La Messa non è finita. Deo gratias

di Rino Camilleri

Premetto che in quel che dirò non c’è alcuna vocazione polemica, perché le dispute intraecclesiali non mi appassionano. Anzi, mi infastidiscono. Sono cose di preti, nelle quali i laici, a mio avviso, meno mettono bocca e meglio è. Troppo spesso i preti si comportano come se la Chiesa fosse «cosa loro» e rispondono piccati quando li si critica. É da cinquant’anni, cioè dai tempi del Concilio, che il clero si riempie le gote del famoso «ruolo dei laici», ma poi, a conti fatti, il ruolo dei laici lo vorrebbe così: sempre in ginocchio, obbedienti e col portafogli aperto.

Ho ormai una certa età e confesso che, quando sento parlare o leggo di dispute sul Concilio cambio canale o pagina o clicco qualcos’altro. Lo stesso dicasi per la Messa, nuovo rito, vecchio rito, rito straordinario, progressismi e tradizionalismi. Saranno gli anni, ma sono stufo da un pezzo. Quando mio nonno aveva l’età che ho io adesso e io ero un ragazzino, lui mi diceva sempre: sta’ lontano dai preti; onorali, riveriscili e salutali per strada, bacia loro la mano (allora usava) e va’ a Messa, ma non ti ci mischiare. Con sorpresa, diventato scrittore, mi accorsi che Padre Pio era dello stesso parere. Non sopportava i laici che ronzavano attorno alle tonache: allora si chiamavano «baciapile», oggi «impegnati nella pastorale». Il Santo diceva, col suo solito modo ruvido: «O dentro o fuori». Cioè: se ti piace l’ambiente entra nel clero, sennò esci di sacrestia e fai davvero il laico.

L’esperienza è quella cosa che quando l’hai fatta è troppo tardi. Infatti, oggi so –per esperienza- che sia mio nonno (uomo religiosissimo) che Padre Pio (santo, asceta e mistico) avevano ragione. Entrambi passarono i guai loro per colpa del clero: le vicissitudini di Padre Pio sono note (rileggersi il mio libro Vita di Padre Pio, Piemme, più volte ristampato), mio nonno (che era imprenditore) uscì mezzo rovinato economicamente per essersi fidato di preti in un affare. Premesso tutto questo, vengo al dunque.

Sono tanti anni ormai che nella mia mente la Messa domenicale è associata a un’ora di martirio di cui farei volentieri a meno. Tedio. Noia. Omelie banali e interminabili. Canzonette pop dal testo cretino. Estenuanti e retorici assilli al Padreterno terminanti con «…ascoltaci Signore». Segni di pace sudaticci. Ridicola miniprocessione per portare i «doni» all’altare. Chilometrici avvisi parrocchiali da ascoltare in piedi prima di avere la benedizione finale (dunque, abusivamente inglobati nella liturgia). Un «rendiamo grazie a Dio» che è un (mio) urlo di sollievo prima di uscire –finalmente!- a riveder le stelle. Ripeto: nessuna polemica. Trattasi solo di mie personali sensazioni.

Ora, però, ho scoperto che nella cittadina sul Lago Maggiore in cui passo di solito l’estate c’è un prete che dice l’antica Messa. Una sola, il sabato pomeriggio. Ci sono andato, per curiosità. Già, perché quando vigeva il vecchio rito io a Messa non ci andavo proprio, perciò per me era una vera novità. Stupore: il celebrante faceva quasi tutto lui, gli astanti dovevano «rispondere» di rado. Silenzio. Il centro del tutto era il tabernacolo, non lo show del prete. Uno, in un angolo, intonava gli antichi inni in latino e –sorpresa- qualcosa mi si scioglieva dentro. Non mi accorgevo del tempo che passava, mi ritrovavo attento e concentrato come non mai, «partecipavo» davvero. Uscii ancora pervaso da un senso del sacro quale mai avevo provato prima. C’erano a disposizione dei libri per seguire la Messa, di quelli coi nastrini segnapagine rossi. Io non ci capivo granché, ma –altra sorpresa- una bengalese seduta accanto a me, colta la mia difficoltà, prese a indicarmi i passi giusti.

Una bengalese! Il 5 agosto una lettrice romana mi ha scritto, raccontandomi della Messa a cui aveva assistito al mattino nella basilica di Santa Maria Maggiore. Ogni anno, per la ricorrenza della festa, vi si celebra solennemente in latino. Scrive la lettrice: «Mi sono trovata a cantare e a rispondere accanto a una coppia di giovani tedeschi e a due nere americane che conoscevano alla perfezione le parti della Messa in latino sia recitate che cantate; lo stesso mi capitò anni fa con dei giapponesi; è questo un modo davvero commovente di sentire e di vivere la cattolicità della Chiesa». Eggià: per «aggiornarsi» con gli anni Sessanta -del secolo scorso- la Chiesa rinunciò alla sua lingua sacra (mentre ebraismo e islamismo mantengono rigorosamente le loro). Il risultato di quello che Vittorio Messori definì in un’intervista «un golpe clericale» è che se percorro, che so, la Spagna devo assistere a Messe in catalano, castigliano, basco e via dicendo.

Nel turista cattolico, con difficoltà avverto un fratello e la «cattolicità» di cui parlava la lettrice diventa teoria, non una sensazione palpabile. Scusate, ma siamo fatti anche di corpo. In quella chiesina sul Lago Maggiore ho visto un sacerdote che portava a Dio le preghiere del popolo che gli stava alle spalle in religioso (è il caso di dirlo) raccoglimento. Naturalmente –mi ha raccontato poi- si è inimicato il vescovo e tutti i colleghi della diocesi per via della sua ostinazione –qualificata di «lefebvriana»- a voler celebrare una (una!) Messa alla settimana secondo il motu proprio di Benedetto XVI. Tranquilli, quando finirà l’estate e tornerò in città non ho alcuna intenzione di macinare chilometri per andare a cercare una Messa di rito «straordinario» (sic!). Offrirò, come sempre, la mia pena domenicale al Signore nella solita parrocchia, a sconto dei miei peccati.

Fonte: lanuovabq.it

“Alla Sua presenza”

di don Nicola Bux

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Gian Arturo Ferrari, firma del Corriere della Sera, ha osservato: “C’è una concezione del mondo religioso che di religioso non ha nulla. Penso a qualche funzione religiosa a cui ho partecipato di recente. Il modello era la tv”. E’ una verità amara, ogni qualvolta si assiste ad una liturgia che invece di essere “azione sacra per eccellenza”, come la Costituzione liturgica la definisce (SC 7), è trasformata in show; sta ricordarlo l’uso di un verbo tipico delle feste dei villaggi turistici: animare. Si osservi quel che accade, in occasione delle prime comunioni.

Alcuni sacerdoti collocano in chiesa, al posto dei banchi, più tavolini apparecchiati, oppure un grande tavolo, di quelli comunemente usati per le feste nelle sale parrocchiali, in modo da dare l’idea della ‘tavolata’. I bambini vengono fatti sedere attorno, e davanti a ciascuno è posta una patena con un’ostia da consacrare. Su un altro tavolino, all’angolo, sta il calice col vino. Alla consacrazione, ciascun fanciullo toglie il velo dalla patena. Il sacerdote consacra, poi passa dai bambini e ciascuno di essi, in piedi, self-service, prende la sua ostia dalla sua patena, la intinge nel calice che gli porge il sacerdote e si comunica. Poi si siede. Una variante è che l’ostia, non si trovi nella patena davanti al bimbo, ma gliela passi, poi, il sacerdote, ed il bambino la intinga nel calice e si comunichi. Un sintomo di quella che è stata definita la “nuova religione dell’autodeterminazione”? Il Messale Romano, promulgato da Paolo VI, ammonisce: «Non è consentito ai fedeli di ” prendere da sé e tanto meno passarsi tra loro di mano in mano” (Institutio Generalis del Messale Romano, 118) la sacra ostia o il sacro calice. In merito,inoltre, va rimosso l’abuso che gli sposi si distribuiscano in modo reciproco la santa Comunione» (Istruzione Redemptionis Sacramentum 94). Ancora «Non si permetta al comunicando di intingere da sé l’ostia nel calice, né di ricevere in mano l’ostia intinta» (Ivi, 104). Un altro abuso frequente è la distribuzione della Comunione da parte di accoliti e ministri straordinari, – anche se vi sono sacerdoti e diaconi, ministri a ciò deputati – cosa prevista solo in caso di una grande folla, cioè, almeno cinquecento fedeli, che si accostassero tutti al sacramento! Eppure, nell’Istruzione Redemptionis Sacramentum, richiesta da Giovanni Paolo II nell’Enciclica sull’Eucaristia, si ammonisce: «E’ riprovevole la prassi di quei Sacerdoti che, benché presenti alla celebrazione, si astengono comunque dal distribuire la Comunione, incaricando di tale compito i laici» (RS157) e poi: «Il ministro straordinario della santa Comunione, infatti, potrà amministrare la santa Comunione soltanto quando mancano il Sacerdote o il Diacono, quando il Sacerdote è impedito da malattia, vecchiaia o altro serio motivo o quando il numero dei fedeli che accedono alla Comunione è tanto grande che la celebrazione stessa si protrarrebbe troppo a lungo. Tuttavia ciò si ritenga nel senso che andrà considerata motivazione del tutto insufficiente un breve prolungamento, secondo le abitudini e la cultura del luogo» (RS 158; cfr 88 e 154).

Alcune considerazioni:

1. La ‘tavolata’ è un grave errore teologico-sacramentale, causato dall’idea che la Messa sia la riproposizione dell’ultima cena. Non pochi studi hanno cercato di chiarirlo, non ultimi quelli di Joseph Ratzinger. La cena celebrata da Gesù alla vigilia della pasqua ebraica non è ancora una liturgia cristiana, come prova il fatto che solo le due benedizioni sul pane che diventa corpo dato per noi e sul vino che diventa sangue versato per noi, sono state conservate dalla tradizione apostolica e inserite in un grande “preghiera di benedizione” o supplica di ringraziamento, in greco eucaristia, a Dio Padre nello Spirito Santo, fatta in nome di Gesù Cristo il Figlio, incarnato e sacrificato per noi. Quanto ha fatto il Signore nel contesto dell’ultima cena è una novità, per questo: «l’ultima cena fonda il contenuto dogmatico dell’eucaristia cristiana, ma non la sua forma liturgica». In altri termini: «Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla…Il memoriale del suo dono perfetto, infatti, non consiste nella semplice ripetizione dell’ultima cena, ma propriamente nell’eucaristia, ossia nella novità radicale del culto cristiano […] La conversione sostanziale del pane e del vino nel suo corpo e nel suo sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento, come una sorta di “fissione nucleare”, per usare un’immagine a noi oggi ben nota, portata nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà, il cui termine ultimo sarà la trasfigurazione del mondo intero, fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28)» (SCa, 11). Nell’eucaristia «Gesù ha anticipato il suo sacrificio, un sacrificio non rituale, ma personale». Nello stesso tempo l’eucaristia è attesa della cena che il Signore appresterà al suo ritorno alla fine del mondo. Dunque, prefigurata nel sacrificio del tempio, nel “servo sofferente” di Isaia, nella cena pasquale degli ebrei, la forma originale della messa è l’eucaristia, cioè la preghiera di ringraziamento che trasforma la mia esistenza; è l’obbedienza di Gesù Cristo al Padre, perciò è sacrificio e pasto dei riconciliati. In relazione alla passione di Cristo, in cui il sangue era separato dal corpo, il concilio di Trento definisce la santa messa “vero e proprio sacrificio” di Gesù Cristo. Egli si rende presente sull’altare – alta-res, luogo alto per il sacrificio – in obbedienza alle parole consacratorie del sacerdote, e, a causa della separazione del corpo dal sangue, è nella condizione di vittima immolata (immolatitius modus: cfr Pio XII,Enciclica Mediator Dei, 70). Per questo, l’altare è anche mensa dell’Agnello immolato (cfr Ap 5,6), per ricevere il pane, separatamente, come sacramento del corpo e il vino come sacramento del sangue (cfr san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae III q 74 a.1 sc). Tutto questo è riaffermato dal Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 1365). Sebbene l’espressione “cena del Signore” sia uno dei modi di chiamare l’eucaristia, in realtà si riferisce alla cena escatologica dell’Agnello, come esclama il sacerdote alla Comunione: Beati qui ad coenam Agni vocati sunt. La dimenticanza o l’ignoranza di tutto questo, finisce per separare la Messa dal sacrificio della croce e ridurre l’eucaristia ad un banchetto fraterno. Non si dimentichi, poi il divieto di Paolo di unire la frazione del pane all’agape, cena di carattere religioso-sociale, tanto forte era ancora l’influsso pagano di fraintendere l’eucaristia come un banchetto dal quale inevitabilmente poi scaturivano abusi e licenze. Nelle due forme della messa bizantina, la “divina liturgia di San Giovanni Crisostomo” e quella “di San Basilio”, il concetto di cena o di banchetto è chiaramente subordinato a quello di sacrificio, proprio come nel nostro canone romano.

2. La ‘tavolata’ è anche un deplorevole abuso liturgico: sostituisce l’altare, al quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare (cfr Institutio Generalis del Messale Romano, Ed.typ. III, 296). Cos’è l’altare e perché si usa? Nella tradizione giudaica v’era l’altare dei sacrifici – la parte superiore per l’immolazione delle vittime – e la tavola dei pani da offrire. Col cristianesimo, l’altare dei sacrifici nel cortile del tempio e la tavola delle offerte all’interno, vengono resi, nelle chiese, con una composizione sintetica: l’altare rappresenta Cristo, la croce e ad un tempo il suo sepolcro (cfr CCC 1182); è anche la mensa del Signore (cfr Eb 13,10) dalla quale scaturiscono i sacramenti del mistero pasquale. E’ la parte più santa del tempio ed è elevato, alta res, posto in alto per indicare l’opera di Dio che è superiore a tutte le opere dell’uomo. Non deve essere poggiato sul piano del pavimento, ma almeno elevato su un gradino, affinché ricordi il Golgota dovendosi su di esso rinnovare il sacrificio che Gesù compì sulla croce. Per questo è sempre rivestito di tovaglie, che indicano la purezza necessaria per accogliere Dio; in quella bizantina l’altare è coperto con un velo, quasi una dalmatica diaconale annodata sui quattro lati, ad indicare Cristo fattosi servo. Per la liturgia orientale, l’altare non deve essere grande, come nella tradizione latina più antica, perché è sufficiente che si possa accostare il celebrante per il sacrificio; poi su di esso ardono lampade e in specie ha al centro la croce, l’artoforio (tabernacolo) e l’evangelario. In occidente si ritiene superato tutto questo, nonostante i propositi ecumenici di “respirare con due polmoni”. Nel post-concilio ha prevalso la tendenza ad avvicinare l’altare al popolo. In realtà, non è l’altare che si deve avvicinare al popolo, ma il popolo all’altare: i movimenti processionali di introito, di offertorio e di Comunione, come dicono i salmi, significano l’andare alla presenza del Signore, per offrire i santi doni e comunicarsi a lui.

3. Il rapporto tra sacrificio eucaristico, “festa”, “comunità”, elemento umano e divino nella Messa. Una prima questione, riguarda le caratteristiche del sacramento eucaristico: è una cena o un sacrificio? Così risponde il Catechismo: “La Messa è ad un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce,e il sacro banchetto della Comunione al corpo e al sangue del Signore”. Non è solo un accostamento, poiché vi è un nesso intimo tra cena e sacrificio. Infatti: “La celebrazione del sacrificio eucaristico è totalmente orientata all’unione intima dei fedeli con Cristo attraverso la Comunione. Comunicarsi è ricevere Cristo stesso che si è offerto per noi” (CCC 1382). Certo, il termine memoriale può essere inteso come ricordo di un fatto passato. Non è così, grazie allo Spirito Santo che ci ricorda ogni cosa (cfr Gv 14,26); l’eucaristia fatta dalla Chiesa rende presente e attuale la pasqua di Cristo e il suo sacrificio offerto una volta per tutte (cfr CCC 1364). Rende presente anche la risurrezione? Col battesimo e soprattutto con l’eucaristia, il cristiano soffre e muore con Cristo, mentre della risurrezione riceve il germe che si svilupperà in pienezza alla fine dei tempi, secondo la parola del Signore: “io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(Gv 6,40). Ma finché siamo “nella carne”, noi partecipiamo alla sua passione e attendiamo, nella fede e nella speranza, il giorno della glorificazione. Inoltre, si tratta di sacro banchetto, o convito, nel quale si riceve Gesù Cristo,si fa memoria della sua passione, il cuore si riempie di grazia: viene dato l’anticipo della gloria futura. Sacro significa che c’è la sua presenza divina e quindi bisogna avvicinarsi con quel timore di Dio, che è uno dei sette doni dello Spirito Santo. Il sacrificio sacramentale è definito eucaristia, termine greco che vuol dire azione di grazie o benedizione, memoriale e presenza di lui, operata dalla potenza della sua parola e dallo Spirito Santo; il tutto culmina nella Comunione. E’ festa in senso spirituale, non mondano: non vive di trovate accattivanti, non deve esprimere l’attualità effimera, non è un intrattenimento che deve aver successo, ma ravvivare la coscienza che il mistero è presente tra noi. E’ festa della fede, in cui deporre, come dice la liturgia bizantina, ogni mondana attitudine, perché “misticamente rappresentiamo i cherubini”(tropario d’offertorio). Il dramma giunge al suo culmine: l’altare su cui s’innalza la croce diventa ora la mensa dell’Agnello immolato ma vivo. Il sacrificio del corpo e del sangue misticamente anticipato nella cena e compiuto sul Golgota, ora è approntato come cibo e bevanda per i fedeli perché entrino in intima unione con la vittima divina. Come gli apostoli la domenica di Pasqua siamo nel cenacolo col Signore ormai risorto che mostra le piaghe gloriose e ci invita al convito. La familiarità con lui provoca stupore e gioia, ma non consente banalità come il trasformare l’altare in tavola da pranzo a cui far accedere i fedeli. Egli è il Signore, e il convito «resta pur sempre un convito sacrificale, segnato dal sangue versato sul Golgota. Il convito eucaristico è davvero un convito “sacro”, in cui la semplicità dei segni nasconde l’abisso della santità di Dio: O Sacrum convivium, in quo Christus sumitur!» (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 48). Trasformare l’altare in una ‘tavolata’, significa favorire nei piccoli un’idea distorta della Comunione, la quale discende dall’alto della Trinità e non dal basso del nostro stare insieme.

4. Come accostarsi alla Comunione, a cominciare dalla ‘prima’. Proprio ai nostri giorni, che vedono i piccoli particolarmente precoci e attenti, alle lingue come al web, li immergiamo nella banalità; gli impediamo di partecipare a liturgie solenni con il pretesto di peculiari esigenze psicologiche, pensando che non capiscano e invece li si priva dell’incontro col mistero divino attraverso lo stupore, il silenzio, l’ascolto, la musica sacra, la preghiera e il ringraziamento, come è avvenuto per noi da piccoli, e siamo cresciuti nella fede attraverso la partecipazione alla liturgia cattolica della Chiesa, col suo respiro universale. I piccoli non desiderano diventare grandi e stare con i grandi? La prima Comunione significa che è da lui, dal Signore, che, a conclusione dell’iniziazione, noi riceviamo un posto alla sua mensa, per la prima Comunione con lui, qui e per l’eternità. Gesù l’ha promesso: “Io vi preparo un posto”: questo comincia, quaggiù, con l’essere divenuti capaci, mediante il battesimo e la cresima, di riconoscerci figli in lui Figlio e quindi rendere grazie a Dio Padre. Nel rito romano antico, i fedeli si accostano alla balaustra, in ginocchio, dove spesso è distesa una tovaglia che rappresenta la mensa, il banchetto, e ognuno ha un posto: si inginocchia e attende in raccoglimento di ricevere la Comunione. Un gesto significativo è l’uso di nascondere le mani sotto la tovaglia – l’ho visto fare in Francia dai bambini e dagli adulti, dopo essersi inginocchiati – indica l’esigenza di essere puri per toccare il Signore, che ci ha scelti e chiamati con la fede alla mensa del suo regno, di cui la Comunione è l’anticipo, la caparra, l’anticipo della gloria futura. La prassi ordinaria – secondo la tradizione condivisa d’oriente e d’occidente – è che si riceva nella bocca, dopo un atto di riverenza, un inchino profondo o in ginocchio. Ma non di rado, i fedeli che vogliano riceverla, così, sono oggetto di bruschi dinieghi, anche scandalosi, da parte di sacerdoti noncuranti d’avere nelle mani le sacre specie. Eppure, il modo di riceverla, in piedi e sulla mano, è solo un indulto, ossia un permesso a tempo. Pertanto, non poteva non suscitare reazioni l”innovazione’ di Benedetto XVI di amministrare la Comunione ai fedeli, in ginocchio e in bocca: ‘innovazione’, rispetto appunto all’indulto, che in diverse nazioni consente di riceverla sulla mano. Infatti, si ritiene da non pochi, che solo nella tarda antichità e nell’alto medioevo, la chiesa d’oriente e quella d’occidente abbiano preferito amministrarla in tal modo.

Ma, Gesù ha dato la Comunione agli apostoli sulla mano o ha chiesto loro di prenderla con le proprie mani? Visitando una mostra del Tintoretto a Roma, ho osservato alcune ‘Ultime Cene’ in cui Gesù dà la Comunione in bocca agli apostoli: si potrebbe pensare che si tratti di una interpretazione del pittore ex post, un po’ come la postura di Gesù e degli apostoli, a tavola, nel cenacolo di Leonardo, che ‘aggiorna’, alla maniera occidentale, l’uso giudaico dello stare invece reclinati a mensa.

Ora, riflettendo ulteriormente, l’uso di dare la Comunione direttamente in bocca al fedele può essere ritenuto non solo di tradizione giudaica e quindi apostolica, ma anche risalente al Signore Gesù. Gli ebrei e gli orientali in genere avevano e hanno ancor oggi l’usanza di prendere il cibo con le mani e di metterlo direttamente in bocca all’amata o all’amico. Anche in occidente lo si fa tra innamorati e da parte della mamma verso il piccolo, ancora inesperto. Si capisce così il testo di Giovanni: “Gesù allora gli (a Giovanni) rispose: ‘E’ quello a cui darò un pezzetto di pane intinto’. Poi, intinto un pezzetto di pane, lo diede a Giuda di Simone Iscariota. E appena preso il boccone, Satana entrò da lui” (13,26-27). Che dire però dell’invito di Gesù: “Prendete e mangiate”… “Prendete e bevete”? Prendete (in greco: labete; in latino: accipite), significa anche “ricevete”. Se il boccone è intinto, non lo si può prendere con le mani, ma ricevere direttamente in bocca. Vero è che Gesù ha consacrato separatamente pane e vino. Ma, se durante il ‘mistico convito’ – come lo chiama l’oriente, ossia l’ultima cena – i due gesti consacratori avvennero – come sembra – in tempi diversi della cena pasquale, dopo la pentecoste – allorché gli apostoli, aiutati dai sacerdoti giudaici che si erano convertiti (Atti 6,7), quali esperti diremmo così nel culto – li unirono all’interno della grande preghiera eucaristica, la distribuzione del pane e del vino consacrati fu collocata dopo l’anafora, dando origine al rito di Comunione. Tutto ciò rende più comprensibile la sentenza di sant’Agostino: “nessuno mangia quella carne, se prima non ha adorato” (Enarrationes in Psalmos 98,9). Benedetto XVI l’ha richiamata, significativamente, proprio nel noto discorso sull’interpretazione del Vaticano II (cfr anche Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, 67). Ancora più esplicito Cirillo invita a “non stendere le mani, ma in un gesto di adorazione e venerazione (tropo proskyniseos ke sevasmatos) accostati al calice del sangue di Cristo” (cfr Catechesi Mistagogica 5,22). Di modo che, chi riceve la Comunione fa proskinesis, la prostrazione o inchino fino a terra – simile alla nostra genuflessione – protendendo allo stesso tempo le mani come un trono, mentre dalla mano del Signore riceve, in bocca, la Comunione. Così sembra efficacemente raffigurato dal Codice purpureo di Rossano, datato tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C., un evangelario greco miniato, composto sicuramente in ambiente siriaco. Dunque, non deve meravigliare il fatto che la tradizione pittorica orientale e occidentale,dal V al XVI secolo abbia raffigurato Cristo che fa la Comunione agli apostoli direttamente nella bocca. Benedetto XVI, in continuità con la tradizione universale della Chiesa, ha ripreso il gesto: perché non imitarlo? Ne guadagnerà la fede e la devozione di molti verso il sacramento della Presenza, specialmente in un tempo dissacratorio, come quello odierno. Al di là della discussione storico-teologica, circa il modo in cui in antico si riceveva la Comunione, mettersi in ginocchio per ricevere il sacramento non è in contrasto con la processione prevista nel rito ordinario.

L’uso della Comunione sulla mano porta anche a riflettere sui frammenti che spesso cadono, senza essere raccolti in un vassoio sottostante. In molte parrocchie, i corporali, restano aperti da una Messa all’altra, da un giorno all’altro, con i frammenti eucaristici, perché alcuni sacerdoti sostengono che siano “cellule morte” (qualcuno arriva a dire, all’atto della consacrazione, “lui non consacra i frammenti”: non l’avevo mai sentita, ma è un’eresia). Non siamo pronti a dare ad un ammalato che non può deglutire un piccolo frammento di particola? La daremmo se non fosse corpo di Cristo? Forse che una briciola di pane è di sostanza differente dal pane intero? I sacerdoti sanno che la validità della Messa, oltre che dalla materia e dalla forma, dipende dall’intenzione che essi mettono, di fare quello che fa la Chiesa. Il corporale è molto importante, come attesta Orvieto, sia perché si consacrano solo le ostie e il vino che si trovano all’interno del corporale, non sulla tovaglia, sia per raccogliere i frammenti. Non prevalgano l’ignoranza e la presunzione, ma si attinga alla Scrittura e ai Padri, come Ambrogio e Crisostomo! Il Signore è presente (cfr CCC 1377) – come dice san Tommaso – nel sacramento dell’eucaristia, non secondo il modo della quantità, ma secondo il modo della sostanza: in una goccia di sangue, in una goccia di vino, o in un frammento di ostia c’è tutta la presenza del Signore; non c’è bisogno di molto vino perché il Signore sia presente, proprio come in una goccia di sangue c’è tutta la sostanza del sangue. L’ignoranza della dottrina eucaristica cattolica, porta a ritenere che i frammenti siano insignificanti e, di conseguenza, non si purificano i vasi sacri. Eppure, in extremis, quando il sacerdote si accorge che le particole sono insufficienti per la Comunione, usa spezzarle ulteriormente per dare la Comunione, pur con un frammento! Nell’attuale crisi di fede, anche la questione dei frammenti va chiarita e riaffermata, condannando gli abusi, in quanto non c’è differenza tra particole, particelle e frammenti di ostia. Lo scoglio da superare, resta il dissenso sulla natura della liturgia.

«La crisi della liturgia, e quindi della Chiesa, in cui continuiamo a trovarci – afferma Ratzinger – è dovuta solo in minima parte alla differenza tra vecchi e nuovi libri liturgici. Si rende sempre più chiaro che sullo sfondo di tutte le controversie è emerso un profondo dissenso circa l’essenza della celebrazione liturgica, la sua derivazione, il suo rappresentante e la sua forma corretta. Si tratta della questione circa la struttura fondamentale della liturgia in genere; più o meno consciamente si scontrano qui due concezioni diverse. I concetti dominanti della nuova visione della liturgia si possono riassumere nelle parole-chiave “creatività”, “libertà”, “festa”, “comunità”. Da un tale punto di vista, “rito”, ”obbligo”, “interiorità”, “ordinamento della Chiesa universale” appaiono come i concetti negativi, che descrivono la situazione da superare della “vecchia” liturgia».

Klaus Gamber, studioso della liturgia romana e delle liturgie orientali di Ratisbona, «percepiva che abbiamo nuovamente bisogno di un inizio dall’interiorità, come lo intendeva il Movimento liturgico nella sua parte più nobile». Ratzinger ne condivide l’analisi: «La riforma liturgica, nella sua concreta esecuzione, si è sempre più allontanata da questa origine. Il risultato non è rianimazione ma devastazione. […] una liturgia degenerata in spettacolo, in cui si cerca di rendere interessante la religione con trucchi alla moda e con moralismi spigliati, che registrano successi momentanei nel gruppo dei promotori e un allontanamento ben più vasto da parte di tutti coloro che nella liturgia non cercano il loro show master spirituale, bensì l’incontro con il Dio vivente davanti al quale il nostro affaccendarsi diventa irrilevante, e che può dischiudere a tutti la vera ricchezza dell’essere».

fonte http://lavocediferrara.it/default.asp?id=416.

La Madonna Santa e il latino liturgico

 di Don Alfredo Morselli

Maria

 

1. La pazienza del tradizionalista a dura prova

Una delle obiezioni, che mette più a dura prova la pazienza del cosiddetto tradizionalista, è quella che suona nel seguente modo: «Ma io non so il latino e non capisco la Messa; la Messa in latino è incomprensibile e io desidero capire la Messa… voglio partecipare attivamente… etc etc».

E così il tradizionalista si ritrova, suo malgrado, a essere identificato come colui che non vuole capire la S. Messa, e/o come colui che neppure vuol far capire agli altri la S. Messa, e/o come colui che non vuole assolutamente partecipare attivamente alla S.Messa, e tutto questo – o tempora, o mores – dopo il Concilio! ovvero niente meno che nell’età dell’oro della liturgia, dove certe cose non dovrebbero passare neppure per l’anticamera del cervello.
Al che, il tradizionalista, avendo fatto il callo all’enchiridion stupiditatum, ovvero al Denzinger dei nuovi dogmi dell’ideologia paraconciliare – per alcuni gli unici dogmi indiscutibili – scuote la testa e riprende con maggior zelo il suo bonum certamen.
Queste righe non vogliono altro che essere, in ossequio alla natura razionale della fede, la ricerca dell’intellectusid est della credibilità e della ragionevolezza – della plurisecolare prassi della S. Madre Chiesa, assistita dallo Spirito Santo non solo negli ultimi cinquant’anni.
2. Una bella pretesa: capire la Messa

Innanzi tutto, l’espressione voglio capire la Messa è quasi blasfema (se intesa nel senso di capire perfettamente tutto): questa pretesa, spesso enunciata trionfalmente, è  a prova più eclatante della sconfitta di una certa prassi pastorale-liturgica postconciliare. La Messa non si capisce, come non si capisce la SS. Trinità, o l’Unione ipostatica. Per spiegare queste affermazioni, vorrei fare alcune considerazioni su come, verosimilmente, la Vergine Santissima assisteva alle prime S. Messe celebrate dagli Apostoli. Oltre che ad essere modello della nostra partecipazione liturgica, non si potrà dire che non partecipava attivamente!

3. La Madonna e le prime Messe celebrate dagli Apostoli

Il santo evangelista Luca ci narra due episodi della vita di Gesù, in cui si dice che la Madonna custodiva nel suo Cuore i fatti accaduti: si tratta della vista dei pastori a Gesù bambino (Lc 2,19: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”) e del ritrovamento di Gesù tra i dottori del tempio (Lc 2,52: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”). Possiamo ragionevolmente ritenere che Maria custodisse nel suo Cuore Immacolato non solo questi misteri della santa infanzia, ma tutti i misteri della vita del Figlio.
Ora pensiamo a quando la Vergine assisteva alle prime S.Messe celebrate dagli Apostoli. La S. Messa è innanzi tutto – simpliciter – la rinnovazione del Santo Sacrificio del Calvario, ma – secundum quid – contiene tutti i misteri della vita di Cristo: da un lato, come afferma Dionigi Certosino, “tutta la vita di Gesù Cristo è stata una celebrazione della santa Messa, nella quale Egli stesso era l’altare, il tempio, il sacerdote e la vittima”; dall’altro, come afferma il Sanchez, chi assiste a una Messa è “come se avesse vissuto ai tempi del Salvatore e avesse assistito a tutti i suoi misteri” (cit. in Martino de Cochem O.M.C., La Santa Messa, Milano 1932, p. 62). E San Bonaventura afferma che nella S. Messa ci sono tanti misteri “quante gocce d’acqua sono nel mare, quanti atomi di polvere nell’aria e quanti angeli nel cielo” (cit. in Ibidem, p. 36).
In conseguenza di ciò, quando la Vergine assisteva alla Messa, rivedeva e ripensava a tutti i misteri della vita del Figlio, misteri custoditi nel suo Cuore Immacolato.
 
4. Come la Madonna custodiva nel Cuore i misteri della vita del Figlio, e quindi della Messa.
La Madonna custodiva i Misteri della vita del Figlio alla luce della fede; noi sappiamo che la fede della Madonna è sempre stata integra e mai adulterata da alcun dubbio (cf. Lumen Gentium, 63); ma quella visione di fede non era ancora era quella comprensione perfetta che ora Ella in ha in cielo: la sua fede era certissima, ma non evidente.
Come dice San Tommaso, “la fede comporta una cognizione imperfetta (…) Trascende l’opinione, in quanto comporta una ferma adesione; rispetto alla scienza, manca del fatto che non ha l’evidenza [S. Th. Iª-IIae q. 67 a. 3 co.]”; ancora l’Aquinate: “L’atto del credere ha un’adesione ferma a una data cosa, e in questo chi crede è nelle condizioni di chi conosce per scienza, o per intuizione: tuttavia la sua conoscenza non è compiuta mediante una percezione evidente; e da questo lato chi crede è nelle condizioni di chi dubita, di chi sospetta e di chi sceglie una opinione. E sotto questo aspetto è proprio del credente cogitare approvando: ed è così che l’atto del credere si distingue da tutti gli atti intellettivi che hanno per oggetto il vero e il falso” [S. Th. IIª-IIae q. 2 a. 1 co]
La perfetta fede di Maria non implicava quindi che Ella avesse chiari tutti i misteri della fede e che non facesse alcuna fatica a credere: i misteri della fede sopravanzavano anche le capacità dell’intelletto della Madonna e quindi anche Maria pativa l’inevidenza dei misteri stessi. Anche Lei cogitava approvando.
Ora pensiamo a quando la Vergine assisteva gli Apostoli, che, tremebondi e commossi, adempivano per le prime volte al mandato fate questo in memoria di me: Ella ripercorreva tutti i misteri della vita del Figlio, non li comprendeva ancora come in Cielo, non ne aveva l’evidenza ma li serbava tutti nel suo Cuore (avendone ferma approvazione).
 
5. La parola-fatto
S. Luca, quando vuole indicare ciò che Maria Santissima custodiva nel Cuore, usa il termine greco rêma, che non significa semplicemente parola, ma corrisponde all’ebraico dabar, che significa parola-fatto. Il cristianesimo non è una teoria, è una persona, è il regno di Dio fattosi vicino nella persona di Gesù Cristo; ma non è neanche una esperienza irrazionale, bensì comprende necessariamente l’adesione a una dottrina e la formulazione di giudizi.
La parola ebraica dabar, nel suo significato di parola-fatto, è dunque particolarmente adatta ad indicare i misteri della vita di Nostro Signore, che non sono né fatti senza pensiero, né pensieri senza fatti.
Chiude dunque la porta al mistero chi ipertrofizza l’importanza della comprensione razionale esplicita rispetto al fatto, chi confonde la catechesi liturgica con la celebrazione (pensiamo alle continue mozioni spesso abusive, durante la Messa, per spiegare il mistero che, proprio perché troppo esplicitato, rimane sostanzialmente incompreso). La liturgia totalmente in volgare per capire non è altro che un goffo tentativo di rendere more geometrico demonstrato  ciò che non è dimostrabile, ma ciò di cui si può solo cogitare assentendo, alla scuola della Vergine Maria. In altre parole, una banalizzazione, da cui ci ha messi in guardia Benedetto XVI, in uno dei suoi ultimi interventi:
“Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
(…)
“Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa” (Incontro con i Parroci e il Clero di Roma,  14 febbraio 2013).
6. La lingua sacra.

Quando diciamo sacro e profano, non diciamo buono e cattivo, ma parliamo di due cose in sé ottime, ma di due ordini diversi.
Sentiamo ancora San Tommaso:
“…dalle differenze di tali beni scaturiscono le differenze dell’amore di Dio verso la creatura. C’è infatti un amore universale, con il quale “egli ama tutte le cose esistenti”, come dice la Scrittura; e in forza di esso viene elargita l’esistenza naturale a tutte le cose create. C’è poi un amore speciale, di cui Dio si serve per innalzare la creatura ragionevole, sopra la condizione della natura, alla partecipazione del bene divino. E in questo ultimo caso si dice che Dio ama una persona in senso assoluto: poiché con questo amore Dio vuole senz’altro alla creatura quel bene eterno, che è lui medesimo” (S. Th. Iª-IIae q. 110 a. 1 co.)

Quando la Sacrosanctum Concilum descrive l’azione liturgica come sacra per eccellenza (§ 7), vuole indicare che la liturgia è il luogo dove per eccellenza e al massimo grado si sperimenta quell’amore speciale per cui Dio vuole alla creatura ragionevole quel bene eterno che è lui medesimo.

Quando Dio ci sostiene mentre mangiamo, lavoriamo, agiamo, senz’altro Dio ci ama: ma quando Dio ci dona se stesso, ci ama al massimo grado.
Purtroppo la banalizzazione delle istanze della nouvelle théologie ha prodotto un disastro. De Lubac, ritenendo inutile il concetto di natura pura, ha fornito una base per ogni desacralizzazione futura (di certo non voluta o pensata dallo stesso De Lubac); infatti, se non si salva la natura, realmente e concretamente, non ha più senso parlare di soprannaturale, come non ha senso parlare di un secondo piano se non c’è il primo. Tutto è soprannaturale coincide con tutto è naturale, con esiti, a cui certo De Lubac non pensava e non voleva, logicamente panteistici.
Diceva il grande Garrigou-Lagrange, nel tentativo – storicamente vano, ma dottrinalmente perennemente efficacissimo – di fermare gli equivoci della Nouvelle Théologie: Si non est natura proprie dicta, nec est supernaturale proprie dictum («De evolutionismo et de distinctione inter ordine naturale et ordine supernaturale», in AA.VV., El evolucionismo en filosofia y en teologia, Barcelona: Juan Flors, 1955, p. 277).
Perché dunque lingua sacra, canto sacro, paramenti sacra, sacra suppellettile, balaustra o iconostasi delimitante spazio sacro… non  per tener fuori i laici o per non far loro capire la Messa, ma perché, se la liturgia è la massima espressione dell’amore speciale con cui Dio dona direttamente se stesso, a misteri, frutto di un amore speciale, deve corrispondere, per la verità della cose, una lingua speciale, delle vesti speciali, uno spazio speciale, un canto speciale, dei gesti speciali…
7. In conclusione…
Partecipare a una conversazione oppure entrare nel mistero? Se partecipiamo ad una conversazione, l’unica cosa importante è capire la lingua dell’interlocutore. Ma mentre il trinariciuto vaticansecondista orripilisce davanti al minimo Dominus vobiscum, il buon cattolico non è così manicheo. Ben venga una parte più ampia (SC § 36) al vernacolo; ma, se la Messa non è una conversazione, se ciò a cui partecipiamo è un mistero; se, chiedendo in prestito alla Vergine Santissima qualche pensiero del Suo cuore, proviamo a contemplare i misteri della vita di Gesù Cristo… allora una lingua che ci ricorda che ciò che ci avvolge è un amore speciale e che ciò che cogitiamo assentendo è un dabar, una parola-fatto oggettivamente incomprensibile, ovvero comprensibile quando saremo beati – comprensori appunto – la lingua sacra è indispensabile e necessaria; con il Vaticano II diciamo che il suo uso  sia conservato (SC § 36).

E se il vaticansecondista trinariciuto mi dice:  finalmente capisco la Messa, gli rispondo: “Capiresti qualcosa della Messa se tu mi dicessi: – Ho capito che la Messa è incomprensibile – ”.

da messainlatino.it

 

San Giovanni XXIII: un Papa con la Tiara

Giovanni XXIII 3

di Federico Catani  

A poco più di cinquant’anni dalla morte, Papa Giovanni XXIII (1958-1963) è diventato santo. 

Di Angelo Giuseppe Roncalli si è arrivati a costruire un’immagine mitica, quasi abbia rappresentato l’inizio di una nuova Chiesa, più vera e più evangelica.
La figura di Papa Giovanni è diventata, grazie a storici “cattolici” ultra-progressisti come Alberto Melloni, il simbolo di un papato rivoluzionario, opposto a secoli e secoli di Tradizione.
Senza entrare nel merito della canonizzazione, che ormai è cosa fatta, in questa sede vogliamo svelare alcuni lati sottaciuti di Roncalli.
In tal modo, si avrà un ritratto più completo del nuovo santo.
Senza dubbio Giovanni XXIII ha inaugurato un nuovo modo di vivere e percepire il papato. Non si possono negare le sue aperture e il suo riformismo, sia nello stile, sia nel linguaggio, sia nell’atteggiamento da tenere nei confronti delle grandi questioni ecclesiali.
E, fermo restando il rispetto e la venerazione per un Papa santo, ci permettiamo di far notare che molte ingenuità  e molti romanticismi (se così li vogliamo considerare) di Roncalli non hanno per nulla giovato alla Chiesa.
L’ottimismo verso il futuro, il clima di dialogo inaugurato, l’apertura del Concilio Vaticano II, la predilezione per la “medicina della misericordia”non hanno prodotto gli effetti sperati.
Eppure non sembra fossero queste le intenzioni di Giovanni XXIII. Papa Roncalli, infatti, eccettuate aperture opinabili, si potrebbe classificare come un Pontefice che ha scelto la via della sana riforma.
La Chiesa infatti non è un fossile e non può fermarsi per ogni aspetto a un dato momento storico, altrimenti dovremmo stare ancora nelle catacombe.
Giovanni XXIII ha approvato documenti e compiuto gesti che Melloni e soci tentano in ogni modo di nascondere e che la gente comune ignora bellamente.
Innanzitutto “il Papa Buono” nutrì sempre stima e venerazione per il suo immediato predecessore Pio XII, il Papa più citato nei documenti del Vaticano II.  
Una vera e propria devozione, poi, Giovanni XXIII l’aveva per Pio IX, l’ultimo Papa Re, il simbolo della lotta al liberalismo e della difesa del potere temporale della Chiesa, di cui sperava di celebrare la solenne beatificazione a conclusione del Concilio Vaticano II, che peraltro nei suoi piani sarebbe dovuto durare qualche mese. Nell’allocuzioneGaudet Mater Ecclesia, tenuta l’11 ottobre 1962 ad apertura dei lavori conciliari, oltre a punti discutibili come l’attacco ai cosiddetti “profeti di sventura” e l’esortazione a usare la “medicina della misericordia” (data la situazione odierna, si può tranquillamente affermare che il Pontefice prese una cantonata colossale), Giovanni XXIII disse che “il ventunesimo Concilio Ecumenico (…) vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica. (…) 
Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli”.
E poi, ancora: “Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. 
Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione”.  
Si può e si deve discutere sulla validità e sull’efficacia della nuova stretegia pastorale adottata dalla Chiesa (i risultati sono magrissimi e spesso orribili), ma di certo Papa Giovanni non intendeva cambiare la dottrina cattolica.
Bisogna poi aggiungere che, vista la piega che stava prendendo l’assise conciliare, sul letto di morte Giovanni XXIII invitò a chiudere presto il Concilio, confidando nel card. Giuseppe Siri.
Lo hanno attestato l’arcivescovo di Londra Heenan e varie altre sicure testimonianze private, non viziate dall’ideologia “vaticanosecondista”.
Al contempo, nonostante un nuovo discutibile approccio, Giovanni XXIII non mutò la posizione della Chiesa nei confronti del comunismo.
Già da cardinale, Roncalli aveva annotato nel suo diario (28 ottobre 1947): “Fra Carlo Marx e Gesù Cristo l’accordo è impossibile”.
Inoltre, il 4 aprile 1959, il Sant’Uffizio, con approvazione del Papa, ebbe a precisare che non era lecito “ai cittadini cattolici dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio comportamento li aiutano”.
A questa posizione, stemperata purtroppo da fattive e mediatiche aperture a sinistra, che destano serie perplessità, si deve aggiungere che Roncalli già da vescovo, lodò il Concordato del 1929 ed ebbe parole di elogio, seppur equilibrato, per il Duce, ribadendo che, nonostante tutto, “il gran bene da lui fatto all’Italia resta”.
Nel 1954, in pieno clima antifascista, ribadì la gratitudine verso Mussolini per aver portato a conclusione i Patti Lateranensi ed esortò ad affidare la sua anima “al mistero della misericordia del Signore, che nella realizzazione dei suoi disegni suole scegliere i vasi più acconci all’uopo, e a opera compiuta li spezza, come se non fossero stati preparati che per questo. (…) 
Rispettiamo anche i pezzi del vaso infranto e rendiamo utili per noi gli insegnamenti che di là ci provengono”.
Il 25 aprile 1955, poi, alla faccia di chi ancora oggi cavalca il mito della Resistenza, Roncalli, allora Patriarca di Venezia, invitò a pregare per tutte le vittime della guerra, “a propiziazione di tutte queste anime che si sono sacrificate da una parte e dall’altra della barricata”.
Oltre a ciò, il nuovo santo era un estimatore di Giovannino Guareschi, giornalista non certo progressista e il cui anti-comunismo era radicale: ebbene, non soltanto leggeva le sue opere, ma le regalava pure e addirittura gli propose di redigere un Catechismo.
Offerta che il padre di don Camillo respinse, non sentendosi all’altezza.
Infine, bisogna ricordare la posizione di Giovanni XXIII sullo Stato di Israele.

Nel 1943, rivolgendosi alla Segreteria di Stato, così scriveva: “Confesso che questo convogliare, proprio la Santa Sede, gli ebrei verso la Palestina, quasi alla ricostruzione del regno ebraico, incominciando dal farli uscire d’Italia, mi suscita qualche incertezza nello spirito. 
Che ciò facciano i loro connazionali ed i loro amici politici lo si comprende. 
Ma non mi pare di buon gusto che proprio l’esercizio semplice ed elevato della carità della Santa Sede possa offrire l’occasione o la parvenza a che si riconosca in esso una tal quale cooperazione, almeno iniziale e indiretta, alla realizzazione del sogno messianico. 
Tutto questo però non è forse che uno scrupolo mio personale che basta aver confessato perché sia disperso. 
Tanto e tanto è ben certo che la ricostruzione del regno di Giuda e di Israele non è che un’utopia”.
Queste le parole del santo Pontefice.

Venendo agli aspetti spirituali e di Magistero di s. Giovanni XXIII, egli firmò un’Enciclica che non viene mai menzionata (guarda caso!), la Grata Recordatio (26 settembre 1959), tutta dedicata al Santo Rosario, preghiera che il Papa amava molto e raccomandava, confidando che recitava le tre corone quotidianamente. Un vero e proprio colpo mortale per chi pensa che la preghiera del Rosario sia superata o adatta solo a vecchiette bigotte. Non bisogna poi dimenticare la Lettera apostolica Inde a primis (30 giugno 1960), con la quale Giovanni XXIII promuoveva e rilanciava il culto al Preziosissimo Sangue di Gesù (culto che nel giro di dieci anni praticamente scomparì, venendo meno anche la festa liturgica). C’è poi uno dei testi meno noti di Papa Roncalli, un documento scomodo, approvato pochi mesi prima dell’apertura del Concilio, il 22 febbraio 1962: la Costituzione apostolica Veterum SapientiaSi tratta del documento che riafferma con forza l’uso del latino come lingua immutabile della Chiesa, lingua da studiare nei seminari, da impiegare nei documenti e negli atti ecclesiastici e, soprattutto, nella liturgia. Anche in questo caso, in meno di dieci anni tutto fu stravolto e l’apertura alla lingua volgare nella Messa si trasformò, di fatto, in completa abolizione del latino. Ma tale non era la volontà di Papa Giovanni.
A tal proposito, circa lo stravolgimento che ha subìto la liturgia dopo il Concilio, occorre notare che è proprio di Giovanni XXIII l’ultima edizione del Messale Romano “tridentino” (1962), che ancora oggi, grazie al Motu proprio Summorum Pontificum, i fedeli e i sacerdoti legati alla Messa antica possono usare. Se Roncalli avesse avuto in mente di rivoluzionare la celebrazione della Messa, non avrebbe pubblicato quel Messale, in cui peraltro fece aggiungere il nome di San Giuseppe nel Canone (anche questa scelta fu senza dubbio di orientamento tradizionale).Con Giovanni XXIII, pertanto, non vi furono strappi liturgici e quel che fu modificato (già a partire dalla riforma della Settimana Santa di Pio XII) rientrava nell’ottica di una giusta riforma nella continuità: maggior spazio (peraltro già prima del Concilio) al vernacolo, incentivazione della Messa dialogata, soppressione di ottave  ridondanti, e così via. Si dovrebbe domandare a certi tradizionalisti che storcono il naso anche di fronte al Messale del 1962 a cosa vorrebbero ritornare. Al Messale di Pio IX? A quello di Innocenzo III? A quello di Gregorio Magno? Oppure direttamente a san Pietro? Un conto è avere riserve sul Novus Ordo, che effettivamente, pur valido, è stato uno stravolgimento della liturgia cattolica e che andrebbe corretto quanto prima, altro è non accontentarsi mai e sognare l’immobilismo liturgico, che nella storia della Chiesa non c’è mai stato. Ecco perché non sarebbe un sacrilegio proporre di tornare al Messale “provvisorio” del 1965, frutto del Concilio, accettato, fin quando non cadde nel dimenticatoio, persino da mons. Marcel Lefebvre. Altra nota da considerare è che sì, Papa Giovanni tolse l’aggettivo perfidisriferito ai Giudei nella preghiera del Venerdì Santo, ma continuò a pregare per la loro conversione a Cristo senza ambiguità e senza che nessuno né oggi né allora protestasse, sia tra gli ebrei sia tra i cattolici. Tra l’altro, in difesa di Papa Roncalli e per ribadire che la riforma del 1970 è andata oltre quanto egli stesso pensava, va detto che quando era nunzio apostolico a Parigi, guardando gli altari di alcune chiese francesi girati per permettere al sacerdote di celebrare rivolto ai fedeli, disse che si trattava di “innovazioni liturgiche che poco mi piacciono”, ideate da “teste ardenti e un po’ bislacche”. Nella IV Domenica di Quaresima del 1963, a Ostia, ebbe ad esclamare: “sono molto contento di essere arrivato fin qua ma se mi debbo esprimere con un desiderio, vorrei che in chiesa non ridiate, non battiate le mani e non salutiate neanche il Papa”. E ancora, in tempi, come i nostri, in cui si esalta la povertà e la semplicità (in realtà trattasi di misero pauperismo) specie nel culto (che è dovuto a Dio e dunque dovrebbe prevedere la massima cura), nessuno sembra voler rammentare che Giovanni XXIII ha sempre usato la sedia gestatoria, i flabelli, il baldacchino, mitrie e paramenti preziosi, ricche croci pettorali, le pantofole rosse papali, la mozzetta bordata di ermellino, la tiara e persino il camauro! Se fosse stato così avanguardista come sostengono Melloni e compagnia cantante, avrebbe gettato tutto via (come purtroppo avvenne in seguito). E invece no. Anzi, non abolì nemmeno la Guardia nobile!
Anche la visione giovannea del sacerdozio era pienamente tradizionale. Nel Sinodo romano che si tenne nel 1960 furono stabilite rigide norme per il clero. I preti erano obbligati a portare sempre non solo la talare, ma anche il soprabito o almeno il ferraiolo e il cappello, non dovevano mai comparire in pubblico alla guida di un’automobile con a bordo una donna, fosse pure una parente, né andare al teatro, al cinema o allo stadio. Norme, come ognuno può vedere, assai rigide, ma assai significative se si pensa all’immensa dignità del sacerdozio e alla sua sacralità. Non è un caso che modello di Giovanni XXIII fu sempre il santo Curato d’Ars. D’altronde, che Roncalli concepisse il sacerdozio in maniera cattolica (e non simil-protestante come avviene oggi) lo si evince anche da come affrontò alcune questioni spinose. Sui preti operai fu, è vero, troppo cauto, nonostante avesse approvato il 3 luglio 1959 un decreto del Sant’Uffizio in cui tale esperienza veniva considerata incompatibile con la visione tradizionale del sacerdozio, ordinandone una graduale conclusione. In effetti, Papa Roncalli non condivise mai del tutto simili iniziative. Da nunzio a Parigi, scrisse sulla sua agenda, il 24 marzo 1952, che questi fenomeni erano “segno evidente di un difetto di sollecitudine nei Seminari: manca l’applicazione agli antichi princìpi di disciplina ecclesiastica”.
Giovanni XXIII si occupò anche di don Lorenzo Milani, idolo ancora oggi di tutti i progressisti. Ebbene, nel 1958 il libro del sacerdote fiorentinoEsperienze pastorali venne censurato dal Sant’Uffizio. Del resto, Roncalli, da cardinale ebbe a scrivere, circa don Milani e il suo testo: “L’autore del libro deve essere un povero pazzerello scappato dal manicomio. Guai se si incontra con qualche confratello della sua specie! (…) Ab insidiis diaboli libera nos, Domine!”. Ci fu poi il casoTeilhard de Chardin. La condanna delle sue opere risale al 1962, sette anni dopo la sua morte. I motivi del monito del Sant’Uffizio andavano trovati nell’evoluzionismo filosofico e teologico di Teilhard de Chardin. Un altro duro colpo, quindi, al pensiero progressista e modernista.

Insomma, senza negare alcuni punti deboli, Giovanni XXIII è stato tutt’altro che il Papa rivoluzionario e progressista descritto dall’informazione mainstream. San Giovanni XXIII è stato sì il Papa del Concilio, ma con la tiara e la Messa tridentina.

da campariedemaistre.com

“La Tradizione della Chiesa non è una vecchia reliquia dimenticata e chiusa in una polverosa sagrestia”

di Federico Baldelli Purrone

Intervento del Promotore regionale per il Lazio del Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum al recente convegno “La bellezza salverà il mondo. La bellezza della Liturgia: fondamento per l’evangelizzazione e l’umanesimo cristiano”, tenutosi a Roma alla presenza di mons. Fisichella

Gricigliano 10

Ecc.za Rev.ma, Rev.di Sacerdoti, Pregiatissimi Signore e Signori,

se un giovane neanche ventenne – quale è colui che vi sta parlando – è qui a prendere la parola dopo gli interventi di Sua Ecc.za e di professionali ed appassionate persone, è per far sentire la sua testimonianza in merito al valore del pontificato di Benedetto XVI.

È difatti durante tale pontificato, e per merito di tale Pontefice, che ho avuto la possibilità di scoprire le mie fede e religione in modo integrale.

Questa scoperta è avvenuta in modo particolare con la plurisecolare – invero bimillenaria – liturgia della Chiesa, che proprio Benedetto XVI ha voluto donare nuovamente, senza restrizioni, a fedeli e sacerdoti.

Grazie alla forma straordinaria – lo è in tutti i sensi! – del Rito Romano ho potuto esperire, toccandola con mano, una ricchezza tanto completa da tangere sia gli aspetti spirituali che quelli materiali della religione Cattolica.

Con questa liturgia il Corpo Mistico di Cristo celebra il culto sacro con una forma, oggettivamente definibile come bella, funzionale ad una sostanza davvero divina: è la via pulchritudinis della Chiesa, la bellezza della fede che salva il mondo.

La mia fede eucaristica, così come la conoscenza delle Sacre Scritture, della Tradizione, e dunque anche della dottrina e delle preghiere di tutti i Santi, è scaturita non dalla frequenza al catechismo o alla Messa parrocchiale – come sarebbe dovuto essere – ma dalla tanto disprezzata quanto amata Messa detta “gregoriana”, o anche “tridentina”.

Ho ritenuto doveroso prendere parte, insieme a coloro i quali la promuovono, alla sua diffusione, e sono così stato chiamato ad essere promotore regionale per il Lazio del Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum, un gruppo attivo in Italia ed impegnato nell’organizzazione di conferenze e pellegrinaggi, oltre che, come poco fa detto, nella promozione di questo rito, mettendo in relazione tra loro i vari gruppi stabili delle Messe, con lo scopo di creare una rete stabile e riconoscibile fra quanti amano e coltivano la liturgia tradizionale, in collaborazione con Una Voce e il Coordinamento Toscano Benedetto XVI.

Il coraggio – ne è servito, ve lo garantisco – di affrontare le difficoltà è venuto prima di tutto dal Santo Padre Benedetto XVI che, con la promulgazione del Motu Proprio, non ha voluto solamente rendere accessibile tale forma liturgica a tutta la Chiesa, ma ha anche avuto intenzione di accrescere con essa la fede personale e quella pubblica dei fedeli.

Alcuni sacerdoti – purtroppo, c’è da dirlo, non quanti avrebbe auspicato Papa Benedetto – hanno arricchito di dignità e colmato più profondamente anche la forma ordinaria del Rito Romano grazie a quella straordinaria, recuperando compostezza, riverenza, adorazione: attitudini – care a sua Eccellenza, con piacere di Dio e di noi fedeli! – divelte con brutale quanto cieca celerità “dopo il Concilio Vaticano II, ma non a causa del Concilio” come ebbe a dire Sua Em.za il Cardinal Raymond Leo Burke.

Nonostante tutti gli ottusi pregiudizi nei confronti sia del Papa del Motu Proprio che della Messa, la categoria più coinvolta dalla controrivoluzione liturgica nel solco della Tradizione e più attiva nella sua attuazione è proprio quella dei giovani, che io qui mi permetto indegnamente di rappresentare: di questo è prova l’esistenza di Juventutem, un’associazione di giovani legati al rito antico, sempre presenti alle Giornate Mondiali della Gioventù, così come ne è prova la presenza, impossibile da non notare, di molti giovani agli annuali pellegrinaggi tradizionali a Chartres, in Francia (100 km in 3 giorni), a Lujan, in Argentina (100 km in 3 giorni) e a Czestochowa, in Polonia (265 km in 9 giorni)

Ribadendo il pensiero del Papa a me più caro posso ben dire che la Tradizione della Chiesa non è una vecchia reliquia dimenticata e chiusa in una polverosa sagrestia, ma è viva! È viva in tutti coloro che hanno ricambiato l’abbraccio di Benedetto XVI, ricevendo da lui questo grande dono, è viva in tutti coloro che manifestano pubblicamente la loro fede in piena e gioiosa comunione con la Santa Sede partecipando all’annuale Pellegrinaggio presso San Pietro del cosiddetto “Popolus Summorum Pontificum”.

Finché esisterà la Chiesa militante su questa terra non passerà giorno senza che una Messa non venga degnamente celebrata per rendere il dovuto culto a Dio nella bellezza che sempre è stata propria della liturgia Cattolica.

Di questo ringrazio con profonda stima e filiale affetto Benedetto XVI, che non esito ad appellare meritatamente come “Benedictus Magnus”!

La nuova Messa del pane burro e marmellata e la vecchia Messa da morto

“Quando la Chiesa cattolica ha ripudiato il latino, una voce altissima della Chiesa Cattolica ha detto che finalmente quelli che pregavano avrebbero capito quello che pregavano. Quella voce era la voce delle grandi parole; così poteva sembrare che tutti i secoli di preghiere fatte dagli uomini erano andate in fumo, perché essi non sapevano quello che dicevano.

Ma il giorno che un uomo pregante capirà quello che sta dicendo, potrà smettere di pregare..”

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di Vittorio Giovanni Rossi

La nuova Messa funebre ha perduto quel suo severo vigore che costringeva a riflettere anche chi non è credente (2)

Non si sa più come morire; la Messa da morto come è adesso fa piangere più di prima; ma non fa piangere per il morto: fa piangere per la Messa.

Dico Messa da morto; dovrei dire Messa esequiale: ma io non sono un intellettuale come quelli che hanno fatto la Messa nuova da morto; e allora dire Messa da morto mi fa vedere la cosa; e dire Messa esequiale non me la fa vedere, ci devo pensare su un momento.

Non mi piace parlare di cose della morte; ma la Messa da morto riguarda più i vivi che i morti; quello che riguarda i morti, non lo possiamo sapere. La morte è una cosa tremendamente seria, la più seria di tutte le cose che possono capitare all’uomo; perché l’uomo che ha fatto quel passaggio, potrà diventare angelo o diavolo o niente; ma ha finito di essere uomo, e questa è una perdita, su cui non si piangerà mai abbastanza.

La vecchia Messa da morto faceva sentire quel dramma tremendo; la Messa da morto che c’è adesso, è come andare a cogliere margheritine nel prato e il parasole in mano.

Le hanno cambiato anche il colore; prima era nera, adesso è viola; il nero poteva disturbare l’uomo di adesso, fargli venire i complessi, come si usa adesso; come per le sculacciate ai bambini, una volta si davano come confetti; adesso dicono che l’onda della sculacciata può arrivare al cervello, e uno che stava per diventare un altro Leonardo da Vinci, diventa un cretino da ospizio.

Il viola è come il vino allungato con l’acqua, non è né vino né acqua; non è né caldo né freddo, né vivo né morto; è un piccolo trucco per fare passare la morte come un aperitivo.

Quell’invocazione che si ripeteva lungo tutta la vecchia Messa, requiem aeternam dona eis, Domine, era grandiosa; era una invocazione a Dio nella grandiosa maestà della lingua sacra, non quella volgare di adesso, la stessa che serve per comprare i ravanelli in piazza del mercato; era l’invocazione a Dio di placare la tempesta, e riempiva e scrollava la volta della chiesa e dava un brivido a quelli che provvisoriamente restavano sulla sponda di qua.

Adesso quell'”eterno riposo” della Messa nuova è adatto a uno che va in pensione, e si spera che gliela paghino.

La Messa di adesso è fatta quasi tutta di salmi; e la poesia dei salmi è una grande poesia, grandi blocchi monumentali di poesia; ma trasferita nella lingua per comprare i ravanelli, e tradotta da gente brava a fare le liste della biancheria da mandare in lavanderia, la poesia dei salmi e delle altre letture sacre è diventata la poesia delle liste della biancheria.

“Il giusto, anche nel caso di morte prematura – troverà riposo. – Vecchiaia veneranda non è la longevità – né si calcola dal numero degli anni. – La canizie per gli uomini sta nella sapienza”. Era un pezzo del Libro della Sapienza: era poesia, e poesia augusta; è diventato un pezzo di una polizza di assicurazione sulla vita.

E anche in chiesa, anche alla presenza di un morto, non si sa se ridere o piangere.

Per mille anni e più la Chiesa cattolica ha insegnato a pensare a una parte importante del genere umano; ha avuto con sé la grande arte, la grande poesia, la grande musica; ossia mille anni di civiltà occidentale sono stati mille anni cattolici; e ora si è ridotta a fare i rifornimenti nei magazzini del linguaggio dei politici e dei sindacalisti, gente notoriamente piena di sapienza e belle lettere.

E non dice più “la santa Messa”; dice la “Messa comunitaria”; e la messa non sa più di anima, cosa strettamente individuale; sa di mensa aziendale.

Non dice più “i fedeli” o “i credenti”, come dice così bene l’islam; dice la “comunità di base”; e sa di comizio e tessera in tasca; ma se Dio ha fatto lui i cieli e la terra con sopra questa bella razza degli uomini, non deve dare molta importanza alle tessere in tasca. E allora la Chiesa cattolica ha potuto togliere tranquillamente dalla Messa le preghiere alla Madonna piene di dolce poesia; togliere il così detto ultimo Vangelo, cioè il principio del Vangelo di Giovanni, quello “In principio era il Verbo. E il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”; e niente di più spirituale è mai stato detto da bocca d’uomo.

E nello spazio rimasto libero hanno collocato cose spirituali e poetiche come “questo pane, frutto della terra e del nostro lavoro… questo vino, frutto della vite e del nostro lavoro”; ed è roba che sa di cooperativa agricola.

Quando la Chiesa cattolica ha ripudiato il latino, una voce altissima della Chiesa Cattolica ha detto che finalmente quelli che pregavano avrebbero capito quello che pregavano. Quella voce era la voce delle grandi parole; così poteva sembrare che tutti i secoli di preghiere fatte dagli uomini erano andate in fumo, perché essi non sapevano quello che dicevano.

Ma il giorno che un uomo pregante capirà quello che sta dicendo, potrà smettere di pregare; la preghiera è un discorso con le cose invisibili e inconoscibili, cioè col mistero; e se il pregante riesce a sapere che cosa c’è dentro il guscio del mistero, può smettere di pregare e mandargli una cartolina postale; basta che non la mandi con le poste della nota repubblica fondata sul lavoro.

La religione è di là da tutte le spiegazioni; è fuori di tutte le prove sperimentali; i ragionamenti sulle cose che non si possono osservare, sperimentare, misurare, sono spiegazioni che non spiegano niente. Fin che restano idee, le idee non sono né vere né false, né buone né cattive: sono idee, cioè discorsi ben fatti o mal fatti, e si chiamano le dialettiche.

E le dialettiche sono le equazioni differenziali degli imbecilli di oro fino.

Se invece di dire Agnus Dei qui tollis peccata mundi, uno dice “Agnello di Dio, che ti assumi i peccati del mondo”, ne sa quanto prima; cioè in qualunque linguaggio lo dica, dice una cosa che è tenuta in piedi non dalle prove, come il così detto principio di Newton, ma dal crederci o non crederci.

Montagne di parole sono state dette e scritte per spiegare che cosa vuol dire o per dire che non vuol dire niente; ma l’uomo che lo dice o lo sente dire, può sentire dentro di sé una grande luce che si apre e splende come un sole; oppure non accendersi niente; dipende da lui, non dalle parole dette o sentite.

Hanno tolto cose poetiche della Messa; e solo la poesia, non le spiegazioni, può fare vedere le cose che non si vedono; e lo spazio tolto alla poesia lo hanno dato alla predica. Facevano la Messa nuova; e si sono lasciati scappare l’occasione gaudiosa di chiudere la bocca ai predicatori.

La Chiesa cattolica non saprà mai quanta gente ha perduto per via dei predicatori.

Il gesuita portoghese padre Vieira era un grande predicatore: 300 anni fa ha fatto la predica ai predicatori; gli ha detto che piuttosto che parlare a quel modo, era meglio tacere che parlare.

San Francesco parlava agli uccelli, e gli uccelli lo ascoltavano perché gli pareva uno che parlava come loro, uno di loro; adesso quando il predicatore predica, mi viene la voglia di essere un grande peccatore, per fare dispetto a quel predicatore.

Quelli che hanno fatto la Messa nuova, hanno capito che non bastava sfrattare il latino, per dare più spiritualità alla Messa; e hanno inventato le strette di mano. É la cosa più comica che sia mai stata fatta in una chiesa cattolica.

Ci sono vecchie pettegole che si voltano indietro alla ricerca di altre mani da stringere; non gli bastano quelle laterali. Ma io guardo in su; non vedo mani da stringere; il teatro in chiesa non mi è mai piaciuto.

Hanno sfrattato il canto gregoriano, e non c’è canto più religioso, religiosamente più puro di quello; hanno sfrattato la grande musica. Forse hanno ascoltato quelli che dicevano che la Chiesa cattolica è un prodotto dell’Occidente; ma anche la scienza e la tecnica sono un prodotto dell’Occidente; eppure gialli e neri adoperano con disinvolto fervore le cose meccaniche, le medicine, i modi di vestire e comportarsi dell’Occidente.

Qualcuno che non era uno stupido, ha detto che hanno fatto più miracoli i santi scolpiti e dipinti, che non i santi vivi; ed è vero; però si è dimenticato della musica, della grande musica.

La grande musica ha portato a Dio più gente, che non tanti secoli di teologia; quel vento misterioso che entra nell’uomo, e lo invade, e lo muove come il vento muove il mare; e l’uomo piange o ride beato, si sente felice o triste, e non sa perché; e quella è la musica, la grande musica; e l’uomo poteva vedere la faccia di Dio, che nessuna descrizione della faccia di Dio è mai riuscita a fargli vedere.

E la Chiesa cattolica, una volta considerata intelligente anche troppo, ha buttato la sua grande musica fuori bordo; ai pesci.

Leonardo diceva che quando suonano le campane, nel suono delle campane l’uomo può mettere tutto quello che vuole; le sue gioie, i suoi dolori, le sue speranze.

Ora nella nuova Messa cantata, quella per i vivi e quella per i morti, i canti nuovi offrono gioielli come questo: “Mi risplenda la luce del ver – e mi guidi sul retto sentier”; o come quest’altro: “… evitiamo di dividerci tra noi – via le lotte maligne, via le liti”, e altre stupidaggini come queste, innumerevoli.

E poi la musica, la musica nuova che accompagna quelle stupidaggini, e fa venire le rughe alla pancia.

Il muezzin che dal minareto musulmano chiama alla preghiera dell’aurora, grida ai quattro venti, “è meglio pregare che dormire! … è meglio pregare che dormire!”; e fa commozione anche a chi non è musulmano; e ora coi suoi nuovi canti e suoni la Chiesa cattolica sembra dire ai suoi fedeli, che è meglio dormire che pregare.

Ma nelle pietre delle chiese cattoliche c’è ancora la eco viva dei vecchi canti, delle vecchie musiche; e il giorno che quella eco gloriosa si sarà spenta, la Chiesa cattolica si potrà mettere a vendere caramelle e pianeti della fortuna. La vecchia liturgia cattolica ha fatto arrabbiare tanta gente; ma non ha mai fatto ridere nessuno.

Dalla Messa da morto hanno tolto il Dies irae.

Devono aver pensato che potevano conturbare le anime gracili di questi tempi svirilizzati; e hanno demolito la Messa da morto. Quando nella Chiesa scoppiava quel canto, “Dies irae, dies illa, solvet saeclum in favilla… Il rimbombare della tromba per i campi seminati di sepolcri… Prostrato a terra, invoco pietà”; quel canto faceva un rimbombo immenso dentro l’uomo che ascoltava, credente o non credente, perché la morte riguarda tutti, credenti e non credenti.

La religione si regge sull’esistenza del dolore e su quella della morte; nessuno può abolire definitivamente dentro l’uomo una religione, se non abolisce il dolore e la morte.

Quel canto tremendo lo metteva con la faccia dentro la faccia della morte; e allora lui cercava disperatamente la faccia di Dio; la faccia di quello che non muore. E il Libera; il Libera che anch’esso doveva essere cantato in latino; perché solo così, con una lingua che non è quella per comprare i ravanelli, l’uomo può dire a Dio la sua disperazione; dirgli che lo liberi dalla morte eterna, “Libera me, Domine, de morte aeterna…  quando verrai a giudicare il mondo col fuoco…”.

La Messa da morto era qui, in questi canti terribili e virili; quando si celebrava in una chiesa di villaggio, quella chiesa diventava immensa, una grande cattedrale. Poi l’uomo vivo usciva a testa bassa dalla chiesa dietro il morto, perché quei canti continuavano a rimbombargli dentro, come quando il cielo è pieno di folgori e tuoni.

Ora nella Messa nuova il prete parla lui della morte; lui che non sa che cosa è la vita, dovrebbe spiegare ai vivi che cosa è la morte. Così la Messa da morto è diventata una Messa coi fiori di plastica, e il burro e la marmellata. Il morto cinguetta sul ramo, come un passerotto; e tutto contento che è morto, e ora si metterà a tavola con gli angeli, i santi, i martiri, i patriarchi, il pane e burro e marmellata.

Ma io ho già detto al mio parroco, uomo pio, che se mi celebra quella Messa del pane e burro e marmellata, io mi rifiuterò di morire.

Però la nuova Messa da morto è la Messa di questa Chiesa cattolica di adesso; la grande Caterina da Siena direbbe che essa ha perso l’anima virile; dove i preti fanno quello che vogliono, si travestono come vogliono; e quei teologi nuovi che vogliono una religione cattolica da rivedere continuamente e a rivederla siano i parrocchiani e il loro parroco, e facciano le votazioni, per esempio, votare se oggi che è giovedì nell’ostia consacrata c’è Cristo o non c’è.

E quegli uomini di chiesa che parlano del giorno che nel posto di Dio si metterà il Pithecantropus, ossia l’ominide di Giava, perché l’uomo è tutto. Una volta bruciavano anche per cose più piccole di queste; adesso quelli che dicono queste cose, non sono buoni neanche come legna da bruciare.

Note

1 – cliccare qui per la biografia

2 – Brani scelti: VITTORIO G. ROSSI, Il morto è tutto contento d’esser morto (da Epoca, 26 Settembre 1971).

da http://www.cooperatoresveritatis.onweb.it/

Mons. Negri: «I cristiani che si vergognano delle Crociate sono succubi del laicismo dominante»

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Recentemente su IlSussidiario.net è apparso un articolo di don Federico Pichetto che condanna le Crociate, di cui i cristiani – dice sostanzialmente Pichetto – dovrebbero vergognarsi perché sono un tradimento del cristianesimo. Il giudizio non riguarda solo l’evento storico in sé ma più in generale la posizione che un cristiano deve avere di fronte alle vicende del mondo, anche oggi. Giudizi gravi che meritano, seppure a distanza di tempo, una replica puntuale e autorevole.

 

Caro don Pichetto,

ti scrivo queste righe cercando di rispondere al tuo intervento sulle Crociate. 

In effetti tu parli di Crociate che non sono mai esistite: Crociate sostenute dalla nascente borghesia, che come ognun sa, alla fine dell’XI secolo – quando la prima Crociata fu bandita – non c’era nella società europea, o comunque era una minoranza con un potere limitatissimo.
E poi riprendi le Crociate come progetto di imposizione violenta del Cristianesimo a popolazioni straniere. 

Non tocca a me rifare il punto su questa vicenda secolare su cui la migliore storiografia, e non solo quella cattolica, ha dato un contributo decisivo.
Per dirla con il mio grande amico Franco Cardini, le Crociate sono state un grande «pellegrinaggio armato», protagonista del quale fu, nei secoli, il popolo cristiano nel suo complesso.
Una avanguardia di santi, una massa di cristiani comuni e, nella retroguardia, qualche delinquente.

Non so quale avvenimento della Chiesa possa sfuggire a una lettura come questa.

Sta di fatto che noi – cristiani del Terzo millennio – alle Crociate dobbiamo molto.
Dobbiamo che non si sia perduta la possibilità dei grandi pellegrinaggi in Terrasanta: nei luoghi della vita storica di Gesù Cristo e della nascita della Chiesa.
Alle Crociate dobbiamo che si sia ritardata la fine della grande epopea della civiltà bizantina di almeno due secoli, e si sono soprattutto salvate dalla dominazione turca le regioni della nostra bella Italia, che si affacciano sul mare Adriatico, Tirreno e Ionio, falcidiate da quelle sistematiche incursioni di corsari e di turchi che hanno depauperato nei secoli le nostre popolazioni. 

Anche la tua bella Liguria ha dovuto costruire parte dei suoi paesi e delle sue piccole città a due livelli – il livello del mare e il livello della montagna – per poter sfuggire a queste invasioni che hanno fatto morire nel buio della cosiddetta civiltà araba e islamica centinaia e migliaia di nostri fratelli cristiani, a cui era stata tolta anche la dignità umana e di cui noi facciamo così fatica a fare memoria.

Nessuna realtà cristiana esprime la perfezione della fede che è solo in Gesù Cristo, ma nessuna esperienza cristiana è invincibilmente diabolica. Passare dalla fede alle opere è compito fondamentale del cristiano di ogni tempo. 

Ora, per recuperare questa bellezza della storia cristiana bisogna guardare la realtà secondo tutta l’ampiezza cattolica. La mia generazione e quella di molti amici dopo di me – che per l’intelligenza e l’apertura di monsignor Luigi Giussani hanno potuto dialogare personalmente per esempio con Regine Pernoud, con Leo Moulin, con Henri de Lubac,  con Hans Urs von Balthasar, con Joseph Ratzinger, con Jean Guitton e molti altri – hanno un sano orgoglio della nostra tradizione cattolica.

Per questo sentono in modo assolutamente negativo desumere acriticamente l’immagine della Chiesa dalla mentalità laicista che cerca di dominare la nostra coscienza e il nostro cuore. 

Certo, l’essenza di questa tradizione cattolica – e che, quindi, comprende anche le Crociate – è il desiderio di vivere il rapporto con Cristo e di annunziarlo nella concretezza del suo popolo che è la Chiesa, nelle grandi dimensioni che rendono il cristiano autenticamente uomo: la dimensione della cultura, della carità e della missione. È questo il Cristo che sta all’origine di tante iniziative del passato e del presente. Nessuna iniziativa lo esprime adeguatamente, ma l’assenza di qualsiasi capacità di presenza nel mondo e di giudizio sulla vita degli uomini e sui problemi degli uomini fa dubitare che esista una fede autenticamente cattolica.

La fede in Cristo può rischiare di ridursi a essere spunto per mozioni soggettive e spiritualistiche da cui metteva in guardia il santo padre Benedetto XVI all’inizio della sua splendida enciclica Deus Caritas Est: un Cristo che rischia di stare acquattato nel silenzio della coscienza personale, che non diventa fattore di vita e di cultura, che non tende a creare una civiltà della verità e dell’amore. Ricordo ancora con commozione quando facevo la terza liceo una lezione di Giussani in cui disse letteralmente: «La comunità cristiana tende a generare inesorabilmente una civiltà». 

Nella mia esperienza pastorale e culturale ho sempre sentito come  punto di riferimento sostanziale la grande certezza di Giovanni di Salisbury che diceva: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti». È perché siamo sulle spalle di giganti che vediamo bene il presente e intuiamo le linee del futuro. È questo che rende così appassionata la nostra responsabilità, senza nessuna dipendenza dagli esiti, con la certezza di portare il nostro contributo, piccolo o grande che sia, alla grande impresa del farsi del Regno di Dio nel mondo, che come dice il Concilio Vaticano II coincide con la Chiesa e la sua missione. 

Un cordiale saluto

Monsignor Luigi Negri

Arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Abate di Pomposa

Mons. Rifan: “Continuiamo a combattere. La vittoria è certa!”

Mons. Rifan 1
Monsignor Fernando Arêas Rifan, ordinario dell’Amministrazione apostolica personale di San Giovanni Maria Vianney di Campos (Brasile), invitato a Roma in occasione dell’ultimo pellegrinaggio del popolo Summorum Pontificum, ha avuto il privilegio di celebrare la festa del Cristo Re sull’altare contenente le spoglie mortali di Santa Caterina da Siena. In quell’occasione il prelato brasiliano ha consegnato ai fedeli un sermone vigoroso che è stato particolarmente apprezzato. Nella prima parte , Monsignor Rifan ci ha ricordato che il nostro attaccamento alla liturgia tradizionale non è separabile dalla nostra professione di fede, e poi ci ha invitato ad essere pienamente fiduciosi nella vittoria finale di Nostro Signore Gesù Cristo sull’offensiva laicista, per quanto violenta e piena di odio.
OMELIA DI MONSIGNOR RIFAN PER LA MESSA DI CHIUSURA
DEL SECONDO PELLEGRINAGGIO “POPULUS SUMMORUM PONTIFICUM”
ROMA, 27 OTTOBRE 2013, FESTA DEL CRISTO RE
Carissimi sacerdoti, seminaristi, religiosi, fratelli e sorelle in Nostro Signore Gesù Cristo,permettetemi per cominciare di dare un saluto e ringraziare i padri domenicani di questa basilica per la loro accoglienza.Questa Santa Messa pontificale solenne celebra la fine del pellegrinaggio “Summorum Pontificum” dei cattolici legati alla forma tradizionale del rito romano, concessa finalmente a tutti dal Santo Padre Benedetto XVI con il Motu Proprio “Summorum Pontificum”.Siamo nell’Anno della Fede proclamato da Benedetto XVI e proseguito da Papa Francesco.
La nostra fede, com’è ben espresso nella lettera apostolica Porta Fidei, deve essere “professata, celebrata, vissuta e pregata”.

La Santa Messa, la celebrazione del sacrificio eucaristico, è una delle più importati professioni di fede. E se noi amiamo, se preferiamo, se conserviamo la Santa Messa nella forma tradizionale del rito romano, è perché questa è una vera e propria professione di fede dei dogmi eucaristici: il dogma della Messa come sacrificio, rinnovo incruento del sacrificio della Croce; il dogma della presenza reale; quello della transustanziazione dovuto alle parole del sacerdote che agisce in persona Christi capitis e non alla fede del popolo; e quello del sacerdozio “ministeriale” dei presbiteri e dei vescovi, distinto da quello comune dei fedeli. La nostra fedeltà alla Santa Messa nella forma tradizionale del rito romano è dettata dalla nostra fede. E’ questa professione di fede, professata e celebrata attraverso la Messa tradizionale, che noi offriamo al Santo Padre come prova della nostra fedeltà alla Santa Chiesa.

Inoltre, la Santa Messa tradizionale è un importantissimo contributo per la Nuova Evangelizzazione. Perché è una chiara espressione liturgica dei dogmi eucaristici; perché manifesta perfettamente la dignità del sacro attraverso la ricchezza, la nobiltà e la solennità delle sue cerimonie; per il senso del mistero che comunica; ed infine, perché è uno dei tesori liturgici cattolici attraverso il quale affermiamo il nostro amore per la Santa Chiesa e la nostra comunione con essa.

Che il Santo Padre riconosca, nella nostra forma liturgica, l’espressione della nostra piena comunione con lui e con la Chiesa.

Oggi celebriamo la bellissima festa del Cristo Re. Questa festa fu istituita dal papa Pio IX in risposta al laicismo che regnava all’epoca e che fa tanti danni oggi. “…Mentre indagavamo le cause precipue di quelle calamità da cui vedevamo oppresso e angustiato il genere umano — ricordiamo d’aver chiaramente espresso non solo che tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società, ma altresì che mai poteva esservi speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni avessero negato e da loro rigettato l’impero di Cristo Salvatore. ” (Enciclica Quas Primas, 1)

E’ per combattere questi mali che il papa istituì una festa speciale di Gesù Cristo Re.

“Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.” “La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso .” (Enciclica Quas Primas, 18)

Per ben comprendere chi sia l’attuale nemico della civilizzazione cristiana, ci sono queste parole di Pio XII: “Oh, non chiedeteCi qual è il « nemico », né quali vesti indossi. Esso si trova dappertutto e in mezzo a tutti; sa essere violento e subdolo. In questi ultimi secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale, sociale dell’unità nell’organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza l’autorità; talvolta l’autorità senza la libertà. È un « nemico » divenuto sempre più concreto, con una spregiudicatezza che lascia ancora attoniti: Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio : Dio è morto; anzi : Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che Noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sulla umanità: un’economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio. Il « nemico » si è adoperato e si adopera perché Cristo sia un estraneo nelle Università, nella scuola, nella famiglia, nell’amministrazione della giustizia, nell’attività legislativa, nel consesso delle nazioni, là ove si determina la pace o la guerra.” (Discorso agli uomini dell’Azione Cattolica, 12 ottobre 1952)

Ma, coraggio! La vittoria del Bene è certa, la vittoria di Cristo e della Chiesa.

A Piazza San Pietro c’è un obelisco egizio che anticamente era collocato sulla spina del circo di Nerone ed era simbolo della vittoria sui cristiani perseguitati e morti in quel luogo, a cominciare da San Pietro. Oggi il circo di Nerone non esiste più. Al suo posto si eleva la magnifica basilica di San Pietro, e, se l’obelisco si trova ancora lì, esso reca ormai l’iscrizione “Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat!”. Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera. La vittoria finale!

E questo è vero anche per la Chiesa. Celebriamo questa Messa nella bellissima basilica di Santa Maria sopra la Minerva, che vuol dire che qui, sotto di noi, si trova il tempio della dea Minerva. Oggi questa basilica è dedicata alla Madonna. E’ la vittoria della Santa Vergine Maria su Minerva, di Cristo e della Chiesa sul paganesimo.

Fiduciosi nella protezione della nostra Santissima Madre, continuiamo a combattere. La vittoria è certa. Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat! Così sia.