una mediazione che fosse configurata come lo sforzo o l’impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il vangelo e la politica, come se fossero costitutivamente separati, è una pura ideologia, in quanto immagina radicalmente fuori il secondo versante dall’ordine salvifico; oppure m quanto si rappresenta piuttosto miticamente la storia come entità a sé da ‘battezzare’. L’originario costitutivo impone una filosofia, con le sue proprietà caratterizzanti: essa è un compito del credente – e ognuno, dotto o indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. È vero che il cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è perché l’uomo creato da Dio in Gesù Cristo è un essere “filosofico”, con quel che ne consegue”.
5. La “bibliolatria”
Il culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli studi di cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa conquista del nostro tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è letta, meditata, amata abbastanza dai cattolici: è augurabile che si abbia a progredire su questa strada a passo più spedito e con animo più risoluto. Pure c’è qualcosa che ci inquieta nel modo attuale di accostarci al Libro di Dio e ci spinge a formulare alcune osservazioni, che proponiamo candidamente trascurando il rischio non ipotetico di essere fraintesi e mal giudicati. Noi non siamo il “popolo del Libro”; a rigore non siamo neppure il “popolo della Parola”: siamo il “popolo dell’avvenimento”. La Parola di Dio risuona all’interno dell’evento salvifico e, rendendolo non solo un fatto ma anche una illuminazione, non solo una “res” ma anche un “signum” eloquente, non solo un “mistero” ma anche un “evangelo”, lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci porti alla partecipazione intera della vita. La “pagina sacra” è il mezzo privilegiato con cui possiamo arrivare alla “Parola” per nutrircene e vivere con intelligenza nell’evento. Non è dunque un assoluto, ma è ordinata all’avvenimento. L’avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la Bibbia non avrà più sussistenza e valore. Per circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei libri sacri cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche elemento essenziale. Anche quando i vangeli non erano ancora stati scritti né erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la Parola di Dio risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la salvezza era presente e operante. Chi si colloca integralmente all’interno dell’avvenimento, si pone nelle condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne il senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con sempre rinnovata coscienza, all’interno dell’avvenimento, per quanto numerose, erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue citazioni è sempre in pericolo di rimanere all’esterno del Libro di Dio e di non gustare la sua saporosa sostanza. A cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche appare bravissimo nell’addurre i passi ispirati a sostegno delle sue argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è caratterizzata dall’abbondante ricorso da parte degli eretici ai testi scritturistici. E per la verità anche ai nostri giorni assistiamo talvolta ad “alluvioni” di frasi bibliche che nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio. Ma c’è una insidia più subdola e perniciosa: l’uso abbondante e quasi ossessivo della Bibbia – staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell’avvenimento salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende – può condurre a una visione meramente “culturale” del cristianesimo e rendere l’atto di fede non più un “assenso reale” ma un puro “assenso nozionale” mentre – come splendidamente dice san Tommaso, “actus credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”: l’atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una realtà. La distinzione tra “assenso nozionale” e “assenso reale” è uno dei concetti fondamentali della Grammatica dell’assenso, di J.H. Newman. In realtà, in campo teologico la questione è ancora più seria di quel che per il campo pastorale abbiamo qui cercato di dire. Il pericolo sta nell’insensibile ma sempre più vasto affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente consapevole) a considerare la “res” – attinta nell’atto di fede, quando l’atto di fede c’è veramente – scientificamente inconoscibile come il “noumeno” kantiano, e quindi non più oggetto di attività teologica, la quale si esercita soltanto sul “fenomeno”. Di qui la risoluzione della teologia nell’esegesi, e poi anche nella storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni con le filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia religiosa ecc. Sventurato quel teologo o quell’esegeta che, pensando a Gesù Cristo, primariamente e come d’istinto si richiama a un personaggio della catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che vive. Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: “Dov’é Gesù?” risponde in modo del tutto ovvio e naturale: “In cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo”, senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l’indirizzo di una persona reale e concreta. Guai se l’interrogazione cominciasse ad avere come risposta: “Si trova nel vangelo di Luca, nel ‘corpus’ giovanneo, nella lettera agli Ebrei”; cominciasse cioè ad avere come risposta l’indicazione di un “luogo” letterario. Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così sarebbe un “idolo”. Da questo ” idolo ” deve essere purificato il santuario del nostro cuore e il “tempio” della comunità cristiana radunata in Cristo e offerta al Padre dall’impeto dello Spirito.
Alcuni segni di sanità teologica e pastorale
La rassegna delle più diffuse “idolatrie” non deve indurci a credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all’opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione. E così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un’acutissima mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall’incontro con persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse, sinceramente si determinano a una generosa adesione all’Evangelo e a una totale partecipazione all’evento salvifico. Il fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta analisi e di una pacata valutazione. Da quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano? Dopo l’esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale, l’attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare nell’ora presente. La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la persuasione che in questo scontro – che è ancora in atto e lo sarà fino alla venuta del Signore – ciascuno di noi è chiamato a combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date La seconda è la convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria. Perciò a lui – e quindi al cristianesimo – è necessario ricorrere perché l’uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo l’apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri tempi (1). La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l’ammirato stupore per questo capolavoro dell’amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l’infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra umanità disastrata.
NOTE
(1) La retorica circa il “dialogo” e il “confronto” – che sono attitudini lodevoli in se stesse, quando non diventano i nuovi nomi del cedimento e della mondanizzazione – ha innegabilmente contribuito a una “smobilitazione generale” dei cristiani, che ha pochi precedenti nella storia. Anche l’uso acritico e indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a proposito hanno una loro validità, ha contribuito al diffondersi dello spirito di resa o almeno alla confusione. Ne citiamo qualcuna, per non restare nel vago.
“Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. Principio giustissimo, ma da applicarsi con due avvertenze: che di fatto l’affermazione non si traduca nel non distinguere più tra l’errore e la verità; che ci si renda conto che, se la condanna dell’errore non deve restare un’inutile astrazione, il popolo cristiano va messo in guardia anche da colui che di fatto semina l’errore, naturalmente senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio il giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.
“Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Questo principio vale solo in proporzione alla vastità e all’importanza di ciò che ci unisce e all’esiguità di ciò che ci divide. Quando si ha la stessa fede nella Trinità, in Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto insipiente litigare su quando e come vada cantato l’alleluia. Ma quando la divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e quasi dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la propria identità; così l’ecumenismo diventa davvero, come amaramente è stato detto, una “comune apostasia”.
“La Chiesa deve diventare credibile”. Così come suona, il concetto è mal formulato e inaccettabile, perché fa delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il metro per giudicare l’azione e la realtà dei cristiani, mentre l’unico metro resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di essere sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più credibile agli occhi dei non credenti ben disposti, che ricercano la verità, e sempre più incredibile agli occhi dei non credenti che non hanno nessuna voglia di credere.
“Bisogna guardarsi dai profeti di sventura”. Se la frase vuol dire di evitare coloro che tentano di uccidere le ragioni della speranza cristiana – tra le quali emergono l’esistenza di Cristo vivo e Signore, e l’inalienabile bellezza della Chiesa – allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire a tutti i costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora è smentita dalla parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno annunziare anche il dolore e sanno denunziare il male; gli annunziatori di facile allegria, di tranquillità senza lotta, di immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr. Ger 14,13-16; 23,17; 27,9-10).
“Non bisogna essere manichei”. Il manicheismo consiste nel credere all’esistenza di due princìpi assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria finale. Questa è un’aberrazione da condannare. Definire manicheo invece chi vuol distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e l’ingiusto, tra ciò che è conforme alla volontà di Dio ed è perciò da seguire, e ciò che è difforme ed è perciò da respingere, è un modo truffaldino di combattere il cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.
G. BIFFI, La bella, la bestia e il cavaliere. Saggio di teologia inattuale, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 20-41.
Il card. Ratzinger sul Concilio Vaticano II
Riportiamo integralmente l’indirizzo dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, alla Conferenza Episcopale Cilena (13 luglio 1988). Come potete notare, considerare il Vaticano II per quello che è, cioè un “concilio meramente pastorale”, il quale per sua espressa volontà ha “scelto di rimanere a un livello modesto”, non è una “deriva cripto-lefebvriana”, perché il cardinal Ratzinger, il futuro Benedetto XVI, afferma chiaramente che la FSSPX non ha ragione e ha scelto la strada sbagliata e spiega anche il perché.
Negli ultimi mesi abbiamo lavorato molto intorno al caso Lefebvre, con l’intenzione sincera di creare per il suo movimento un spazio all’interno della Chiesa, spazio che sarebbe stato sufficiente perché esso potesse vivere. La Santa Sede è stata criticata per questo. Si dice che non ha difeso il Concilio Vaticano II con energia sufficiente; che, mentre ha trattato i movimenti progressisti con severità grande, ha mostrato una simpatia esagerata con la rivolta tradizionalista. Lo sviluppo degli eventi è sufficiente per confutare queste asserzioni. L’[accusa di] rigorismo del Vaticano di fronte alle deviazioni dei progressisti, presentato in modo mitico, è apparsa essere soltanto un discorso vuoto. Finora, infatti, sono stati pubblicati soltanto dei moniti; in nessun caso ci sono state pene canoniche rigorose in senso stretto. Ed il fatto che, quando le cose si sono messe male, Lefebvre ha ritrattato un accordo che già era stato firmato, indica che la Santa Sede, se ha fatto concessioni davvero generose, non gli ha garantito quella licenza completa che egli desiderava. Lefebvre ha visto che, nella parte fondamentale dell’accordo, era obbligato ad accettare il Vaticano II e le affermazioni del Magistero post conciliare, secondo l’autorità propria di ogni documento.
C’è una contraddizione evidentissima nel fatto che è proprio chi non ha perso occasione per far conoscere al mondo la propria disobbedienza al Papa ed alle dichiarazioni magisteriali degli ultimi 20 anni, che pensa di avere il diritto di giudicare che questo atteggiamento è troppo blando e che desidera che si fosse insistito su un’obbedienza assoluta al Vaticano II. Così pure costoro sostengono che il Vaticano ha concesso il diritto di dissentire a Lefebvre, diritto che è stato rifiutato ostinatamente ai fautori di una tendenza progressista. In realtà, l’unico punto che è affermato nell’accordo, secondo Lumen Gentium 25, è il fatto limpido che non tutti i documenti del Concilio hanno la stessa autorità. Per il resto, è stato indicato esplicitamente, nel testo che è stato firmato, che le polemiche pubbliche devono essere evitate e che è richiesto un atteggiamento di rispetto positivo per le decisioni ufficiali e le dichiarazioni.
È stato concesso, in più, che la Fraternità San Pio X possa presentare alla Santa Sede – la quale si riserva l’esclusivo diritto di decisione – le sue difficoltà particolari rispetto alle interpretazioni delle riforme giuridiche e liturgiche. Tutto ciò mostra che in questo dialogo difficile Roma ha unito chiaramente la generosità, in tutto quello che è negoziabile, alla fermezza nel necessario. La spiegazione che Mons. Lefebvre ha dato, per la ritrattazione del suo accordo, è indicativa. Ha dichiarato che infine ha capito che l’accordo che ha firmato mira soltanto ad integrare la sua fondazione “nella Chiesa Conciliare”. La Chiesa Cattolica in unione con il Papa è, secondo lui, “la Chiesa Conciliare”, che ha rotto con il suo passato. Sembra effettivamente che non riesca più a vedere che qui si tratta della Chiesa Cattolica nella totalità della sua Tradizione e che il Vaticano II appartiene ad essa.
Senza alcun dubbio, il problema che Lefebvre ha posto non è finito con la rottura del 30 giugno. Sarebbe troppo semplice rifugiarsi in una specie del trionfalismo e pensare che questa difficoltà abbia cessato di esistere dal momento in cui il movimento condotto da Lefebvre si è separato con una rottura formale con la chiesa. Un cristiano non può mai, o non dovrebbe, compiacersi di una rottura. Anche se è assolutamente certo che la colpa non può essere attribuita alla Santa Sede, è un dovere per noi esaminarci, tanto circa quali errori abbiamo fatto, quanto quali, persino ora, stiamo facendo. I criteri con cui giudichiamo il passato nel decreto del Vaticano II sull’ecumenismo devono essere usati – come è logico – per giudicare pure il presente.
Una delle scoperte fondamentali della teologia dell’ecumenismo è che gli scismi possono avvenire soltanto quando determinate verità e determinati valori della fede cristiana non sono più vissuti ed amati all’interno della chiesa. La verità che è marginalizzata diventa autonoma, rimane staccata dal tutto della struttura ecclesiastica ed è allora che un nuovo movimento si forma intorno ad essa. Dobbiamo riflettere su questo fatto: che tantissimi cattolici, lontani dalla cerchia stretta della fraternità di Lefebvre, vedono questo uomo come guida, in un certo senso, o almeno come alleato utile. Non bisognerà attribuire tutto a motivi politici, a nostalgia, o a fattori culturali di importanza secondaria. Queste cause non sono capaci di spiegare l’attrattiva che è sentita anche dai giovani, e particolarmente dai giovani, che vengono da molte nazioni davvero differenti e che sono immersi in realtà politiche e culturali completamente diverse. Certamente mostrano ciò che è, da ogni punto di vista, una prospettiva limitata e parziale; ma non c’è alcun dubbio che un fenomeno di questa portata sarebbe inconcepibile se non ci fossero qui all’opera dei valori, che generalmente non trovano sufficienti possibilità di realizzarsi all’interno della Chiesa di oggi.
Per tutti questi motivi, dobbiamo considerare tutta la questione soprattutto come l’occasione per un esame di coscienza. Dovremmo non avere paura di farci noi stessi domande fondamentali, circa i difetti della vita pastorale della Chiesa, che emergono da questi fatti. Così dovremmo poter offrire un posto all’interno della chiesa a coloro che lo stanno cercando e domandando e riuscire a eliminare ogni ragione per uno scisma. Possiamo rendere tale scisma privo di motivazioni rinnovando le realtà interne della chiesa. Ci sono tre punti, io penso, che è importante considerare.
Se ci sono molti motivi che potrebbero condurre tantissima gente cercare un rifugio nella liturgia tradizionale, quello principale è che trovano che essa ha conservato la dignità del sacro. Dopo il Concilio, ci sono stati molti preti che hanno elevato deliberatamente la “desacralizzazione” a livello di un programma, sulla pretesa che il nuovo testamento ha abolito il culto del tempio: il velo del tempio che è stato strappato dall’alto al basso al momento della morte di Cristo sulla croce è, secondo certuni, il segno della fine del sacro. La morte di Gesù, fuori delle mura della città, cioè, dal mondo pubblico, è ora la vera religione. La religione, se vuol avere il suo essere in senso pieno, deve averlo nella non sacralità della vita quotidiana, nell’amore che è vissuto. Ispirati da tali ragionamenti, hanno messo da parte i paramenti sacri; hanno spogliato le chiese più che hanno potuto di quello splendore che porta a elevare la mente al sacro; ed hanno ridotto la liturgia alla lingua e ai gesti di una vita ordinaria, per mezzo di saluti, i segni comuni di amicizia e cose simili.
Non c’è dubbio che, con queste teorie e pratiche, hanno del tutto misconosciuto l’autentica connessione tra il vecchio ed il nuovo testamento: s’è dimenticato che questo mondo non è il regno di Dio e che “il Santo di Dio” (Gv 6,69) continua ad esistere in contraddizione a questo mondo; che abbiamo bisogno di purificazione prima di accostarci a lui; che il profano, anche dopo la morte e la resurrezione di Gesù, non è riuscito a trasformarsi nel “santo”. Il Risorto è apparso, ma a quelli il cui il cuore era ben disposto verso di Lui, al Santo; non si è manifestato a tutti. È in questo modo che un nuovo spazio è stato aperto per la religione a cui tutti noi ora dobbiamo sottometterci; questa religione che consiste nell’accostarci alla famiglia del Risorto, ai cui piedi le donne si prostravano e lo adoravano. Non intendo ora sviluppare ulteriormente questo aspetto; mi limito sinteticamente a questa conclusione: dobbiamo riacquistare la dimensione del sacro nella liturgia. La liturgia non è una festa; non è una riunione con scopo di passare dei momenti sereni. Non importa assolutamente che il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità ricche di immaginazione. La liturgia è ciò che fa sì che il Dio Tre volte Santo sia presente fra noi; è il roveto ardente; è l’alleanza di Dio con l’uomo in Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi [da soli] non siamo capaci di evocare. Viene perché vuole. In altre parole, l’essenziale nella liturgia è il mistero, che è realizzato nel ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano ingannati: quando il mistero è trasformato nella distrazione, quando l’attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l’animatore liturgico.
Oltre alle questioni liturgiche, i punti centrali del conflitto attualmente sono la presa di posizione di Lefebvre contro il decreto che tratta della libertà religiosa ed al cosiddetto spirito di Assisi. È qui che Lefebvre stabilisce le linee di demarcazione fra la sua posizione e quella della chiesa cattolica.
C’è poco da dire: ciò che sta dicendo su questi punti è inaccettabile. Qui non vogliamo considerare i suoi errori, piuttosto desideriamo chiederci dove vi è mancanza di chiarezza in noi stessi. Per Lefebvre la posta in gioco è la battaglia contro il liberalismo ideologico, contro la relativizzazione della verità. Non siamo ovviamente in accordo con lui sul fatto che – capito secondo le intenzioni del papa – il testo del Concilio o la preghiera di Assisi inducano al relativismo.
È un’operazione necessaria difendere il Concilio Vaticano II nei confronti di Mons. Lefebvre, come valido e come vincolante per Chiesa. Certamente c’è una mentalità dalla visuale ristretta che tiene conto solo del Vaticano II e che ha provocato questa opposizione. Ci sono molte presentazioni di esso che danno l’impressione che, dal Vaticano II in avanti, tutto sia stato cambiato e che ciò che lo ha preceduto non abbia valore o, nel migliore dei casi, abbia valore soltanto alla luce del Vaticano II.
Il Concilio Vaticano II non è stato trattato come una parte dell’intera tradizione vivente della Chiesa, ma come una fine della Tradizione, un nuovo inizio da zero. La verità è che questo particolare concilio non ha affatto definito alcun dogma e deliberatamente ha scelto di rimanere su un livello modesto, come concilio soltanto pastorale; ma molti lo trattano come se si fosse trasformato in una specie di super-dogma che toglie l’importanza di tutto il resto.
Questa idea è resa più forte dalle cose che ora stanno accadendo. Quello che precedentemente è stato considerato la più santa – la forma in cui la liturgia è stata trasmessa – appare improvvisamente come la più proibita di tutte le cose, l’unica cosa che può essere impunemente proibita. Non si sopporta che si critichino le decisioni che sono state prese dal Concilio; d’altra parte, se certuni mettono in dubbio le regole antiche, o persino le verità principali della fede – per esempio, la verginità corporale di Maria, la Resurrezione corporea di Gesù, l’immortalità dell’anima, ecc. – nessuno protesta, o soltanto lo fa con la più grande moderazione. Io stesso, quando ero professore, ho visto come lo stesso Vescovo che, prima del Concilio, aveva licenziato un insegnante che era realmente irreprensibile, per una certa crudezza nel discorso, non è stato in grado, dopo il Concilio, di allontanare un professore che ha negato apertamente verità della fede certe e fondamentali.
Tutto questo conduce tantissima gente chiedersi se la Chiesa di oggi è realmente la stessa di ieri, o se l’hanno cambiata con qualcos’altro senza dirlo alla gente. La sola via nella quale il Vaticano II può essere reso plausibile è di presentarlo così come è: una parte dell’ininterrotta, dell’unica tradizione della Chiesa e della sua fede.
Non c’è il minimo dubbio che, nei movimenti spirituali dell’era post-conciliare, vi è stato frequentemente un oblio, o persino una soppressione, della questione della verità: qui forse ci confrontiamo con il problema oggi cruciale per la teologia e per il lavoro pastorale.
La verità è ritenuta essere una pretesa che è troppo elevata, un trionfalismo che non può essere assolutamente ancora consentito. Vedete chiaramente questo atteggiamento nella crisi che colpisce la pratica e l’ideale missionario. Se non facciamo della verità un punto importante nell’annuncio della nostra fede e se questa verità non è più essenziale per la salvezza dell’uomo, allora le missioni perdono il loro significato. In effetti la conclusione è stata tirata, ed è stato tirata oggi, che in futuro dobbiamo soltanto cercare che i cristiani siano buoni cristiani, i buoni musulmani dei musulmani, i buoni Indù dei buoni Indù, e così via. E se arriviamo a queste conclusioni, come facciamo a sapere quando uno è “un buon” cristiano, o “un buon” musulmano?
L’idea che tutte le religioni sono – a prenderle sul serio – soltanto i simboli di ciò che finalmente è incomprensibile, sta guadagnando terreno velocemente in teologia e già ha penetrato la pratica liturgica. Quando le cose giungono a questo punto, la fede è lasciata alle spalle, perché la fede realmente consiste nell’affidarsi alla verità per quanto è conosciuta. Dunque, in questa materia, ci sono tutte le ragioni per ritornar sulla retta via.
Se ancora una volta riusciremo a evidenziare e vivere la pienezza della religione cattolica circa questi punti, possiamo sperare che lo scisma di Lefebvre non sia di lunga durata.
FONTE: internetica.it
“Con i soldi del Vaticano si potrebbero sfamare i bambini africani”: MA È PROPRIO VERO?
di Pierfrancesco Palmisano
In molti – credenti o meno – suscitano “scandalo” le c.d. “ricchezze della Chiesa”, che dimostrerebbero “la non rispondenza agli insegnamenti di Gesù” e con le quali “si potrebbero salvare tutti i bambini del Terzo Mondo”.
Per affrontare questo spinoso (apparentemente) tema, abbiamo deciso di cominciare dalla fine, ovvero dai paramenti d’oro (e magari tempestati di pietre preziose) di Benedetto XVI, messi ad impietoso confronto con un bambino povero dell’Africa che muore di fame.
Ma, prima ancora di iniziare, è bene ricordate come questi tempi (ultimi) siano tempi di grande confusione, non solo valoriale nella sfera soggettiva di ciascuno di noi, ma anche di confusione razionale, difficoltà di comprendere il “senso”, il “fine ultimo” delle cose, ovvero di rispondere alla domanda «a cosa serve la tal cosa? qual è il suo scopo? il suo fine?» e poi «come bisogna usare la tal cosa per raggiungere quel fine?».
Ovvero nel caso specifico, prima domanda: «A cosa serve la Chiesa?». Rispondiamo con estrema facilità: «la Chiesa (e tutti gli “atti” che compiamo in ambito religioso) servono alla salvezza della propria anima». Ovvero la Chiesa non ha il compito di essere un ente di assistenza dei poveri, non ha il compito di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. «Ma come? – dirà qualcuno – non è proprio questo l’insegnamento di Cristo? Non è stato proprio Lui a dirci di dare da mangiare agli affamati ed agli assetati?».
L’obiezione è esatta, soltanto che, non è una obiezione!
Infatti pur essendo vero che Cristo ha detto di dare da mangiare agli affamati, bere agli assetati, assistere i malati, accogliere i forestieri etc, va assolutamente fatto notare che Egli non lo ha detto “alla Chiesa”, ma lo ha detto a noi! Lo ha detto a noi, a ciascuna singola persona, a ciascun “cristiano”! Non lo ha detto a Enti o Istituzioni e neppure all’unica Istituzione divina e soprannaturale da Lui stesso fondata.
Ed anche qui però, chiediamoci, qual è lo scopo? Perché dobbiamo dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati? La risposta è che dobbiamo farlo non soltanto e non principalmente per alleviare la fame dell’affamato e la sete dell’assetato (a ciò basterebbero gli Enti benefici e variamente “filantropici” su menzionati), quanto piuttosto per salvare la nostra anima! Dunque anche tale gesto, umanamente “altruista”, è in realtà un gesto “egoistico” (di quell’unico egoismo consentito ed approvato da Cristo stesso) in quanto con tale gesto si baratta qualcosa di scarso valore (un po’ del nostro tempo e del nostro danaro) con qualcosa di elevatissimo valore (la salvezza eterna della nostra anima)!
Dunque l’esistenza dei poveri (pur essendo sicuramente una conseguenza delle “ingiustizie sociali” del mondo in cui viviamo, che a loro volta sono una conseguenza della imperfezione e malvagità degli uomini, che a loro volta sono una conseguenza della natura “malata” dell’uomo, che a sua volta è una conseguenza del peccato originale[i]) è permessa da Dio (che sa sempre ricavare dal male un bene superiore) quale strumento attraverso il quale i più ricchi (o semplicemente i meno poveri), esercitando la Carità, ovvero l’amore verso il prossimo (in virtù dell’amore verso Dio) possano compiere le c.d. “buone opere” co-necessarie (insieme alla Fede) alla salvezza della propria anima.
Orbene, uno degli aspetti “satanici”[ii] delle moderne società è l’aver delegato ad Istituzioni di varia natura e genere il compito dell’assistenza ai poveri… Ciò che veniva denunciato da Attilio Mordini nei confronti degli stati comunisti, ovvero che gli stessi, volendo rendere gli uomini tutti ugualmente benestanti (almeno nelle intenzioni) avrebbero di fatto resa impossibile la Carità[iii], trova analoga, seppur leggermente diversa, applicazione nella modernità: l’assistenza ai poveri viene “delegata” dal singolo “cristiano” ad istituzioni astratte: lo Stato, la Caritas, la Chiesa, la Parrocchia, l’Unicef, la FAO, etc etc etc… Ma queste astratte istituzioni hanno forse un’anima da salvare? No di certo! Sono istituzioni anonime, anodine burocrazie! Se lo Stato italiano aiuta 10mila poveri, quale anima se ne giova? Nessuna! Se invece fossero stati 10mila italiani a prendersi cura, ciascuno, di un povero, essi avrebbero compiuto una “buona opera” che sarebbe stata “tenuta in buon conto” dal Divin Giudice per il Giudizio particolare che attende ciascuno di noi!
Ed invece accade che lo Stato, o la Caritas (che gode di contributi statali), con i miei soldi pagati per generiche tasse (e quindi senza neppure nessuna particolare intenzione meritoria da parte mia!) “aiuta i poveri”, togliendomi la possibilità di aiutarli io stesso. Quindi i miei stessi soldi, pagati in tasse, vengono usati per arrecare un ulteriore ed occulto[iv] danno alla mia anima.
Naturalmente, in realtà, ciascuno di noi può ancora incontrare un “povero” o un “barbone” per la strada ed invitarlo a mangiare a casa propria. Ma questa cosa, oltre a non farla per motivi egoistici (parlo di quell’egoismo stupido che in realtà ci trattiene dall’effettuare il “lucroso baratto” di cui ho parlato sopra), probabilmente a molti non viene neppure in mente… Quando incontriamo un povero o un mendicante ci viene piuttosto in mente una frase del tipo: «ma guarda, è tutta colpa dello Stato , del Comune, dell’assistenza sociale, della Chiesa etc etc etc se questo poveraccio sta qui per strada al freddo senza cibo! Tutta colpa dei politici, degli assessori, dei preti etc etc etc!!!»
Ecco: colpa degli altri (preferibilmente istituzioni senz’anima), mai colpa mia…! E mai che venga colta la grande occasione ed opportunità di “guadagno” per la nostra anima che ci si presenta innanzi… Eppure Gesù stesso ebbe a dire «Procuratevi amici potenti con la disonesta ricchezza…». Sembra una frase degna di qualche politicante corrotto(se non compresa) ma in realtà il Divin Maestro ci stava dicendo che con le nostre ingiuste ricchezze (ovvero con le ricchezze che possediamo in più rispetto a quello che ci serve per la nostra sussistenza[v]) dovremmo aiutare i poveri, che sono “amici potenti” perché la loro preghiera di ringraziamento sarà ben accetta a Dio e perché alcuni di loro ci precederanno in Paradiso.
Invito tutti a leggere un qualche romanzo di scrittori dell’ottocento o precedenti. Si troverà spesso la figura di qualche dama o di qualche nobiluomo, o ricco borghese, ma anche semplici contadini, che si dedicano – come attività del tutto usuale – ad accogliere nella propria casa poveri o pellegrini, nutrendoli ed assistendoli personalmente, proprio per compiere questa opera di Carità. Grande vantaggio per le loro anime!
Davvero un bell’hobbie!
Perché non lo pratichiamo anche noi?
In molti preferiscono dedicarsi piuttosto all’assistenza dei poveri cagnolini randagi[vi], ma anche questo non credo sarà computato a loro vantaggio in occasione dell’Eterno Giudizio.
Ma torniamo alla Chiesa. Compito della Chiesa non è dunque fare Lei assistenza ai poveri (come detto ne fa già fin troppa – contrariamente a quel che “mariadefilippicamente” si ritiene), ma esortare ed insegnare ai cristiani ad amare il prossimo, dare da bere agli assetati, da magiare agli affamati, assistere ed accogliere i poveri ed i barboni, etc etc…
«Ma – dirà sempre il qualcuno di prima – il buon esempio? Se la ricchezza è un peccato, perché il papa va vestito tutto d’oro? Perché nelle chiese ci sono i candelabri d’oro, i calici d’oro, gli altari d’oro, le statue d’oro, i tappeti d’oro, i rubinetti d’oro? Se Cristo e gli Apostoli erano poveri, perché anche la Chiesa non è povera?»
Buon argomento, al quale vale la pena di rispondere.
Innanzitutto, faccio notare che non è vero che essere ricchi sia un peccato. Rileggiamo i dieci comandamenti: non c’è “non essere ricco”. Rileggiamo i sette vizi (o peccati) capitali: non è “ricchezza”. Dunque sorprendentemente (per i moderni anticlericali tanto preoccupati che la Chiesa sia “coerente” e non “ipocrita”[vii]) essere ricchi non è un peccato.
Però la povertà è preferibile, anzi è un elemento di perfezione. Vale la pena di riportare e commentare il seguente famoso passo del Vangelo di Matteo:
«Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Egli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. Ed egli chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso”. Il giovane gli disse: “Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?”. Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze. Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”»[viii]
Dunque, da quanto Cristo dice, si deduce chiaramente che non è strettamente necessario essere poveri per ottenere la vita eterna. Infatti inizialmente Gesù dice al giovane di osservare i dieci comandamenti di Mosè, al quale aggiunge “ama il prossimo tuo come te stesso”. Solo successivamente, poiché il giovane insiste, Gesù gli dice: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri…”. La povertà è dunque un qualcosa in più, mentre il rispetto dei dieci comandamenti e l’amore verso Dio e verso il prossimo sono fondamentali.
Poi, però, Cristo ci ricorda che è (umanamente) molto difficile per un ricco entrare nel Regno dei Cieli.
Perché?
Perché la ricchezza non è, in sé, un peccato, ma è molto facile che la ricchezza induca a peccare… Proviamo a porre ad uno qualsiasi dei nostri amici o conoscenti la fatidica domanda “cosa faresti se vincessi 100 milioni di euro al superenalotto?”… Ben difficilmente otterremo risposte edificanti.
E tuttavia – lo ripetiamo – non è la ricchezza in sé ad essere peccaminosa. Supponiamo di spendere 50mila euro per una autovettura. Potremmo acquistare un’auto sportiva, con la quale “rimorchiare” ragazze, o un mini-pulmino, con il quale accompagnare le vecchiette alla Messa. In entrambi i casi avremmo la stessa “ricchezza” (un autoveicolo da 50mila euro), ma nel primo caso la ricchezza sarebbe stata utilizzata per finalità “edonistiche”, nel secondo caso per compiere un’opera di bene. Come si vede, dunque, la differenza non è nella ricchezza, ma nell’uso che se ne fa.
Da sempre la Chiesa ha insegnato che la ricchezza deve essere “ordinata al bene”, cioè “utilizzata a fin di bene”. E – senz’altro – rendere culto a Dio è un’opera di bene, anzi L’OPERA di bene per eccellenza (sebbene la mentalità moderna non concordi). Paramenti, calici, candelabri etc d’oro costituiscono una ricchezza utilizzata a fin di bene, in quanto sono diretti a rendere culto a Dio. Ed infatti possiamo fare la “prova del 9” chiedendoci: «queste “ricchezze” spingono ad un qualche peccato?» Ci accorgeremo che la risposta è negativa. Un Pontefice od un vescovo non portano una “collana d’oro” od un “anello d’oro” per soddisfare qualche desiderio peccaminoso. Non sono paragonabili agli ornamenti di una ragazza o di un giovanotto che servono per essere “più belli”, “più affascinanti” e poter in tal modo più facilmente soddisfare, ad esempio, i propri desideri lussuriosi. Tali ricchezze non inducono alla “pigrizia” come quelle di chi “vive di rendita”. Tali ricchezze non conducono a “peccati di gola” come quelle spese per organizzare banchetti.
Prendiamo l’esempio di un Pontefice Santo quale Pio XII. Egli indossava senz’altro tutti i paramenti d’oro necessari alle varie circostanze liturgiche, utilizzava candelabri e calici d’oro dei più preziosi. E tuttavia lo stesso dormiva, per fare penitenza, su dure tavole di legno e si cibava, per gran parte dell’anno in maniera molto modesta. Lo stesso si può dire per Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti (già molto “potenti” sin da quando il fondatore era in vita) che tuttavia per tutta l’ultima parte della sua vita si cibò solo di pane ed acqua.
E allora mi chiedo e vi chiedo: chi vive con maggiori “comodità”? Chi utilizza paramenti e calici d’oro per celebrare la Messa, ma poi dorme su tavole di legno e mangia solo pane ed acqua o chi, guadagnando mille o duemila euro al mese, torna a casa propria, mangia ciò che vuole e si corica con la propria moglie (anche questo dettaglio non di poco conto) su di un comodo materasso?
Non è dunque la ricchezza in sé ad essere peccaminosa, ma il peccato potrebbe nascere dall’animo umano che dalla ricchezza e dal più facile accesso che la stessa offre alle comodità mondane ed alle possibilità di peccare, si lascia tentare e corrompere.
Ma la storia ci ha offerto esempio di grandi personaggi, oggettivamente ricchi, che hanno vissuto santamente la propria condizione, avendo considerato con “distacco” e senza “cupidigia” la propria ricchezza ed avendola, anzi, utilizzata a fin di bene. Ci sono – ad esempio – numerosi casi di Re Santi, come San Luigi IX, Re di Francia, o Santo Stefano d’Ungheria, fino allo stesso Carlo Magno.
Per non parlare poi del grande salmista, il Re Davide, che veniva additato addirittura quale esempio di povertà ed umiltà[1], pur essendo egli stesso un Sovrano, poiché viveva con distacco la propria condizione, mettendo al primo posto Dio soltanto.
Dunque, visto che a Dio tutto è possibile, ci sono stati e ci saranno nella storia uomini ricchi che useranno santamente la propria ricchezza e che grazie ad essere potranno compiere opere benefiche divenendo pertanto santi. Ma, ordinariamente, la povertà è preferibile.
Ma la ricchezza, se utilizzata per rendere gloria a Dio, è ben utilizzata, come si è mostrato con alcuni esempi, e come Cristo stesso ci dice, nel brano seguente:
«Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”»[2].
Si noti, che è proprio Giuda Iscariota a fare l’obiezione dei laicisti ed anticlericali moderni: «ma quei soldi [che Maria, sorella di Lazzaro, utilizza per “rendere culto” a Gesù] non li potremmo utilizzare per darli ai poveri?». Leggendo il Vangelo di Marco, sembrerebbe addirittura che fu questo episodio a convincere Giuda a tradire Gesù[3]!
Si noti un’altra cosa fondamentale di questo passo: che Gesù e gli Apostoli erano personalmente poveri, ma avevano in comune una cassa!
Bisogna dunque distinguere fra povertà del singolo sacerdote o vescovo, che sarebbe cosa buona in quanto imitazione di ciò che fecero Gesù e gli Apostoli, e la “povertà della Chiesa” reclamata dai laicisti ed anticlericali!
La povertà della Chiesa (come istituzione) non è stata affatto e mai ordinata da Gesù! Non solo gli tutti gli ordini religiosi dal Medioevo (ed anche prima) in poi hanno sempre distinto fra povertà personale del singolo monaco o frate e possibilità (lecita) per l’ordine di detenere beni e ricchezze in proprietà od in uso, ma – come abbiamo visto – già gli apostoli, durante il tempo della predicazione di Gesù, avevano una “cassa in comune”, cosa che si potrà ulteriormente riscontrare leggendo anche gli Atti degli Apostoli.
Dunque, giunti in conclusione, vorrei riassumere in maniera schematica quanto detto, auspicando che queste considerazioni siano utili non tanto per i laicisti ed anticlericali (i quali troveranno sempre una “non buona” “sragione” per attaccare la Chiesa), quanto piuttosto per quei fedeli che rimangono “scandalizzati” da tali argomentazioni e non sanno in che modo rispondere né verbalmente né “in cuor loro”.
Abbiamo dunque dimostrato che:
1 – la ricchezza in sé non è un peccato;
2 – la ricchezza può essere utilizzata bene o male, ed usarla per rendere culto a Dio è un modo buono (anzi “IL modo OTTIMO”) di utilizzarla;
3 – il fatto utilizzare paramenti sacri, calici e candelabri d’oro non reca all’utilizzatore alcuna “comodità” né “agevolazione” nella sua vita personale, che anzi spesso è costellata di penitenze che l’uomo comune non pratica neppure lontanamente;
4 – ogni cristiano (quindi laici e sacerdoti allo stesso modo) personalmente è chiamato (“se vuole essere perfetto”) alla povertà, ma ciò non vuol dire che debba essere povera la Chiesa in quanto istituzione. Anzi fin dai tempi di Gesù gli apostoli avevano una “cassa”;
e soprattutto:
5 – ogni cristiano è chiamato, per amore del prossimo, a dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati etc, ed il “fine ultimo” di questi gesti non è tanto aiutare materialmente il povero, quanto aiutare spiritualmente chi compie il gesto. Pertanto delegare questo compito ad istituzioni astratte (Stato, Caritas, Chiesa, Servizi Sociali, ONU, etc) è un gravissimo errore che abbiamo additato come “inganno satanico”;
6 – pertanto, visto che il fine ultimo della Chiesa è quello di salvare le anime dei cristiani, Essa non deve fornire in prima “non-persona” (visto che è una “istituzione”, per quanto divina, e non una “persona”) assistenza ai poveri, ma deve insegnare ai cristiani la Fede e spingerli ad evitare i peccati e compiere le “buone opere” necessarie alla salvezza, fra le quali senz’altro c’è anche l’assistenza ai bisognosi che ciascuno di noi deve compiere.
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[i] va dunque fatto notare che qualsiasi ricetta “politica” e/o “sociale” che cerchi di risolvere il problema della povertà senza tener conto di questo dato di partenza è destinata ad essere – nella migliore delle ipotesi –del tutto inefficacie;
[ii] chiaramente usiamo il termine “satanico” non in senso strettamente letterale e rotocalchistico, ovvero alludendo a “messe nere” e roba del genere, ma nel senso non meno reale di “inganno satanico”, ovvero di una di quelle “idee” o “pratiche” che si diffondono e sembrano a tutti (o quasi) eminentemente buone, filantropiche, innocue etc etc, ma che in realtà, facendo leva sul “sentimentalismo”, conducono a conseguenze spirituali davvero devastanti. Chi volesse approfondire legga ad esempio W. Soloviev, I tre dialoghi ed il racconto dell’anticristo, ed. Vita e pensiero, o più modestamente il nostro articoletto “Il dolce musetto di Satana” pubblicato in due parti su questo stesso blog;
[iii] cfr. A. Mordini, Il tempio del Cristianesimo, ed. Sette Colori;
[iv] “ulteriore ed occulto”, chiaramente rispetto a tutti gli altri che conosciamo e riconosciamo in maniera più palese;
[v] cfr,ad esempio, San R. Bellarmino, L’arte di ben morire e S. Agostino di Ippona, discorso 113 sul Vangelo di Luca;
[vi] cfr. il già citato “Il dolce musetto di Satana” su questo blog;
[vii] la parola “ipocrita” è la preferita da costoro;
[viii] Mt 19:16-26
[1] un esempio fra i tanti possibili, ad attestare tale considerazione:
«Un tale disse al padre Giovanni il Persiano: “Abbiamo tanto penato per il regno dei cieli; lo erediteremo infine?”. E l’anziano disse: “Confido di ereditare la Gerusalemme dell’alto iscritta nei cieli: Colui che ha promesso è fedele, perché dovrei dubitare? Sono stato ospitale come Abramo, mite come Mosè, santo come Aronne, paziente come Giobbe, UMILE COME DAVIDE, eremita come Giovanni, contrito come Geremia, dottore come Paolo, fedele come Pietro, saggio come Salomone. E credo come il ladrone che colui che per la sua bontà mi ha donato tutto ciò, mi darà anche il regno dei cieli”». (Apoftegmata Patrum: 237d-240a).
[2] Gv. 12:3-8
[3] Mc 14:10
da www.radiospada.org
Papa Giovanni XXIII: nella Chiesa cattolica “si celebra un solo sacrificio”
Nessuno ignora poi che la Chiesa cattolica, fin dal tempo degli apostoli, ha anche conservato una mirabile unità di culto, amministrando in tutto l’orbe cattolico, a nutrimento della vita spirituale dei fedeli, i sette sacramenti ricevuti in sacra eredità da Gesù Cristo. E neppure ignora che in essa si celebra un solo sacrificio, quello eucaristico, in cui Cristo stesso, nostro salvatore e redentore, in modo incruento ma reale, si immola ogni giorno per noi tutti ed effonde misericordiosamente su di noi gli infiniti tesori della sua grazia. Perciò ben a ragione san Cipriano affermava: «Non è lecito stabilire un altro altare e un nuovo sacerdozio all’infuori dell’unico altare e dell’unico sacerdozio». Ciò non toglie, come ognuno sa, che nella chiesa cattolica esistano e siano approvati diversi riti, per i quali essa splende più bella, a guisa di figlia del sommo Re nella varietà dei suoi ornamenti (cf. Sal 44,15).
Enciclica Ad Petri cathedram, 29 giugno 1959.
La grandezza della Liturgia tradizionale
È stata un successo la due giorni organizzata dal CNSP il 29 e 30 marzo scorsi a Verona.
Particolarmente intensa la giornata di sabato. Alle 13,30 si sono riuniti presso la Sala Zanotto della Basilica di S. Zeno i rappresentanti ben 15 Coetus Fidelium del Triveneto (Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige) e dell’Emilia-Romagna, per un vivo scambio di opinioni circa lo “stato” della S. Messa tradizionale nelle diverse regioni interessate. Erano presenti anche i promotori regionali del CNSP avv. Cristiano Gobbi (Triveneto) e avv. Marco Sgroi (Emilia-Romagna), nonché il Presidente Nazionale di Una Voce Italia, prof. Fabio Marino.
È stata probabilmente la prima occasione in cui i rappresentati dei Coetus del Triveneto hanno potuto incontrarsi e conoscersi, e ne è scaturito un ampio dibattito, nel corso del quale non solo ciascuno ha potuto illustrare la storia – talora purtroppo travagliata – dell’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum nella propria diocesi, ma, soprattutto, è emerso il vivo desiderio di coltivare e sviluppare fraterni rapporti di collaborazione nella promozione e diffusione della liturgia tradizionale, avviando anche qualche iniziativa comune. A tal proposito, il promotore CNSP del Triveneto avv. Gobbi si è riservato di proporre ai Coetus un’iniziativa da realizzare in occasione del centenario del beato transito di S. Pio X.
Alla riunione ha fatto seguito l’importante conferenza di don Roberto Spataro SDB, organizzata in collaborazione con Una Voce Verona Sez. S. Pietro Martire, dal tema “La riscoperta della liturgia tradizionale dopo il Summorum Pontificum. Le ragioni per conoscere ed amare la Messa Tridentina”. Poiché il testo integrale della conferenza viene pubblicato a parte, ci limitiamo qui a sottolineare che la relazione di don Spataro, svoltasi davanti ad un pubblico numeroso ed attentissimo, ha ispirato molteplici interventi, protrattisi per oltre un’ora. Va sottolineata con gratitudine la presenza alla conferenza di mons. Giancarlo Grandis, vicario diocesano per la cultura, che ha portato il saluto del Vescovo di Verona, Monsignor Giuseppe Zenti, intervenendo poi al termine con interessanti considerazioni circa la rinnovata sensibilità delle giovani generazioni, anche sacerdotali, per la tradizione della Chiesa.
Il giorno successivo, 30 marzo, don Spataro ha celebrato la S. Messa della domenica Laetare nella Rettoria di S. Toscana, particolarmente affollata di fedeli. Nell’omelia, don Spataro ha svolto una profonda meditazione sulla gioia cristiana.
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La riscoperta della liturgia tradizionale dopo il Summorum Pontificum.
Le ragioni per conoscere ed amare la Messa Tridentina
di don Roberto Spataro SDB
Gentilissime Signore, Distinti Signori, Cari Amici,
è per me motivo di onore prendere la parola questa sera dinanzi ad una platea composta da credenti sinceri e fervorosi con cui condivido lo stesso amore per la Messa tridentina e – ne sono certo – la venerazione per il Papa emerito, Benedetto XVI, che con il suo Motu proprio Summorum Pontificum ha messo a disposizione della Chiesa quel tesoro di dottrina e di pietà che è il Messale del 1962.
Sono pertanto molto grato a tutti coloro che sono presenti e a coloro che con grande dispendio di energie hanno promosso questa benemerita iniziativa che si tiene a Verona, città nobilitata dalla sua tradizione cristiana, simbolicamente esaltata dall’episodio delle Pasque veronesi.
Proporrò una serie di riflessioni nate in parte dallo studio, in parte e, direi, soprattutto, dall’esperienza.
A. Il titolo della conferenza fa riferimento, anzitutto, alla riscoperta della Liturgia dopo la pubblicazione del SP. È un dato evidente che tale riscoperta si stia verificando tra fedeli e sacerdoti in molteplici aree geografiche con una consistente e significativa percentuale di giovani e persone di media età. A quanto mi consta, non esistono statistiche ufficiali e rigorose. Ed è pure meglio. Contarsi talvolta nasconde un po’ di orgoglio e di prepotenza. Tuttavia, il fatto è documentato. È sufficiente visitare siti e blog che riportano notizie relative alla celebrazione della liturgia secondo la forma straordinaria del rito romano per rendersi conto del fenomeno sul quale vorrei proporre tre considerazioni.
1) Anzitutto, esso interessa un numero crescente di fedeli che costituiscono, però, nell’insieme dei cattolici praticanti, una minoranza estremamente esigua, dotata però, si badi bene, di robustezza di motivazioni, di vivacità nell’azione, talvolta di disponibilità alla militanza. Sono queste alcune delle caratteristiche delle cosiddette “minoranze creative”, una categoria desunta dal pensiero di A. Toynbee ed applicata dall’allora cardinal Ratzinger alla rievangelizzazione dell’Europa secolarizzata. Pensando alla storia della Chiesa, ci accorgiamo che minoranze creative hanno effettivamente rigenerato il tessuto ecclesiale e apportato un benefico influsso sulla società intera, in momenti di crisi profonda ed estesa dei valori e dei costumi. Pensiamo al manipolo delle prime generazioni di monaci cluniacensi che furono protagonisti di un movimento liturgico nel sec. X così descritto da Benedetto XVI:
Si volle garantire il ruolo centrale che deve occupare la Liturgia nella vita cristiana. I monaci cluniacensi si dedicavano con amore e grande cura alla celebrazione delle Ore liturgiche, al canto dei Salmi, a processioni tanto devote quanto solenni e, soprattutto, alla celebrazione della Santa Messa. Promossero la musica sacra; vollero che l’architettura e l’arte contribuissero alla bellezza e alla solennità dei riti; arricchirono il calendario liturgico di celebrazioni speciali come, ad esempio, all’inizio di novembre, la Commemorazione dei fedeli defunti; incrementarono il culto della Vergine Maria. E, grazie al movimento monastico cluniacense, si creò un robusto tessuto spirituale ed etico che collegò i popoli dell’Europa.
2) In secondo luogo, le minoranze tendono a curare, talvolta a difendere, la loro identità. E questo contribuisce ad un approfondimento e ad un’appropriazione più convinta dei tratti che definiscono l’identità. Per questo motivo, essendo passati ancora pochissimi anni dalla nascita del movimento SP, i fedeli e le comunità che celebrano con il Messale del 1962 sono in una fase di maturazione. Non è forse questa l’esperienza che molti di noi fanno? La formazione liturgica che cerchiamo di acquisire, da soli o in compagnia, gli effetti nella nostra vita spirituale, ed anche l’organizzazione stessa delle celebrazioni, ci stanno aiutando a comprendere che dalla e con la liturgia tradizionale si costruisce uno stile di vita cristianotout court.
3) Infine, non vorrei tacere sul fatto che le minoranze che hanno adottato la forma straordinaria del rito romano non sempre incontrano comprensione, nonostante gli autorevoli incoraggiamenti giunti dal motu proprio. Anche questo fatto è, secondo me, assolutamente non irrilevante. La storia della Chiesa, infatti, ci mostra questa legge costante: le opere di Dio, affidate a pochi, soprattutto all’inizio, sono contrastate ed in genere coloro che frappongono ostacoli sono i fratelli nella fede, che pure agiscono, il più delle volte, con rette intenzioni. Dio si serve di anche questo misterioso dinamismo per purificare e consolidare.
B. Giungo ora alla seconda parte della riflessione che intendo condividere con Voi. Quante volte abbiamo risposto a chi ci domandava il motivo del nostro amore per la Messa tridentina le ragioni che ci sembrano importanti! Ecco, pensando a degli ideali interlocutori, a credenti come noi che si chiedono quale valore possa avere una “Messa in latino” officiata da un prete che volge le spalle ai fedeli, vorrei dire quanto sottopongo anche alla Vostra comprensiva attenzione. Sono cinque i motivi.
1) Anzitutto, partirei dal Magistero del Papa Francesco. Infatti, oltre al dato oggettivo dell’autorità del Supremo Pastore, si ottiene quasi sicuramente la benevolenza del nostro ideale interlocutore, verosimilmente affascinato dalla figura dell’attuale Pontefice. Papa Francesco chiede insistentemente – si pensi agli appelli contenuti nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium – uno slancio missionario che induca o alla rievangelizzazione dei battezzati per cui la fede è diventata irrilevante o all’evangelizzazione di chi non ha ricevuto l’annuncio esplicito. Sotto questo punto di vista, la Messa tridentina offre moltissime risorse. Con le sue caratteristiche ben note a tutti noi, la sacralità, l’orientamento ad Deum, l’affermazione della condizione creaturale dinanzi al Creatore e al Redentore, l’uso di un linguaggio simbolico e sinestetico completo (la liturgia tridentina coinvolge tutti i sensi interni ed esterni dell’uomo), la concentrazione del messaggio, è una sorta di annuncio fondamentale del Vangelo che colpisce chi lo riceve, teologicamente ed antropologicamente potente. Credo che sia significativa la leggenda che racconta la conversione del principe Vladimir al Cristianesimo che segnò l’ingresso nella famiglia cristiana del popolo russo. Inviò i suoi emissari nel mondo circostante per informarsi su quale fosse la vera religione. Quando essi tornarono, riferirono che a Costantinopoli, nella Basilica della Hagia Sophia, avevano assistito alla splendida liturgia orientale e ne avevano tratto una conclusione: “non sapevamo se fossimo ancora sulla terra o fossimo già in Cielo”. Sì, cari amici, c’è tanto bisogno di evangelizzare il mondo e la liturgia ben celebrata è un mezzo potente perché è Dio stesso che agisce sulla terra. Permettetemi di citare il testo, in una mia personale traduzione, della 35a proposizione finale del Sinodo dei Vescovi del 2012, dedicato proprio all’evangelizzazione e troppo presto dimenticato per parlare del prossimo sinodo, oggetto di un ambiguo bombardamento mediatico.
La degna celebrazione della Sacra Liturgia, il più prezioso dono di Dio a noi, è la sorgente della più alta espressione della nostra vita in Cristo. È perciò l’espressione primaria e più potente della nuova evangelizzazione. Dio desidera manifestarci la bellezza incomparabile del suo amore infinito ed incessante per noi per mezzo della Sacra Liturgia, e noi, per nostra parte, desideriamo utilizzare ciò che abbiamo di più bello nell’azione di adorazione di Dio in risposta al suo amore. L’evangelizzazione nella Chiesa invoca una liturgia che elevi i cuori degli uomini e delle donne a Dio. La liturgia non è solamente un’azione umana ma un incontro con Dio che conduce alla contemplazione e ad un’amicizia che si va approfondendo con Dio. In questo senso, la liturgia della Chiesa è la migliore scuola della fede.
Non c’è nessuno che non pensi che, mentre viene data questa definizione della liturgia e ne viene illustrata la sua forza intrinseca, in quanto essa è un’azione divina, per il successo dell’evangelizzazione e del consolidamento della fede, non abbia associato quelle parole ai riti venerabili nella loro sobrietà, solenni nella loro semplicità, divini nella loro bellezza della Messa tridentina. Sì, cari Amici, lo affermiamo con gioia e con convinzione: ci sarà un grande slancio evangelizzatore e missionario, quello che Papa Francesco ci chiede, se ci sarà una diffusione della Messa tridentina.
2) Vengo ad una seconda ragione. Anch’essa mi viene ispirata dall’attuale Pontificato. Non a torto, si suole dire che al Papa teologo è succeduto un Papa pastore che sta orientando anche la teologia verso la pastorale. Che cos’è la pastorale, in definitiva? Essa è prendersi cura delle anime, delle persone, secondo un linguaggio più corrente, biblicamente simbolizzate nella figura della pecora. La cura delle anime – a me piace utilizzare ancora questa categoria che in fondo tutti capiscono bene -, non significa forse comunicare il bene più grande che è la Grazia divina? E qual è la sorgente della Grazia divina, se non il Sacrificio della Croce che misticamente si rinnova nella celebrazione della Messa? Ebbene, poiché la mistica del sacrificio incruento si dispiega attraverso il linguaggio dei segni, cioè il linguaggio sacramentale, quanto più esso sarà comprensibile, tanto più l’anima sarà disposta alla ricezione del bene, cioè della Grazia divina. Forse, potrà sorprendere quanto dico, ma a me sembra che il linguaggio liturgico della Messa tridentina sia maggiormente comprensibile. Naturalmente, bisogna precisare qual è il contenuto da comprendere. Abbiamo detto poco fa: è la Grazia divina, dunque, un bene spirituale, altro da quanto umanamente sperimentiamo nella vita quotidiana, un bene spirituale che sorprende, come sorpresa fu Maria Santissima, la “piena di grazia”, all’annuncio dell’Angelo, un bene spirituale che ci chiede un’accoglienza intrisa di stupore, adorazione, gratitudine, silenzio, di quegli atteggiamenti, cioè, che il fedele coltiva nell’actuosa participatio favorita dalla Messa tridentina. Insomma, il bene delle anime ci richiede una Messa, sorgente delle grazie, in cui la Grazia nella sua alterità di dono divino sia percepita come tale.
A tal proposito, vorrei ricordare quanto ho letto tempo fa su un articolo apparso in un blog in lingua spagnola, suggeritomi da un confratello spagnolo e che, purtroppo, non ho registrato. Il nocciolo del ragionamento era il seguente: il fedele laico che partecipa regolarmente alla Messa tridentina, si sforza di vivere, per quanto egli riesca, nella sua debolezza umana, comune a noi tutti, i doveri – ed usiamo pure questa parola senza timore -, della sua vita cristiana: dalla fedeltà agli obblighi assunti con il sacramento del Matrimonio all’onestà e alla coerenza nell’esercizio della sua professione. Lungi da noi stabilire classifiche di cristiani di serie A e serie B perché grazie a Lui, c’è il Padre Eterno che può stabilire queste graduatorie, e lo fa con immensa misericordia, come giustamente insiste il Papa Francesco, però è un dato oggettivo che i fedeli laici che amano la Messa tridentina trovano, evidentemente, risorse spirituali abbondanti per essere sposi fedeli, genitori fecondi, educatori responsabili, cittadini onesti, credenti obbedienti e caritatevoli con il prossimo, penitenti che si confessano frequentemente. Con i tempi che corrono, questa è merce tanto preziosa quanto rara! Questa è anche la mia esperienza: i fedeli che io conosco e che amano la Messa tridentina appartengono in genere a questa categoria. Mi è così venuta in mente una domandina: non è che nella colluvie di progetti pastorali, piani di intervento, itinerari e cammini di vario genere, partoriti spesso da loquaci burocrazie ecclesiastiche, che non sembrano sortire molti effetti, non sia opportuno proporre un’iniziazione alla liturgia tradizionale? Videant consules.
3) Terza ragione. Adesso parlerò della mia categoria: i preti. Io penso che, globalmente, la situazione sia buona, se paragonata con altre epoche della storia della Chiesa, almeno qualitativamente, perché quantitativamente regioni vastissime sono afflitte dalla penuria di sacerdoti e dunque di Messe. L’impianto formativo è buono, seminario, ratio studiorum, formatori ed accompagnatori. Certo, le situazioni variano da regione a regione, talvolta da diocesi a diocesi. Tra i punti deboli che riscontro nel prete medio c’è una preparazione culturale debole, per mille motivi, e, spesso, alla fine del percorso formativo, una preparazione teologica lacunosa, superficiale, disordinata. Mi spiego: è lacunosa perché alcune materie non vengono studiate, come l’apologetica (ed i risultati si vedono, il mondo prende a pesci in faccia il Cristianesimo e i preti non sanno che cosa rispondere) o l’angelologia (e molti preti non sanno come si fa un esorcismo, ammesso che credano all’esistenza del demonio che sta facendo stragi, e meno male che Papa Francesco ce lo sta ricordando frequentemente); è superficiale perché sono incapaci di accedere alle fonti della teologia, in latino e in greco, e devono affidarsi alle mediazioni culturali di traduzioni e sommari; è disordinata perché studiano moltissime materie, corsi e corsetti, ma manca un impianto trinitario-cristocentrico, che dovrebbe essere quello del Catechismo della Chiesa Cattolica, fede/liturgia/morale/vita spirituale. Ora, se un prete diventa familiare con il Messale, fa ogni giorno un ripasso formidabile di teologia: c’è tutto l’essenziale, in uno schema ordinato, con accesso alla fonte delle fonti che è il Messale in latino. Nel Messale del 1962 trova tanta Bibbia, basti pensare ai Salmi che costituiscono l’impianto delle antifone, trova la rilettura della Scrittura fatta dai Padri nel patrimonio eucologico, ripercorre i misteri della storia della salvezza, si imbatte nelle categorie portanti della fede pensata lungo i secoli in cui è stato formulato il dogma: creazione, peccato, redenzione, santificazione, vita eterna. Ed attenzione, non è una teologia verbosa, un po’ arrogante, spesso noiosa, come talvolta accade nelle aule di una facoltà teologica, ma è una teologia quasi silenziosa come il Canone, umile perché in ginocchio, affascinante perché vissuta con il Corpo di Cristo tra le mani.
E poi la Messa tridentina è una scuola eccellente di pietà sacerdotale. Accenno solo ad un elemento. I preti hanno sempre fretta. Di fretta, entrano in sacrestia, di fretta indossano i paramenti (forse, è questa una delle ragioni perché sono stati ridotti all’essenziale e qualche volta manco quello), di fretta salgono sull’Altare. La Messa tridentina chiede al prete di recitare delle bellissime preghiere mentre si veste, prima di lasciare la sacrestia, quando sta dinanzi all’altare. Entra in una dimensione del tempo dove non c’è più ragione per andare di fretta. Luci di eternità lo avvolgono. È l’augurio che faccio a tutti i miei confratelli sacerdoti: conoscere la Messa tridentina, la sua teologia e la sua spiritualità che brucia di Spirito Santo!
4) Quarta ragione. C’è da essere pessimisti o ragionevolmente ottimisti per come stanno andando le cose nel mondo? A dir la verità, quando indugiamo a fare l’elenco delle cose che non vanno, abbiamo sempre timore di essere tacciati di essere “profeti di sventura”. Non mi avventuro in queste considerazioni perché, da una parte non vorrei peccare contro la seconda delle virtù teologali, dall’altra perché bisognerebbe essere dei tuttologi per capire come stanno le cose. E di tuttologi ce ne sono già tanti. Volentieri lascio il mestiere a loro. Di una cosa, però, cari Amici, sono certo. Al demonio e a ai suoi satelliti è stata lasciata una grande libertà di azione negli ultimi tempi. È una convinzione che nasce dal colloquio con gli esorcisti che avrebbero tante cose da dirci. Non è forse luciferina la pretesa di misconoscere l’armonia della creazione, in cui è stabilita la differenza dei sessi, sottrarsi a questo ordine e gridare, ogni giorno di più, anche a bambini innocenti: “Non oboediam”? Non è satanico l’odio che ha introdotto nel vocabolario una nuova parola, cristianofobia, e che provoca, secondo il sociologo Introvigne, la morte violenta di un cristiano ogni 5/6 minuti di ogni giorno? Insomma, il demonio sta agendo e, quando opera, ha una vittima prediletta: la Chiesa. Pazzo per la rabbia, non potendo far nulla contro lo Sposo, se la prende con la Sposa. Bisogna difendersi, altrimenti le botte le prendiamo tutti e ci facciamo male. Bene, la Messa tridentina, piaccia o no, ha un linguaggio sacramentale oggettivamente più completo ed efficace per contrastare l’azione del demonio. Non ha le esitazioni razionalistiche di un altro Messale nel chiamare per nome il maligno e nel chiedere a Dio Padre di aiutarci nella lotta. Anzi, a pensarci bene, siccome il sacerdote che offre il sacrificio agisce in persona Christi, chi supplica il Padre di sostenere la Chiesa contro il demonio è Gesù Cristo stesso, è Nostro Signore. Da soli che cosa possiamo fare? Schieriamo i fucili contro i missili? Allora, il combattimento lo pratichiamo agli ordini del Generale, Gesù Cristo, anzi lo facciamo svolgere a Lui. E non siamo mai soli, ci sono i Santi e gli Angeli del Cielo, compreso l’Arcangelo Michele che il Papa Leone XIII volle fosse invocato alla fine di ogni Messa. Chi sa, forse, se riprendessimo a farlo, con il Vetus e il Novus Ordo, le cose non andrebbero un po’ meglio?
5) Mi avvio alla conclusione. Accenno alla quinta ragione. La Messa tridentina è bella. E lavia pulchritudinis è un eccellente itinerarium in Deum. È bella la sua lingua, la lingua sacra per eccellenza, il latino, è bella la disposizione dell’altare con il Crocifisso in posizione centrale e non il prete che, per quanto avvenente possa essere, non può paragonarsi al Crocifisso, è bella l’atmosfera di raccoglimento, sono belli i canti, è bella l’umiltà dei fedeli in ginocchio dinanzi alla balaustra, è bella la fede che traluce nello sguardo degli anziani che sanno di adorare Colui che li ha accompagnati nelle varie stagioni della vita e li accoglierà in Cielo, Lui che scende sull’Altare proprio per questo, è bella l’innocenza dei bambini che, qualche volta si annoieranno, ma non dimenticheranno mai che, se il papà e la mamma sono inginocchiati, Colui dinanzi al quale si inginocchiano è più importante del papà e della mamma, è bella la pietà dei giovani che all’inizio del rito ripetono quelle parole immortali ad Deum qui laetificat iuventutem meam, è bella la testimonianza del prete che, nel suo ministero ce la mette tutta per far del bene alla gente, ma, anche se non ci riesce, alla fine della Messa, quando recita il Placeat, sa che ha fatto per loro la cosa più importante, è bella la comunione con i santi del Paradiso che si invocano frequentemente per onorarli e per chiedere l’intercessione, soprattutto Maria Santissima, è Lei bellissima, la Regina del Cielo, che, sul Calvario ha accolto Giovanni l’apostolo, ed in ogni Messa, rinnovazione incruenta del Sacrificio della Croce, come la Messa tridentina solamente sa inculcarci, ci sta accanto. A Lei affido i desideri che portiamo nel cuore perché si diffonda la Messa tridentina, restituita generosamente alla Chiesa da un Papa grande, Benedictus Magnus, ad laudem et gloriam Nominis sui, ad utilitatem quoque nostram totiusque Ecclesiae suae Sanctae.