Ottobre 2013 : IL POPOLO SUMMORUM PONTIFICUM TORNA A ROMA A CONCLUSIONE DELL’ANNO DELLA FEDE

POPULUS SUMMORUM PONTIFICUM

Il Cœtus Internationalis Summorum Pontificum (CISP) è lieto di annunciare che chiuderà l’Anno della Fede con una peregrinatio Ad Petri Sedem.

Dopo il fecondo successo spirituale del pellegrinaggio 2012, il popolo Summorum Pontificum torna a Roma per far risplendere la perenne giovinezza della liturgia tradizionale presso la tomba dell’Apostolo. Il CISP intende così partecipare all’armonia e all’edificazione della Chiesa universale, nella docilità all’azione dello Spirito Santo.

Il pellegrinaggio si terrà da giovedì 24 a domenica 27 ottobre 2013, e la sua organizzazione è stata avviata già da alcuni mesi, aderendo all’incoraggiamento a “seguir adelante” (andare avanti) calorosamente indirizzato al CISP dal Cardinale Canizares Lovera, Prefetto della Congregazione del Culto Divino, al termine del pontificale del 3 novembre. Lo scorso 14 marzo, il Cardinale Comastri, Arciprete della Basilica di San Pietro, ha comunicato la disponibilità della basilica il prossimo sabato 26 ottobre 2013, ore 11, per la celebrazione solenne, momento culminante del pellegrinaggio.

Il CISP ringrazia il Card. Comastri per la sua benevolenza e invita tutti i gruppi che curano la celebrazione della Santa Messa nella forma straordinaria del rito romano a prepararsi sin d’ora con la preghiera al pellegrinaggio, e a sostenerne attivamente l’organizzazione, affinché tutti i sacerdoti, i religiosi, i seminaristi e i fedeli legati alla liturgia tradizionale possano convenire numerosi a Roma a dimostrare il loro amore per la Chiesa e la sede di Pietro.

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Il CISP, costituito nel luglio dello scorso anno per l’organizzazione del pellegrinaggio del 2012, è oggi guidato da un comitato composto dal Cons. Giuseppe Capoccia, Delegato Generale, da Guillaume Ferluc, Segretario Generale, e da Don Claude Barthe, Cappellano. Il Cons. Capoccia succede al Cons. Riccardo Turrini Vita, nominato il 31 dicembre scorso Giudice della Corte d’Appello dello Stato della Città del Vaticano.

fonte: unacumpapanostro.wordpress.com

Abbè Barthe: un bilancio del pontificato e il prossimo futuro

– Quali sono le ragioni [della rinunzia del Papa]? Il Papa ha parlato della sua fatica; possiamo supporre che non ha trovato il supporto che egli stesso ha rappresentato per Giovanni Paolo II?
Benedetto XVI ha accennato alla sua stanchezza. Si parla dello stato allarmante del suo cuore. Si può dire anche, in effetti, che non è riuscito, non ha saputo, non ha voluto forse, trovare aiuti forti per l’esercizio della sua carica. Sapendo che era un intellettuale di alto livello, ma non un uomo di governo, avrebbe potuto sollecitare il sostegno di un Segretario di Stato che dirigesse saldamente la Curia, di un uomo di sana dottrina all’ex S. Ufficio, di cardinali capi dei dicasteri che fossero dei potenti “baroni”, come ai tempi di Giovanni Paolo II, ma questa volta dei baroni ratzingeriani.
Ha dato l’impressione di esitare egli stesso per sapere che cosa fosse la vera “linea Ratzinger”, quella del teologo conciliare che aveva contribuito a rovesciare la Curia di Pio XII, o quella dell’autore dell’Intervista sulla fede, che per quasi 25 anni, come Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, aveva tentato di arginare il torrente del Concilio e che aveva, si può dire, intellettualmente teorizzato il processo di restaurazione iniziato da Giovanni Paolo II. Le nomine curiali di Benedetto XVI sono state per lo più, almeno dal punto di vista simbolico, della linea di Intervista sulla fede (tra gli altri: Burke, Piacenza, Sarah, Canizares, Ranjith; questo ultimo che resta, pur a migliaia di chilometri – Colombo – un uomo di Curia).
Ma c’erano anche nomine fatte, per intenderci, dal primo Ratzinger: Hummes, per un certo tempo alla Congregazione del Clero, Müller, l’anno scorso, all’ex Sant’Uffizio, Ravasi, soprattutto, un esegeta semi-liberale.
Era questo tutto il problema di questo pontificato che finisce come un concerto a metà dello spartito?
L’opposizione al Papa, varia ma feroce, ha costantemente cercato di spingerlo alla dimissione morale. Ma si ha l’impressione che è stato l’insieme dei ‘buoni’ che, con il Papa, è stato intimidito, anchilosato.
Che cosa sarebbe successo se questi uomini nominati da lui, tra cui alcuni eccellenti, avessero esercitato un potere di sostituzione come avevano fatto sotto Giovanni Paolo II, certo nel disordine, i Sodano, Re, Sandri, che possiamo stimare nocivi, o come i Medina, Castrillón, un vero ‘ataccante’, e anche come… il cardinale Ratzinger?
Papa anziano, che risparmiava le sue forze al massimo, diventato quasi inaccessibile (la maggior parte dei capi dei dicasteri non avevano conversazioni regolari con lui), protetto da un entourage dominato dalla simpaticissima personalità di Georg Gänswein, era convenuto che tutte le decisioni sensibili da prendere dovessero passare nelle mani di Benedetto XVI. E ci restavano mesi e mesi.
– Non c’è, ora, il rischio di una «frattura», tra sostenitori del vecchio e del nuovo Papa, se si può dire. E, più filosoficamente, il rischio di un relativismo, contro il quale Benedetto XVI si è così spesso levato?
La domanda implica il caso di un futuro Papa che non sia nella linea di Benedetto XVI, ma sia, non un progressista perché non ne esistono tra i papabili, ma un ‘ratzingeriano’ di sinistra, se possiamo stabilire questa categoria. In questa ipotesi, la più probabile sarebbe l’elezione di Gianfranco Ravasi, 72 anni, Presidente del Consiglio per la cultura, sul cui nome potrebbero confluire i voti di tutti i personaggi della Curia di Giovanni Paolo II messi da parte, i pochi veri progressisti e tutti coloro che, approssimativamente parlando, tra i cardinali elettori non si ritrovano nella linea restaurazionista rappresentata da questo pontificato. La macchina restaurazionista, se mi si consente l’immagine, non ha comunque lavorato che al 10% della sua capacità in materia di nomine, di liturgia, di difesa del Summorum Pontificum. Per non parlare di quanto riguarda la repressione delle eresie evidenti e dello scisma latente che quelle comportano…
Allora, in effetti, si vedrebbe non riemergere, perché è sempre stato ben presente, ma riprendere un certo numero di posti di comando a tutti i livelli, un progressismo che è in realtà un liberalismo mortifero. Il sollievo che esso manifesta dopo l’annuncio delle dimissioni dimostra che esso pensa che la sua ora è tornata. Immagino un grande scoramento, da una parte di coloro che vengon chiamati i membri delle forze vive (tradizionalismi vari, comunità nuove, giovani sacerdoti col colletto romano, comunità religiose che reclutano, famiglie, movimenti giovanili, ecc.), ma anche uno scoraggiamento dei liberali stessi, perché il loro ritorno non farebbe che accentuare la desertificazione delle diocesi, parrocchie, congregazioni.
Così il relativismo contro cui Benedetto XVI si è levato riprenderebbe ad intra tutti i suoi diritti. Questo provocherebbe il rischio di una frattura nella Chiesa? Non il rischio, ma una salutare frattura.
Fortunatamente, l’ipotesi implicita nella domanda non è la sola.
– Quale sarebbe l’ipotesi alternativa?
L’ipotesi alternativa mi sembra la più plausibile: un restaurazionista dovrebbe raccogliere i due terzi dei voti del conclave. Ma questo ci dice molto poco, perché ci sono molti gradi in questa denominazione generica, che va dal cardinale Burke al cardinale Schönborn, arcivescovo di Vienna. Nel 2005, se il Conclave si fosse prolungato, il cardinale Ratzinger avrebbe desistito e due uomini molto diversi umanamente, ma apparentemente di comune sentire, avrebbero potuto  emergere: il canadese cardinale Marc Ouellet, 69 anni, ora prefetto della Congregazione dei vescovi e il cardinale Angelo Scola, età 71, arcivescovo di Milano. C’è oggi anche il cardinale Dolan, 63 anni, stesso profilo, pugnace arcivescovo di New York. E se il conclave del mese prossimo durasse a lungo, perché non pensare a un cardinale di paesi emergenti, come si suol dire, dall’Asia ad esempio?… Non faccio assolutamente alcun pronostico. Ma se fossi cardinale – una “supposizione impossibile” come quella di San Francesco di Sales – e supponendo che candidati cui mi sento molto vicino sembrano non avere più chance dopo le “primarie” dei primi scrutini, io voterei Scola per vari ragionevoli motivi. Il primo è che è italiano e dopo tutto è normale che il vescovo di Roma sia italiano.
– Se d’altronde Benedetto XVI ha la sensazione che la situazione si sta disfacendo (non parlo della questione fisica), non è da considerare che preferisca che l’elezione abbia luogo ora, anziché più tardi?
Sono assolutamente d’accordo. Tanto più che la sua ombra si stenderà necessariamente sulle congregazioni di cardinali che precederanno il conclave e sul conclave stesso, nel quale entrerà, non per votare ma in qualità di prefetto della Casa Pontificia, Mons. Gänswein.
 [..]
– Che ne sarà del motu proprio Summorum Pontificum? Può essere revocato? E in che cosa questo punto (o altri) s’imporrà al prossimo successore di Pietro?
L’elemento principale del motu proprio, su cui si fondano tutte le sue disposizioni, è questa constatazione: “È pertanto permesso di celebrare il sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato”. Un participio passato (“abrogato”) negato da un avverbio di tempo (‘mai’: in nessun momento).
Questo è tutto, ma le conseguenze sono colossali. Si può immaginate un Papa che dica: “Benedetto XVI si è sbagliato, perché Paolo VI aveva eccome abrogato il Messale anteriore”? Questo non si fa. Anche se Benedetto XVI l’ha in effetti fatto nei confronti di Paolo VI. Si può immaginare un Papa che dica: “Io stesso abrogo il Messale precedente alla riforma di Paolo VI”? Fino a che un altro Papa abroghi l’abrogazione, confermando la non abrogazione? Ecc, ecc.
La questione dottrinale è: si tratta di una Messa sostanzialmente abrogabile? Non ho bisogno di dare la mia risposta.
È chiaro che un papa ostile al Summorum Pontificum potrebbe voler aumentare le condizioni frapposte alla celebrazione di Messe pubbliche straordinarie.
La cosa peraltro non sarebbe nemmeno necessaria, perché tantissimi vescovi mettono già in opera, contro la legge e contro il suo spirito, un’interpretazione già molto restrittiva. È sufficiente che il Papa li incoraggi a ciò. O più, semplicemente ancora, che continui a non farli desistere dall’agire in tal modo.
Ma il futuro Papa può anche ampliare Summorum Pontificum. E, in ogni caso, tutti i suoi utilizzatori d’ogni rango devono adoperarvisi, come dopo la riforma di Paolo VI si adoperarono per far vivere e prosperare l’antica liturgia romana.
Ne va dell’onore reso a Dio e della salvezza delle anime.
– Che ne sarà delle discussioni e del futuro della FSSPX?
Per incredibile che possa sembrare, nell’immediato futuro, nulla è cambiato. Mi spiego meglio. Tutti sanno ormai che la Commissione Ecclesia Dei ha inviato una lettera al vescovo Fellay l’8 gennaio e che si aspetta una risposta da lui il 22 febbraio, il giorno della festa della cattedra di San Pietro. In questo giorno, 22 febbraio, potrebbe essere datata l’erezione della prelatura San Pio X. Questo rappresenterebbe la vera conclusione del pontificato di Benedetto XVI: la riabilitazione di mons. Lefebvre. Potete immaginare che rombo di tuono e anche, indirettamente, quale peso nell’orientamento degli eventi di marzo.
da messainlatino.it

Il Santo Sacrificio della Messa

Birnau 3

I. Nozioni preliminari

Alcune nozioni dogmatiche:
La Messa è sostanzialmente lo stesso sacrificio della croce. E’ diverso solo il modo dell’offerta (Denz. 940)
Essendo un vero sacrificio la Messa ne realizza in modo proprio le finalità: adorazione, ringraziamento, riparazione e petizione (Denz. 948 e 950).
Il valore della Messa è in se stesso rigorosamente infinito. Però i suoi effetti in quanto dipendono da noi non ci vengono applicati se non nella misura delle nostre interne disposizioni.

II. Finalità ed effetti della Santa Messa

La Messa ha gli stessi fini e produce gli stessi effetti del sacrificio della croce, che sono quelli del sacrificio in generale come atto supremo di religione, però di grado infinitamente superiore.

Adorazione.

Il sacrificio della Messa rende a Dio un’adorazione degna di Lui, rigorosamente infinita. Questo effetto è prodotto infallibilmente ex opere operato, anche se celebra un sacerdote in peccato mortale, perché questo valore latreutico o di adorazione dipende dalla dignità infinita del Sacerdote principale che lo offre e dal valore della Vittima offerta.
Con la Messa possiamo dare a Dio tutto l’onore che Gli è dovuto in riconoscimento della Sua infinita maestà e del Suo supremo dominio, nella maniera più perfetta possibile e in grado rigorosamente infinito. Una sola Messa glorifica più Iddio di quanto lo glorificheranno in cielo, per tutta l’eternità, tutti gli angeli, i santi e i beati insieme, compresa Maria Santissima.
Dio risponde a questa incomparabile glorificazione curvandosi amorosamente verso le Sue creature. Di qui l’immenso valore di santificazione che racchiude per noi il santo sacrificio della Messa.

Ringraziamento.

Gli immensi benefici di ordine naturale e soprannaturale che abbiamo ricevuto da Dio ci hanno fatto contrarre verso di Lui un debito infinito di gratitudine che possiamo saldare soltanto con la Messa. Infatti per mezzo di essa offriamo al Padre un sacrificio eucaristico, cioè di ringraziamento,  che supera infinitamente il nostro debito; perché è Cristo stesso che, immolandosi per noi, ringrazia Iddio per i benefici che ci concede. A sua volta il ringraziamento è fonte di nuove grazie perché al benefattore piace la gratitudine. Questo effetto eucaristico è sempre prodotto infallibilmente ex opere operato indipendentemente dalle nostre disposizioni.

Riparazione.

Dopo l’adorazione e il ringraziamento non c’è dovere più urgente verso il Creatore che la riparazione delle offese che da noi ha ricevuto. Anche sotto questo aspetto il valore della Messa è assolutamente incomparabile, giacché con essa offriamo al Padre l’infinita riparazione di Cristo con tutta la sua efficacia redentrice.
Questo effetto non ci viene applicato in tutta la sua pienezza – basterebbe infatti una sola Messa per riparare tutti i peccati del mondo e liberare dalle loro pene tutte le anime del Purgatorio – ma ci viene applicato in grado limitato secondo le nostre disposizioni.

Tuttavia:
a. ci ottiene, per sé ex opere operato, se non incontra ostacoli, la grazia attuale necessaria per il pentimento dei nostri peccati. Lo insegna il Concilio di Trento: «Hujus quippe oblatione placatus Dominus, gratiam et donum paenitentiae concedens, crimina et peccata etiam ingentia dimittit» (Denz. 940).
b. rimette sempre, infallibilmente se non incontra ostacoli, almeno la parte della pena temporale che si deve pagare per i peccati in questo mondo o nell’altro. La Messa è quindi utile anche alle anime del Purgatorio (Denz. 940 e 950). Il grado e la misura di questa remissione dipende dalle nostre disposizioni.

Petizione.

Gesù Cristo si offre al Padre nella Messa per ottenerci con il merito della Sua infinita oblazione tutte le grazie di cui abbiamo bisogno. «Semper vivens ad interpelladum pro nobis» (Ebr. 7, 25), e valorizza le nostre suppliche con i Suoi meriti infiniti. La Messa di per sé, ex opere operato, muove infallibilmente Dio a concedere agli uomini tutte le grazie di cui hanno bisogno, ma il dono effettivo di queste grazie dipende dalle nostre disposizioni, la mancanza delle quali può impedire completamente che queste grazie giungano fino a noi.

III. Disposizioni per il Santo Sacrificio della Santa Messa. 

Le disposizioni principali per la Santa Messa sono di due specie: esterne ed interne.

Disposizioni esterne

Il sacerdote che celebra dovrà osservare le rubriche e le cerimonie stabilite dalla Chiesa come se quella fosse la prima, l’ultima e l’unica Messa della sua vita.
Il semplice fedele assisterà alla Messa in silenzio, con rispetto e attenzione.

Disposizioni interne

La migliore disposizione interna è quella di identificarsi con Gesù Cristo che si immola sull’altare, offrendoLo al Padre ed offrendosi con Lui, in Lui e per Lui. ChiediamoGli che converta anche noi in pane per essere così a completa disposizione dei nostri fratelli mediante la carità. Uniamoci intimamente con Maria ai piedi della croce, con San Giovanni il discepolo prediletto, col sacerdote celebrante, nuovo Cristo in terra. Uniamoci a tutte le Messe che si celebrano nel mondo intero. La santa Messa celebrata o ascoltata con queste disposizioni è indubbiamente tra i principali strumenti di santificazione.

Tratto da:
Antonio Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana,
ed. Paoline, 1987, pagg. 548-554

La Messa cattolica: sacrificio e non cena

«Fino a Lutero non vi è mai stato dubbio: l’Eucaristia è sacrificio e ad esso vi è una partecipazione conviviale, da intendersi sempre come sacro convito. Quindi, nella Tradizione della Chiesa, la Messa è stata sempre soprattutto sacrificio e poi anche convito. Lutero, invece, che riteneva che la nozione di Messa come sacrificio mettesse in pericolo l’unicità salvifica del sacrificio della croce, negò il carattere sacrificale dell’Eucaristia in favore del solo aspetto conviviale. È da questo momento in poi che si sviluppa l’idea di costruire gli altari a forma di mense e di far celebrare il sacerdote verso il popolo e in lingua volgare: per Lutero la Messa deve essere un incontro fraterno. La Chiesa cattolica si è opposta strenuamente a queste idee fino al post-concilio. Il Vaticano II non ha parlato in nessun testo di costruire nuovi altari, di staccarli dalla parete, di farli a forma di tavola e di celebrare verso il popolo. Nel post-concilio si è diffusa questa tendenza in seguito alla normativa che è stata via via stabilita, e moltissimi altari sono oggi a forma di tavola e li si chiama spesso “mensa” anche nei testi ufficiali. Non solo a causa di ciò, ma anche grazie a questo, si registra un forte calo di comprensione del fatto che la liturgia eucaristica è soprattutto il sacrificio di Cristo e poi anche una mensa conviviale, un banchetto fraterno in cui ci alimentiamo al suo corpo e sangue».

Mons. Mauro Gagliardi, “Liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche”, pp. 137-138.

dal sito papalepapale.com

Il Giuramento antimodernista

IL GIURAMENTO ANTIMODERNISTA
Acta Apostolicæ Sedis, 1910, pp. 669-672

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IO (NOME) fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.
Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti.
Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell’origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.
Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.
Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell’evoluzione dei dogmi da un significato all’altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.
Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall’oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell’intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.
Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell’enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.
Riprovo altresì l’errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.
Disapprovo pure e respingo l’opinione di chi pensa che l’uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.
Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l’analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.
Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l’insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull’origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell’aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l’esame di qualsiasi altro documento profano.
Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c’è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l’abilità e l’ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.
Mantengo pertanto e fino all’ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell’episcopato agli apostoli (1), non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (2).
Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell’insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti.
Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

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Note:
1 Ireneo, Adversus haereses, 4, 26, 2: PG 7, 1053.
2 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 28: PL 2, 40
da amiciziacristiana.it

“PROFESSIO FIDEI” tridentina

Ego N. firma fide credo et profiteor omnia et singula, quae continentur in symbolo fidei, quo sancta Romana Ecclesia utitur, videlicet:

Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, factorem coeli et terræ, visibilium omnium et invisibilium. Et in unum Dominum Jesum Christum, Filium Dei unigenitum. Et ex Patre natum ante omnia sæcula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero. Genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt. Qui propter nos homines, et propter nostram salutem fdescendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine: et homo factus est. Crucifixus etiam pro nobis; sub Pontio Pilato passus, et sepultus est. Et resurrexit tertia die, secundum Scripturas. Et ascendit in coelum: sedet ad desteram Patris. Et iterum venturus est cum gloria judicare vivos et mortuos: cujus regni non erit finis. Et in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem: qui ex Patre Filioque procedit. Qui cum Patre, et Filio simul adoratur et conglorificatur: qui locutus est per Prophetas. Et unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum. Et exspecto resurrectionem mortuorum. Et vitam venturi sæculi. Amen.

Apostolicas et ecclesiasticas traditiones reliquasque eiusdem Ecdesiae observationes et constitutiones firmissime admitto et amplector. Item sacram Scripturam iuxta eum sensum, quem tenuit et tenet sancta mater Ecclesia, cuius est iudicare de vero sensu et interpretatione sacrarum Scripturarum admitto, nec eam umquam, nisi iuxta unanimem consensum patrum accipiam et interpretabor.

Profiteor quoque septem esse vere et proprie sacramenta Novae Legis a Iesu Christo Domino nostro instituta atque ad salutem humani generis, licet non omnia singulis necessaria, scilicet Baptimam, Confirmationem, Eucharistiam, Poenitentiam, extremam Unctionem, Ordinem et Matrimonium, illaque gratiam conferre, et ex his Baptismum, Confirmationem et Ordinem sine sacrilegio reiterari non posse. Receptos quoque et adprobatos Ecclesiae catholicae ritus in supradictorum omnium sacramentorum sollemni administratione recipio et admitto.

Omnia et singola, quae de peccato originali et de iustificatione in sacrosancta Tridentina synodo definita et declarata fuerunt, amplector et recipio.

Profiteor pariter in missa offerri Deo verum, proprium et propitiatorium sacrificium pro vivis et defunctis, atque in sanctissimo Eucharistiae sacramento esse vere, realiter et substantialiter corpus et sanguinem una cum anima et divinitate Domini nostri Iesu Christi, fierique conversionem totius substantiae panis in corpus, et totius substantiae vini in sanguinem, quam conversionem catholica Ecclesia transsubstantiationem ap pellat. Fateor etiam sub altera tantum specie totum atque integrum Christum verumque sacramentum sumi.

Constanter teneo purgatorium esse, animasque ibi detentas fidelium suffragiis iuvari; similiter et sanctos una cum Christo regnantes venerandos atque invocandos esse, eosque orationes Deo pro nobis offerre, atque eorum reliquias esse venerandas. Firmiter assero, imagines Christi ac Deiparae semper virginis, nec non aliorum sanctorum, habendas et retinendas esse, atque eis debitum honorem ac venerationem impertiendam; indulgentiarum etiam potestatem a Christo in Ecclesia relictam fuisse, illarumque usum Christiano populo maxime salutarem esse affirmo.

Sanctam catholicam et apostolicam Romanam Ecclesiam omnium Ecclesiatum matrem et magistram agnosco; Romanoque pontifici, beati Petri apostolorum principis successori ac Iesu Christi vicario veram oboedientiam spondeo ac iuro.

Cetera item omnia a sacris canonibus et oecumenicis conciliis, ac praecipue a sacrosaneta Tridentina synodo [et ab oecumenico concilio Vaticano, tradita, definita ac declarata, praesertim de Romani pontificis primatu et infallibili magisterio], indubitanter recipio atque profiteor; simulque contraria omnia, atque haereses quascumque ab Ecclesia damnatas et reiectas et anathematizatas ego pariter damno, reicio et anathematizo.

Hanc veram catholicam fidem, extra quam nemo salvus esse potest, quam in praesenti sponte profiteor et veraciter teneo, eamdem integram et immaculatam usque ad extremum vitae spiritum constantissime, Deo adiuvante, retinere et confiteri atque a meis subditis vel illis, quorum cura ad me in munere meo spectabit, teneri, doceri et praedicari, quantum in me erit, curaturum, ego idem N. spondeo, voveo ac iuro: sic me Deus adiuvet, et haec sancta Dei Evangelia.

ITALIANO

Io N. con fede sicura credo e professo tutto e singolarmente quanto è contenuto nel simbolo di fede di cui fa uso la santa romana Chiesa, cioè:

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili; ed in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, e nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non fatto, consustanziale al Padre; per mezzo di lui furono create tutte le cose; egli per noi uomini e per la nostra salvezza discese dai cieli, e s’incarnò per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine, e si fece uomo; fu anche crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, patì e fu sepolto; e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, e salì al cielo, siede alla destra del Padre, e tornerà di nuovo con gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine; (credo) nello Spirito Santo, Signore e vivificante, che procede dal Padre e dal Figlio; il quale è adorato e glorificato insieme col Padre e col Figlio; il quale parlò per mezzo dei profeti; e (credo) nella Chiesa una, santa cattolica e apostolica. Professo esservi un solo Battesimo per la remissione dei peccati, ed aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.

Fermissimamente ammetto ed accetto le tradizioni ecclesiastiche e le altre osservanze e costituzioni della stessa Chiesa. Ammetto pure la sacra Scrittura secondo l’interpretazione che ne ha dato e ne dà la santa madre Chiesa, alla quale compete giudicare del senso genuino e dell’interpretazione delle sacre Scritture, né mai l’intenderò e l’interpreterò se non secondo l’unanime consenso dei padri.

Confesso anche che sono sette i veri e propri sacramenti della Nuova Legge istituiti da Gesù Cristo nostro Signore e necessari, sebbene non tutti a tutti, per la salvezza del genere umano, cioè: battesimo, confermazione, eucaristia, penitenza, estrema unzione, ordine e matrimonio; e che infondono la grazia, e che di essi il battesimo, la confermazione e l’ordine non si possono reiterare senza sacrilegio. Accetto e riconosco inoltre i riti ammessi ed approvati della Chiesa cattolica per la solenne amministrazione di tutti i sacramenti sopra elencati.

Accolgo e accetto in ogni parte tutto quanto è stato definito e dichiarato nel sacrosanto concilio di Trento riguardo il peccato originale e la giustificazione.

Parimenti credo che nella messa viene offerto a Dio un sacrificio vero, proprio e propiziatorio per i vivi e i defunti, e che nel santissimo sacramento dell’eucaristia c’è veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue assieme all’anima e alla divinità di nostro Signore Gesù Cristo, e che avviene la conversione di tutta la sostanza del pane in corpo e di tutta la sostanza del vino in sangue, la qual conversione la Chiesa cattolica chiama transustanziazione. Confesso anche che sotto una sola specie si riceve tutto integro Cristo e un vero sacramento.

Ritengo senza esitazione che esiste il purgatorio e che le anime ivi rinchiuse sono aiutate dai suffragi dei fedeli; similmente poi che si devono venerare e invocare i santi che regnano con Cristo, che essi offrono a Dio le loro preghiere per noi e che le loro reliquie devono essere venerate. Dichiaro fermamente che si possono ritrarre e ritenere le immagini di Cristo e della sempre vergine Madre di Dio, come pure degli altri santi, e che ad esse si deve tributare l’onore dovuto e la venerazione. Affermo inoltre che da Cristo è stato conferito alla Chiesa il potere delle indulgenze e che il loro uso è della massima utilità al popolo cristiano.

Riconosco la santa, cattolica ed apostolica Chiesa romana come madre e maestra di tutte le Chiese, e prometto e giuro obbedienza al romano Pontefice, successore di san Pietro principe degli apostoli e vicario di Gesù Cristo.

Accetto e professo ancora senza dubbi tutte le altre cose insegnate, definite e dichiarate dai sacri canoni e in particolare dal sacrosanto concilio di Trento [e dal concilio ecumenico Vaticano] [specialmente quanto al primato e al magistero infallibile del romano Pontefice]: nel contempo anch’io condanno, rigetto e anatematizzo tutte le dottrine contrarie e qualunque eresia condannata, rigettata ed anatematizzata dalla Chiesa.

Io N. prometto, mi impegno e giuro, con l’aiuto di Dio, di mantenere e conservare tenacissimamente integra ed immacolata fino all’ultimo respiro di vita questa stessa vera fede cattolica, fuori della quale nessuno può essere salvo, che ora spontaneamente professo e ammetto con convinzione, e di procurare, per quanto sta in me, che sia ritenuta, insegnata e predicata ai miei soggetti e a coloro di cui mi sarà affidata la cura nel mio ministero. Così faccio voto, così prometto e giuro; così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

da amiciziacristiana.com

Pio XII: Enciclica “MUSICAE SACRAE DISCIPLINA”

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

MUSICAE SACRAE DISCIPLINA

LA MUSICA SACRA

 

L’ordinamento della musica sacra Ci è stato sempre sommamente a cuore; Ci è pertanto sembrato opportuno riprenderne un’ordinata trattazione e insieme illustrare con una certa ampiezza molte questioni sorte e discusse in questi ultimi decenni, affinché questa nobile e ragguardevole arte giovi sempre più allo splendore del culto divino e a promuovere più efficacemente una più intensa vita spirituale dei fedeli. Abbiamo voluto allo stesso tempo venire incontro ai voti che molti di voi, venerabili fratelli, nella loro saggezza, hanno espresso e che anche insigni maestri di quest’arte liberale ed esimi cultori di musica sacra hanno formulato in occasione di congressi su tale materia, e infine a quanto hanno consigliato al riguardo l’esperienza della vita pastorale e i progressi della scienza e degli studi su quest’arte. In tal modo nutriamo speranza che le norme saggiamente fissate da san Pio X nel documento da lui a buon diritto chiamato “codice giuridico della musica sacra”(2) saranno di nuovo confermate e inculcate, riceveranno nuova luce e saranno corroborate da nuovi argomenti, in modo tale che la nobile arte della musica sacra, adattata alle presenti condizioni e in certo qual modo arricchita, sempre più risponda al suo alto fine.

I

Fra i molti e grandi doni di natura dei quali Dio, in cui è armonia di perfetta concordia e somma coerenza, ha arricchito l’uomo, creato a sua “immagine e somiglianza” (cf. Gn 1,26), deve annoverarsi la musica, la quale, insieme con le altre arti liberali contribuisce al gaudio spirituale e al diletto dell’animo. A ragione così scrive di essa Agostino: “La musica, cioè la dottrina e l’arte del ben modulare, a monito di grandi cose è stata concessa dalla divina liberalità anche ai mortali dotati di anima razionale”.(3)

Nessuna meraviglia, dunque, che il sacro canto e l’arte musicale siano stati usati, come consta da molti documenti antichi e recenti, anche per ornamento e decoro delle cerimonie religiose sempre e dovunque, anche presso i popoli pagani; e che il culto soprattutto del vero e sommo Dio si sia avvalso fin dall’antichità, di quest’arte. Il popolo di Dio, scampato incolume dal Mar Rosso per miracolo della divina potenza, cantò a Dio un canto di vittoria; e Maria, sorella del condottiero Mosè dotata di spirito profetico, cantò al suono dei timpani accompagnata dal canto del popolo (cf. Es15,1-20). In seguito, mentre si conduceva l’arca di Dio dalla casa di Abinadab alla città di Davide, il re stesso e “tutto Israele danzavano davanti a Dio con strumenti di legno lavorato, cetre, lire, timpani, sistri e cembali” (2 Sam 6,5). Lo stesso re Davide fissò le regole della musica da usarsi nel culto sacro e del canto (cf. 1 Cron 23,5; 25,2-31); regole che furono ristabilite dopo il ritorno del popolo dall’esilio e conservate fedelmente fino alla venuta del divin Redentore. Che nella chiesa, poi, fondata dal divin Salvatore, il canto sacro fosse fin da principio in uso e onore viene chiaramente indicato da san Paolo apostolo, quando agli efesini così scrive: “Siate ripieni di Spirito Santo recitando tra voi salmi e inni e canti spirituali” (Ef 5,18s; cf. Col 3,16); e che quest’uso di cantare salmi fosse in vigore anche nelle adunanze dei cristiani egli indica con queste parole: “Quando vi adunate alcuni tra voi cantano il salmo” (1 Cor 14,26). Che lo stesso avvenisse dopo l’età apostolica è attestato da Plinio, il quale scrive che coloro che avevano rinnegato la fede avevano affermato “che questa era la sostanza della colpa di cui erano accusati, essere soliti adunarsi in un dato giorno prima dell’apparire della luce e cantare un inno a Cristo come a Dio”.(4) Queste parole del proconsole romano di Bitinia mostrano chiaramente che neppure al tempo della persecuzione taceva del tutto la voce del canto della chiesa; ciò conferma Tertulliano quando narra che nelle adunanze dei cristiani “si leggono le Scritture, si cantano salmi, si tiene la catechesi”.(5)

Restituita alla chiesa la libertà e la pace, si hanno molte testimonianze dei padri e degli scrittori ecclesiastici, le quali confermano essere i salmi e gli inni del culto liturgico di uso pressoché quotidiano. Anzi a poco a poco si sono create anche nuove forme ed escogitati nuovi generi di canti, sempre più perfezionati dalle scuole di musica, specialmente a Roma. Il nostro predecessore di f.m. san Gregorio Magno, secondo la tradizione, radunò con cura quanto era stato tramandato e vi diede un saggio ordinamento, provvedendo con opportune leggi e norme ad assicurare la purezza e l’integrità del canto sacro. Dall’alma città la modulazione romana del canto a poco a poco s’introdusse in altre regioni dell’occidente, e non solo vi si arricchì di nuove forme e melodie, ma si incominciò anche a usare una nuova specie di canto sacro, l’inno religioso, talora in lingua volgare. Lo stesso canto corale, che dal suo restauratore san Gregorio cominciò a chiamarsi “gregoriano”, a partire dai secoli VIII e IX in quasi tutte le regioni dell’Europa cristiana acquistò nuovo splendore, con l’accompagnamento dello strumento musicale chiamato “organo”.

A cominciare dal secolo IX a poco a poco a questo canto corale si aggiunse il canto polifonico, di cui nei secoli successivi sempre più si precisarono la teoria e la pratica e che, soprattutto nei secoli XV e XVI, raggiunse per opera di sommi artisti ammirabile perfezione. La chiesa ebbe sempre in grande onore anche questo canto polifonico e di buon grado lo ammise a maggior decoro dei sacri riti nelle stesse basiliche romane e nelle cerimonie pontificie. Se ne accrebbero l’efficacia e lo splendore, perché alla voce dei cantori si aggiunse, oltre l’organo, il suono di altri strumenti musicali.

In tal modo, per impulso e sotto l’auspicio della chiesa, l’ordinamento della musica sacra nel decorso dei secoli ha fatto lungo cammino, in cui, sebbene talvolta con lentezza e a fatica, tuttavia è salito a poco a poco a maggior perfezione: dalle semplici ed ingenue melodie gregoriane fino alle grandi e magnifiche opere d’arte, nelle quali non solo la voce umana, ma altresì l’organo e gli altri strumenti aggiungono dignità, ornamento e prodigiosa ricchezza. Il progresso di quest’arte musicale, mentre chiaramente dimostra quanto la chiesa si sia preoccupata di rendere sempre più splendido e gradito al popolo cristiano il culto divino, d’altra parte spiega come mai la chiesa medesima abbia talvolta dovuto impedire che si oltrepassassero i giusti limiti e che, insieme con il vero progresso, s’infiltrasse nella musica sacra, depravandola, alcunché di profano e alieno dal culto sacro.

A tale dovere di premurosa vigilanza sempre furono fedeli i sommi pontefici; anche il concilio di Trento saggiamente proscrisse “quelle musiche in cui o nell’organo o nel canto si mescola qualcosa di sensuale o impuro”.(6) Per tralasciare non pochi altri papi, il nostro predecessore di f.m. Benedetto XIV con lettera enciclica del 19 febbraio 1749, in preparazione all’anno giubilare, con abbondante dottrina e copia di argomenti, esortò in modo particolare i vescovi a proibire con ogni mezzo i riprovevoli abusi che si erano indebitamente introdotti nella musica sacra.(7) Seguirono la stessa via i nostri predecessori Leone XII, Pio VIII,(8) Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII.(9) Tuttavia si può affermare a buon diritto che è stato il Nostro predecessore di i.m. san Pio X a compiere un’organica restaurazione e riforma della musica sacra, tornando a inculcare i principi e le norme tramandati dall’antichità e opportunamente riordinandoli secondo le esigenze dei tempi moderni.(10) Infine, come il nostro immediato predecessore Pio XI di f.m., con la costituzione apostolica Divini cultus sanctitatem del 20 dicembre 1929,(11) così Noi stessi, con l’enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947, abbiamo ampliate e corroborate le prescrizioni dei precedenti pontefici.(12)

II

A nessuno certamente recherà meraviglia il fatto che la chiesa con tanta vigilanza s’interessi della musica sacra. Non si tratta, infatti, di dettare leggi di carattere estetico o tecnico nei riguardi della nobile disciplina della musica; è intenzione della chiesa, invece, che questa venga difesa da tutto ciò che potrebbe menomarne la dignità, essendo chiamata a prestare servizio in un campo di così grande importanza qual è quello del culto divino.

In ciò la musica sacra non ubbidisce a leggi e norme diverse da quelle che regolano ogni arte religiosa, anzi l’arte stessa in generale. Invero non ignoriamo che in questi ultimi anni alcuni artisti, con grave offesa della pietà cristiana, hanno osato introdurre nelle chiese opere prive di qualsiasi ispirazione religiosa e in pieno contrasto anche con le giuste regole dell’arte. Essi cercano di giustificare questo deplorevole modo di agire con argomenti speciosi, che pretendono far derivare dalla natura e dall’indole stessa dell’arte. Vanno, infatti, dicendo che l’ispirazione artistica è libera, che non è lecito sottoporla a leggi e norme estranee all’arte, siano queste morali o religiose, perché in tal modo si verrebbe a ledere gravemente la dignità dell’arte e a ostacolare con vincoli e legami il libero corso dell’azione dell’artista sotto il sacro influsso dell’estro.

Con tali argomenti viene sollevata una questione senza dubbio grave e difficile, che riguarda qualsiasi manifestazione d’arte e ogni artista; questione che non può essere risolta con argomenti tratti dall’arte e dall’estetica, ma che invece dev’essere esaminata alla luce del supremo principio del fine ultimo, regola sacra e inviolabile di ogni uomo e di ogni azione umana. L’uomo, infatti, dice ordine al suo fine ultimo – che è Dio – in forza di una legge assoluta e necessaria fondata sulla infinita perfezione della natura divina, in maniera così piena e perfetta che neppure Dio potrebbe esimere qualcuno dall’osservarla. Con questa legge eterna ed immutabile viene stabilito che l’uomo e tutte le sue azioni devono manifestare, a lode e gloria del Creatore, l’infinita perfezione di Dio e imitarla per quanto è possibile. L’uomo, perciò, destinato per natura sua a raggiungere questo fine supremo, nel suo operare deve conformarsi al divino archetipo e orientare in questa direzione tutte le facoltà dell’animo e del corpo, ordinandole rettamente tra loro e debitamente piegandole verso il conseguimento del fine. Pertanto anche l’arte e le opere artistiche devono essere giudicate in base alla loro conformità con il fine ultimo dell’uomo; e l’arte certamente è da annoverarsi fra le più nobili manifestazioni dell’ingegno umano, perché riguarda il modo di esprimere con opere umane l’infinita bellezza di Dio, di cui essa è quasi il riverbero. Per la qual cosa, la nota espressione “l’arte per l’arte” – con cui, messo in disparte quel fine che è insito in ogni creatura, erroneamente si afferma che l’arte non ha altre leggi che quelle che promanano dalla sua natura – o non ha valore alcuno o reca grave offesa a Dio stesso, creatore e fine ultimo. La libertà poi dell’artista – che non è un istinto cieco nell’azione, regolato solo dall’arbitrio o da una certa sete di novità – per il fatto che è soggetta alla legge divina, in nessun modo viene coartata o soffocata, ma piuttosto nobilitata e perfezionata.

Ciò, se vale per ogni opera d’arte, è chiaro che deve applicarsi anche nei riguardi dell’arte sacra e religiosa. Anzi l’arte religiosa è ancor più vincolata a Dio e diretta a promuovere la sua lode e la sua gloria, perché non ha altro scopo che quello di aiutare potentemente i fedeli a innalzare piamente la loro mente a Dio, agendo per mezzo delle sue manifestazioni sui sensi della vista e dell’udito. Perciò l’artista senza fede o lontano da Dio con il suo animo e con la sua condotta, in nessuna maniera deve occuparsi di arte religiosa; egli, infatti, non possiede quell’occhio interiore che gli permette di scorgere quanto è richiesto dalla maestà di Dio e dal suo culto. Né si può sperare che le sue opere prive di afflato religioso – anche se rivelano la perizia e una certa abilità esteriore dell’autore – possano mai ispirare quella fede e quella pietà che si addicono alla maestà della casa di Dio; e quindi non saranno mai degne di essere ammesse nel tempio dalla chiesa, che è la custode e l’arbitra della vita religiosa.

L’artista invece che ha fede profonda e tiene una condotta degna di un cristiano, agendo sotto l’impulso dell’amore di Dio e mettendo le sue doti a servizio della religione, per mezzo dei colori, delle linee e dell’armonia dei suoni farà ogni sforzo per esprimere la sua fede e la sua pietà con tanta perizia, eleganza e soavità, che questo sacro esercizio dell’arte costituirà per lui un atto di culto e di religione, e stimolerà grandemente il popolo a professare la fede e a coltivare la pietà. Tali artisti sono stati e saranno sempre tenuti in onore dalla chiesa; essa aprirà loro le porte dei templi, poiché si compiace del contributo non piccolo che essi con la loro arte e con la loro operosità danno per un più efficace svolgimento del suo ministero apostolico.

Queste leggi dell’arte religiosa vincolano con un legame ancora più stretto e più santo la musica sacra, poiché essa è più vicina al culto divino che le altre arti belle, come l’architettura, la pittura e la scultura; queste cercano di preparare una degna sede ai riti divini, quella invece occupa un posto di primaria importanza nello svolgimento stesso delle cerimonie e dei riti sacri. Per questo la chiesa deve con ogni diligenza provvedere a rimuovere dalla musica sacra, appunto perché questa è l’ancella della sacra liturgia, tutto ciò che disdice al culto divino o impedisce ai fedeli di innalzare la mente a Dio.

E, infatti, in ciò consiste la dignità e l’eccelsa finalità della musica sacra, che cioè per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza apporta decoro e ornamento alle voci sia del sacerdote offerente sia del popolo cristiano che loda il sommo Dio eleva i cuori dei fedeli a Dio per una sua intrinseca virtù rende più vive e fervorose le preghiere liturgiche della comunità cristiana, perché Dio uno e trino da tutti possa essere lodato e invocato con più intensità ed efficacia. Per opera della musica sacra, dunque, viene accresciuto l’onore che la chiesa porge a Dio in unione con Cristo suo capo; e viene altresì aumentato il frutto che i fedeli, stimolati dai sacri concenti, percepiscono dalla sacra liturgia e sogliono manifestare con una condotta di vita degnamente cristiana, come dimostra l’esperienza quotidiana e confermano molte testimonianze di scrittori antichi e recenti. Sant’Agostino, parlando dei canti “eseguiti con voce limpida e con appropriate modulazioni”, così si esprime: “Sento che le anime nostre assurgono nella fiamma della pietà con un ardore e una devozione maggiore per quelle sante parole, quando sono accompagnate dal canto, e tutti i diversi sentimenti del nostro spirito trovano nel canto una loro propria modulazione, che li risveglia in forza di non so quale occulto, intimo rapporto”.(13)

Da qui facilmente si può comprendere come la dignità e l’importanza della musica sacra sia tanto più grande, quanto più da vicino la sua azione riguarda l’atto supremo del culto cristiano, cioè il sacrificio eucaristico dell’altare. Essa, dunque, nulla può compiere di più alto e di più sublime dell’ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni la voce del sacerdote che offre la vittima divina, di rispondere gioiosamente alle sue domande insieme col popolo che assiste al sacrificio, e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro. Alla dignità di questo eccelso servizio si avvicinano poi gli uffici che la stessa musica sacra compie quando accompagna ed abbellisce le altre cerimonie liturgiche, e in primo luogo la recita dell’Ufficio divino nel coro. Questa musica “liturgica”, perciò, merita sommo onore e lode.

Ciononostante si deve tenere in grande stima anche quella musica che, pur non essendo destinata principalmente al servizio della sacra liturgia, tuttavia, per il suo contenuto e per le sue finalità reca molti vantaggi alla religione, e perciò a buon diritto viene chiamata musica “religiosa”. Invero anche questo genere di musica sacra – che è detto “popolare” e che ebbe origine in seno alla chiesa e sotto i suoi auspici poté felicemente svilupparsi – è in grado, come l’esperienza dimostra, di esercitare negli animi dei fedeli un grande e salutare influsso, sia che venga usata nelle chiese durante le funzioni e le sacre cerimonie non liturgiche, sia fuori di chiesa nelle varie solennità e celebrazioni. Infatti, le melodie di questi canti, composti per lo più in lingua volgare, si fissano nella memoria quasi senza sforzo e fatica e nello stesso tempo anche le parole e i concetti si imprimono nella mente, sono spesso ripetuti e più profondamente vengono compresi. Ne segue che anche i fanciulli e le fanciulle, imparando nella tenera età questi canti sacri, sono molto aiutati a conoscere, a gustare e a ricordare le verità della nostra fede e così l’apostolato catechistico ne trae non lieve vantaggio. Questi canti religiosi, poi, agli adolescenti e agli adulti, mentre ricreano l’animo, offrono un puro e casto diletto, danno un certo tono di maestà religiosa ai convegni e alle adunanze più solenni, e anzi nelle stesse famiglie cristiane apportano santa letizia, dolce conforto e spirituale profitto. Per la qual cosa anche questo genere di musica religiosa popolare costituisce un valido aiuto per l’apostolato cattolico, e quindi deve con ogni cura essere coltivato e sviluppato.

Pertanto, quando esaltiamo i pregi molteplici della musica sacra e la sua efficacia nei riguardi dell’apostolato, facciamo cosa che può tornare di sommo gaudio e conforto a tutti coloro che in qualsiasi maniera si sono dedicati a coltivarla e a promuoverla. Infatti, quanti o compongono musica, secondo il proprio talento artistico, o la dirigono, o la eseguono sia vocalmente sia per mezzo di strumenti musicali, tutti costoro senza dubbio esercitano un vero e proprio apostolato, anche se in modo vario e diverso, e riceveranno perciò in abbondanza da Cristo Signore le ricompense e gli onori riservati agli apostoli, nella misura con cui ognuno avrà fedelmente adempiuto il suo ufficio. Essi perciò stimino grandemente questa loro mansione, in virtù della quale non sono solamente artisti e maestri di arte, ma anche ministri di Cristo Signore e collaboratori nell’apostolato, e si sforzino di manifestare anche con la condotta della vita la dignità di questo loro ufficio.

III

Tale essendo, come abbiamo ora detto, la dignità e l’efficacia della musica sacra e del canto religioso, è oltremodo necessario curarne diligentemente la struttura in ogni parte, per ricavarne utilmente i salutari frutti.

È necessario anzitutto che il canto e la musica sacra, più intimamente congiunti con il culto liturgico della chiesa, raggiungano l’alto fine loro prefisso. Perciò tale musica – come già saggiamente ammoniva il Nostro predecessore san Pio X – “deve possedere le qualità proprie della liturgia, in primo luogo la santità e la bontà della forma; onde di per sé si raggiunge un’altra caratteristica, la universalità”.(14)

Deve essere santa; non ammetta in sé ciò che sa di profano, né permetta che si insinui nelle melodie con cui viene presentata. A questa santità soprattutto si presta il canto gregoriano, che da tanti secoli si usa dalla chiesa, sì da poterlo dire di suo patrimonio. Questo canto, per la intima aderenza delle melodie con le parole del sacro testo, non solo vi si addice pienamente; ma sembra quasi interpretarne la forza e l’efficacia, istillando dolcezza all’animo di chi ascolta; e ciò con mezzi musicali semplici e facili, ma pervasi di così sublime e santa arte, da suscitare in tutti sentimenti di sincera ammirazione e da divenire per gli stessi intenditori e maestri di musica sacra fonte inesauribile di nuove melodie. Conservare con cura questo prezioso tesoro del canto gregoriano e farne ampiamente partecipe il popolo spetta a tutti coloro, ai quali Gesù Cristo affidò di custodire e di dispensare le ricchezze della chiesa. Però, quello che i Nostri predecessori san Pio X, a buon diritto chiamato restauratore del canto gregoriano,(15) e Pio XI(16) hanno sapientemente ordinato e inculcato, ancor Noi vogliamo e prescriviamo che si faccia, portando l’attenzione a quelle caratteristiche che sono proprie del genuino canto gregoriano; che cioè nella celebrazione dei riti liturgici si faccia largo uso di tale canto, e si provveda con ogni cura affinché sia eseguito con esattezza, dignità e pietà. Che se per le feste introdotte di recente si debbano comporre nuove melodie, ciò si faccia da maestri veramente competenti, in modo da osservare fedelmente le leggi proprie del vero canto gregoriano e le nuove composizioni gareggino per valore e purezza con le antiche.

Se queste norme saranno realmente osservate in tutto, si verrà altresì a soddisfare nel modo dovuto a un’altra proprietà della musica sacra, che sia cioè vera arte; e se in tutte le chiese cattoliche del mondo risonerà incorrotto e integro il canto gregoriano, esso pure, come la liturgia romana, avrà la nota di universalità, in modo che i fedeli in qualunque parte del mondo sentano come familiari e quasi di casa propria quelle armonie, sperimentando così con spirituale conforto la mirabile unità della chiesa. È questo uno dei motivi principali per cui la chiesa mostra così vivo desiderio che il canto gregoriano sia intimamente legato con le parole latine della sacra liturgia.

Sappiamo bene che dalla stessa sede apostolica sono state concesse al riguardo per gravi motivi alcune ben determinate eccezioni, le quali peraltro vogliamo che non siano estese e applicate ad altri casi, senza la debita licenza della medesima Santa Sede. Anzi anche là dove ci si può avvalere di tali concessioni, gli ordinari e gli altri sacri pastori curino attentamente che i fedeli fin dall’infanzia imparino le melodie gregoriane più facili e più in uso e se ne sappiano valere nei sacri riti liturgici, di modo che anche in ciò sempre più risplenda l’unità e l’universalità della chiesa.

Dove, tuttavia, una consuetudine secolare o immemorabile permette che nel solenne sacrificio eucaristico, dopo le parole liturgiche cantate in latino, si inseriscano alcuni canti popolari in lingua volgare, gli ordinari permetteranno ciò “qualora giudichino che, per le circostanze di luogo e di persone, tale (consuetudine) non possa prudentemente venire rimossa”,(17) ferma restando la norma che non si cantino in lingua volgare le parole stesse della liturgia, come già sopra è stato detto.

Affinché poi i cantori e il popolo cristiano capiscano bene il significato delle parole liturgiche legate alla melodia musicale, facciamo Nostra l’esortazione rivolta dai padri del concilio di Trento specialmente “ai pastori e ai singoli aventi cura di anime, che spesso durante la celebrazione della messa spieghino o direttamente o per mezzo di altri qualche parte di ciò che si legge nella messa, e tra l’altro illustrino qualche mistero di questo santo sacrificio, specialmente la domenica e nei giorni festivi”,(18) e ciò facciano soprattutto nel tempo in cui si spiega il catechismo al popolo cristiano. Ciò diviene più facile e agevole oggi che non nei secoli passati, perché si hanno le parole della liturgia tradotte in volgare e la loro spiegazione in manuali e libriccini, che, preparati da competenti in quasi tutte le nazioni, possono efficacemente aiutare e illuminare i fedeli, affinché anch’essi comprendano e quasi prendano parte a quanto dicono i ministri sacri in lingua latina.

È ovvio che quanto abbiamo qui esposto brevemente circa il canto gregoriano riguarda soprattutto il rito latino romano della chiesa; ma può rispettivamente applicarsi ai canti liturgici di altri riti, sia dell’occidente, come l’ambrosiano, il gallicano, il mozarabico, sia ai vari riti orientali. Tutti questi riti, infatti, mentre dimostrano la mirabile ricchezza della chiesa nell’azione liturgica e nelle formule di preghiera, d’altra parte per i diversi canti liturgici conservano tesori preziosi, che occorre custodire e impedirne non solo la scomparsa, ma anche ogni attenuazione e depravazione. Tra i più antichi e importanti documenti della musica sacra, hanno senza dubbio un posto considerevole i canti liturgici nei vari riti orientali, le cui melodie ebbero molto influsso nella formazione di quelle della chiesa occidentale, con i dovuti adattamenti all’indole propria della liturgia latina. È Nostro desiderio che una scelta di canti dei riti sacri orientali – a cui sta alacremente lavorando il Pontificio Istituto per gli studi orientali, con l’aiuto del Pontificio Istituto per la musica sacra – sia felicemente condotta a termine, tanto per la parte dottrinale quanto per quella pratica; di modo che i seminaristi di rito orientale, ben preparati anche nel canto sacro, divenuti un giorno sacerdoti, possano validamente contribuire anche in questo ad accrescere il decoro della casa di Dio.

Non è Nostra intenzione, con ciò che abbiamo detto per lodare e raccomandare il canto gregoriano, rimuovere dai riti della chiesa la polifonia sacra, la quale, purché ornata delle debite qualità, può giovare assai per la magnificenza del culto divino e per suscitare pii affetti nell’animo dei fedeli. È ben noto infatti che molti canti polifonici, composti soprattutto nel secolo XVI, risplendono per tale purezza d’arte e tale ricchezza di melodie, da essere del tutto degni di accompagnare e quasi illuminare i riti della chiesa. Che se la genuina arte della polifonia nel corso dei secoli a poco a poco è decaduta e non di rado vi si sono mescolate melodie profane, negli ultimi decenni, per l’opera indefessa di insigni maestri, essa felicemente si è come rinnovata, con un più accurato studio delle opere degli antichi maestri, proposte all’imitazione ed emulazione degli odierni compositori.

In tal modo avviene che nelle basiliche, nelle cattedrali, nelle chiese dei religiosi si possono eseguire sia i capolavori degli antichi maestri sia composizioni polifoniche di autori recenti, con decoro del sacro rito; sappiamo anzi che anche nelle chiese minori non di rado si eseguono canti polifonici più semplici, ma composti con dignità e vero senso d’arte. La chiesa favorisce tutti questi sforzi; essa, infatti, secondo le parole del Nostro predecessore di b. m. san Pio X, “sempre ha favorito il progresso delle arti e lo ha aiutato, accogliendo nell’uso religioso tutto ciò che l’ingegno umano ha creato di buono e di bello nel corso dei secoli, purché restassero salve le leggi liturgiche”.(19) Queste leggi esigono che su questa importante materia si usi ogni prudenza e si abbia ogni cura, affinché non si introducano in chiesa canti polifonici che, per il modo turgido e ampolloso, o vengano a oscurare con la loro prolissità le parole sacre della liturgia o interrompano l’azione del sacro rito oppure avviliscano l’abilità dei cantori con disdoro del culto divino.

Queste norme devono applicarsi altresì all’uso dell’organo e degli altri strumenti musicali. Fra gli strumenti a cui è aperto l’adito al tempio viene a buon diritto in primo luogo l’organo, perché è particolarmente adatto ai canti sacri e sacri riti e dà alle cerimonie della chiesa notevole splendore e singolare magnificenza, commuove l’animo dei fedeli con la gravità e la dolcezza del suono, riempie la mente di gaudio quasi celeste ed eleva fortemente a Dio e alle cose celesti.

Oltre l’organo vi sono altri strumenti che possono efficacemente venire in aiuto a raggiungere l’alto fine della musica sacra, purché non abbiano nulla di profano, di chiassoso, di rumoroso, cose disdicevoli al sacro rito e alla gravità del luogo. Tra essi vengono in primo luogo il violino e altri strumenti ad arco, i quali, o soli, o insieme con altri strumenti e con l’organo, esprimono con indicibile efficacia i sensi di mestizia o di gioia dell’animo. Del resto, circa le melodie musicali non ammissibili nel culto cattolico, già abbiamo parlato chiaramente nell’enciclica Mediator Dei. “Quando essi nulla abbiano di profano o disdicevole alla santità del luogo e dell’azione liturgica e non vadano in cerca dello stravagante e dello straordinario, abbiano pure accesso nelle nostre chiese, potendo contribuire non poco allo splendore dei sacri riti, a elevare l’animo verso l’alto e a infervorare la vera pietà dell’animo”.(20) È appena il caso di ammonire che, quando manchino la capacità e i mezzi per tanto impegno, è meglio astenersi da simili tentativi, piuttosto che fare cosa meno degna del culto divino e delle adunanze sacre.

A questi aspetti che hanno più stretto legame con la liturgia della chiesa si aggiungono, come abbiamo detto, i canti religiosi popolari, scritti per lo più in lingua volgare, i quali prendono origine dal canto liturgico stesso, ma, essendo più adatti all’indole e ai sentimenti dei singoli popoli, differiscono non poco tra di loro, secondo il carattere delle genti e l’indole particolare delle nazioni. Affinché tali canti religiosi portino frutto spirituale e vantaggio al popolo cristiano, devono essere pienamente conformi all’insegnamento della fede cristiana, esporla e spiegarla rettamente, usare un linguaggio facile e una melodia semplice, aborrire dalla profusione di parole gonfie e vuote e, infine, pur essendo brevi e facili, avere una certa religiosa dignità e gravità. Quando abbiano tali doti, questi canti sacri, sgorgati quasi dal più profondo dell’anima del popolo, commuovono fortemente i sentimenti e l’animo ed eccitano pii affetti; quando si cantano nelle funzioni religiose dalla folla radunata elevano l’animo dei fedeli alle cose celesti. Perciò, sebbene, come abbiamo detto, nelle messe cantate solenni non possono usarsi senza speciale permesso della Santa Sede, tuttavia nelle messe celebrate in forma non solenne possono mirabilmente giovare, affinché i fedeli assistano al santo sacrificio non tanto come spettatori muti e quasi inerti, ma, accompagnando l’azione sacra con la mente e con la voce, uniscano la propria devozione con le preghiere del sacerdote, purché tali canti siano ben adatti alle varie parti del sacrificio, come Ci è noto che già si fa in molte parti del mondo cattolico con grande gaudio.

Quanto alle cerimonie non strettamente liturgiche, tali canti religiosi, purché corrispondano alle condizioni suddette, possono egregiamente giovare ad attirare salutarmente il popolo cristiano, ad ammaestrarlo, a formarlo a sincera pietà ed a riempirlo di un santo gaudio; e ciò tanto nelle processioni e nei pellegrinaggi ai santuari, quanto pure nei congressi religiosi nazionali ed internazionali. Saranno utili in special modo quando si tratta di istruire nella verità cattolica i fanciulli e le fanciulle, così pure nelle associazioni giovanili e nelle adunanze dei pii sodalizi, come l’esperienza spesso chiaramente dimostra.

Non possiamo perciò fare a meno di esortare vivamente Voi, venerabili Fratelli, a volere con ogni cura e ogni mezzo favorire e promuovere questo canto popolare religioso nelle vostre diocesi. Non vi mancheranno uomini esperti, per raccogliere e riunire insieme, dove già non sia stato fatto, questi canti, perché da tutti i fedeli possano più facilmente venire imparati, cantati con speditezza e bene impressi nella memoria. Coloro cui è affidata la formazione religiosa dei fanciulli e delle fanciulle, non trascurino di avvalersi nel debito modo di questi validi aiuti, e gli assistenti della gioventù cattolica ne usino rettamente nel grave compito loro affidato. In tal modo si può sperare di ottenere anche un altro vantaggio, che è nel desiderio di tutti, che siano tolte di mezzo quelle canzoni profane che o per mollezza del ritmo o per le parole spesso voluttuose e lascive che lo accompagnano, sogliono essere pericolose ai cristiani, ai giovani specialmente, e siano sostituite da quelle altre che danno un piacere casto e puro e insieme nutrono la fede e la pietà; sicché già qui in terra il popolo cristiano incominci a cantare quel canto di lode che canterà eternamente nel cielo: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello sia benedizione, onore, gloria e potestà nei secoli dei secoli” (Ap 5,13).

Ciò che abbiamo esposto finora vale soprattutto per quelle nazioni appartenenti alla chiesa, nelle quali la religione cattolica è già saldamente stabilita. Nei paesi di missione non sarà certo possibile mettere tutto ciò in pratica, prima che sia cresciuto sufficientemente il numero dei cristiani, si siano costruite chiese spaziose, le scuole fondate dalla chiesa siano convenientemente frequentate dai figli dei cristiani e infine vi sia un numero di sacerdoti pari al bisogno. Tuttavia esortiamo vivamente gli operai apostolici, che faticano in quelle vaste estensioni della vigna del Signore, a volersi occupare seriamente, tra le gravi cure del loro ufficio, anche di questa incombenza. È meraviglioso vedere quanto si dilettino delle melodie musicali i popoli affidati alla cura dei missionari e quanta parte abbia il canto nelle cerimonie dedicate al culto degli idoli. Sarebbe pertanto improvvido che questo efficace sussidio per l’apostolato venisse tenuto in poco conto o addirittura trascurato dagli araldi di Cristo vero Dio. Perciò i messaggeri dell’evangelo nelle regioni pagane, nell’adempimento del loro ministero, dovranno largamente fomentare questo amore del canto religioso, che è coltivato dagli uomini affidati alle loro cure, in modo che questi popoli, ai canti religiosi nazionali, che non di rado vengono ammirati anche dalle nazioni civili, contrappongano analoghi canti sacri cristiani nei quali si esaltano le verità della fede, la vita del Signore Gesù Cristo, della beata Vergine e dei santi nella lingua e nelle melodie famigliari a quelle genti.

Si ricordino altresì i missionari che la chiesa cattolica, fin dai tempi antichi, inviando gli araldi dell’evangelo in regioni non ancora rischiarate dal lume della fede, insieme con i sacri riti ha voluto che essi portassero anche i canti liturgici, tra cui le melodie gregoriane, e ciò affinché i popoli da chiamare alla fede, allettati dalla dolcezza del canto, fossero più facilmente mossi ad abbracciare le verità della religione cristiana.

IV

Affinché tutto quello che, seguendo le orme dei Nostri predecessori, Noi in questa lettera enciclica abbiamo raccomandato o prescritto ottenga il desiderato effetto, voi, o venerabili fratelli, con premuroso impegno prenderete tutte quelle disposizioni che l’alto ufficio a voi affidato da Cristo e dalla chiesa vi impone e che, come risulta dall’esperienza, con grande frutto in molte chiese del mondo cristiano sono messe in pratica.

Innanzi tutto datevi cura perché nella chiesa cattedrale e, in quanto dalle circostanze è consentito, nelle maggiori chiese della vostra giurisdizione, ci sia una scelta Schola cantorum, la quale riesca agli altri di esempio e di stimolo a coltivare e a eseguire con diligenza il canto sacro. Dove poi non si possono avere le Scholae cantorum né si può adunare un conveniente numero di Pueri cantores, si concede che “un gruppo di uomini e di donne o fanciulle in luogo a ciò destinato, posto fuori della balaustra, possa cantare i testi liturgici della messa solenne, purché gli uomini siano del tutto separati dalle donne e fanciulle e sia evitato ogni inconveniente, onerata in ciò la coscienza degli ordinari”.(21)

Con grande sollecitudine è da provvedere che quanti nei seminari e negli istituti missionari religiosi si preparano ai sacri ordini, siano rettamente istruiti secondo le direttive della chiesa nella musica sacra e nella conoscenza teorica e pratica del canto gregoriano da maestri esperimentati in tali discipline, che apprezzino tradizioni e usi e ubbidiscano in tutto alle norme precettive della Santa Sede.

Che se tra gli alunni dei seminari e dei collegi religiosi ve ne sia qualcuno fornito di particolare tendenza e passione verso quest’arte, i rettori dei seminari o dei collegi non trascurino d’informarvi di questo, perché possiate offrirgli occasione di coltivare meglio tali doti e lo possiate inviare al Pontificio Istituto di musica sacra in questa città o in qualche altro ateneo del genere, purché si distingua per costumatezza e virtù e con ciò dia motivo a sperare che riuscirà ottimo sacerdote.

Oltre a ciò converrà provvedere che gli ordinari e i superiori maggiori degli istituti religiosi scelgano qualcuno del cui aiuto si servano in cosa di tanta importanza, a cui essi, fra tante e così gravi altre loro occupazioni, per forza di circostanze non potranno facilmente attendere. Cosa ottima a questo fine è che nel consiglio diocesano di arte sacra ci sia qualcuno esperto in musica sacra e in canto, che possa solertemente vigilare nella diocesi in tale campo e informare l’ordinario di quanto si è fatto e si debba fare e accogliere e far eseguire le sue prescrizioni e disposizioni. Che se in qualche diocesi esiste qualcuna di quelle associazioni che sono state sapientemente fondate per coltivare la musica sacra, e sono state lodate e raccomandate dai sommi pontefici, l’ordinario nella sua prudenza se ne potrà giovare per soddisfare alle responsabilità di tale suo ufficio.

Tali pii sodalizi, costituiti per l’istruzione del popolo nella musica sacra o per approfondire la cultura di quest’ultima, i quali con la diffusione delle idee e con l’esempio molto possono contribuire a dare incremento al canto sacro, sosteneteli, o venerabili fratelli, e promoveteli col vostro favore, perché essi fioriscano di vigorosa vita e ottengano ottimi valenti maestri, e in tutta la diocesi diligentemente diano sviluppo alla musica sacra e all’amore e alla consuetudine dei canti religiosi, con la debita obbedienza alle leggi della chiesa e alle Nostre prescrizioni.

*****

Tutto questo, mossi da una sollecitudine tutta paterna, abbiamo voluto trattare con una certa ampiezza; e nutriamo piena fiducia che voi, venerabili fratelli, rivolgerete tutta la vostra cura pastorale a tale questione d’interesse religioso, molto importante per la celebrazione più degna e più splendida del culto divino. Quelli poi che nella chiesa, sotto la vostra condotta, hanno nelle loro mani la direzione di quanto concerne la musica, speriamo che da questa Nostra lettera enciclica troveranno incitamento a promuovere con nuovo appassionato ardore e con generosità operosamente solerte tale importante apostolato. Così, come auspichiamo, avverrà che arte tanto nobile molto apprezzata in tutte le epoche della chiesa, anche ai nostri giorni sarà coltivata in modo da essere ricondotta ai genuini splendori di santità e di bellezza e conseguirà perfezione sempre più alta, e col suo contributo produrrà questo felice effetto che i figli della chiesa con fede più ferma, con speranza più viva, con carità più ardente, rendano nelle chiese il dovuto omaggio di lodi a Dio uno e trino, e che anzi anche fuori degli edifici sacri, nelle famiglie e nei convegni cristiani, si avveri quello che san Cipriano a Donato faceva oggetto di una famosa esortazione: “Risuoni di salmi il sobrio banchetto: e se hai tenace memoria e voce canora, assumiti questo ufficio secondo l’invalsa consuetudine: tu a persone a te carissime offri maggior nutrimento, se da parte nostra c’è un’audizione spirituale e se la dolcezza religiosa diletta il nostro udito”.(22)

Frattanto nell’attesa di risultati sempre più ricchi e lieti, che speriamo avranno origine da questa Nostra esortazione, in attestato del Nostro paterno affetto e in auspicio di doni celesti, impartiamo con effusione d’animo la benedizione apostolica a voi, venerabili fratelli, a quanti presi singolarmente e collettivamente appartengono al gregge a voi affidato, e in modo particolare a coloro che, assecondando i Nostri voti, si curano di dare incremento alla musica sacra.

Roma, presso San Pietro, 25 dicembre, Natale di nostro Signore Gesù Cristo, nell’anno 1955, XVII del Nostro pontificato.

PIO PP. XII

Motu proprio “TRA LE SOLLECITUDINI” di San Pio X sulla Musica Sacra

MOTU PROPRIO
TRA LE SOLLECITUDINI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO X
SULLA MUSICA SACRA

22 novembre 1903 

Tra le sollecitudini dell’officio pastorale, non solamente di questa Suprema Cattedra, che per inscrutabile disposizione della Provvidenza, sebbene indegni, occupiamo, ma di ogni Chiesa particolare, senza dubbio è precipua quella di mantenere e promuovere il decoro della Casa di Dio, dove gli augusti misteri della religione si celebrano e dove il popolo cristiano si raduna, onde ricevere la grazia dei Sacramenti, assistere al santo Sacrificio dell’Altare, adorare l’augustissimo Sacramento del Corpo del Signore ed unirsi alla preghiera comune della Chiesa nella pubblica e solenne officiatura liturgica.

Nulla adunque deve occorrere nel tempio che turbi od anche solo diminuisca la pietà e la devozione dei fedeli, nulla che dia ragionevole motivo di disgusto o di scandalo, nulla soprattutto che direttamente offenda il decoro e la santità delle sacre funzioni e però sia indegno della Casa di Orazione e della maestà di Dio.

Non tocchiamo partitamente degli abusi che in questa parte possono occorrere. Oggi l’attenzione Nostra si rivolge ad uno dei più comuni, dei più difficili a sradicare e che talvolta si deve deplorare anche là dove ogni altra cosa è degna del massimo encomio per la bellezza e sontuosità del tempio, per lo splendore e per l’ordine accurato delle cerimonie, per la frequenza del clero, per la gravità e per la pietà dei ministri che celebrano. Tale è l’abuso nelle cose del canto e della musica sacra. Ed invero, sia per la natura di quest’arte per sé medesima fluttuante e variabile, sia per la successiva alterazione del gusto e delle abitudini lungo il correr dei tempi, sia per funesto influsso che sull’arte sacra esercita l’arte profana e teatrale, sia pel piacere che la musica direttamente produce e che non sempre torna facile contenere nei giusti termini, sia infine per i molti pregiudizi che in tale materia di leggeri si insinuano e si mantengono poi tenacemente anche presso persone autorevoli e pie, v’ha una continua tendenza a deviare dalla retta norma, stabilita dal fine, per cui l’arte è ammessa al servigio del culto, ed espressa assai chiaramente nei canoni ecclesiastici, nelle Ordinazioni dei Concilii generali e provinciali, nelle prescrizioni a più riprese emanate dalle Sacre Congregazioni romane e dai Sommi Pontefici Nostri Predecessori.

Con vera soddisfazione dell’animo Nostro Ci è grato riconoscere il molto bene che in tal parte si è fatto negli ultimi decenni anche in questa Nostra alma Città di Roma ed in molte Chiese della patria Nostra, ma in modo più particolare presso alcune nazioni, dove uomini egregi e zelanti dal culto di Dio, con l’approvazione di questa Santa Sede e sotto la direzione dei Vescovi, si unirono in fiorenti Società e rimisero in pienissimo onore la musica sacra pressoché in ogni loro chiesa e cappella. Codesto bene tuttavia è ancora assai lontano dall’essere comune a tutti, e se consultiamo l’esperienza Nostra personale e teniamo conto delle moltissime lagnanze che da ogni parte Ci giunsero in questo poco tempo, dacché piacque al Signore di elevare l’umile Nostra Persona al supremo apice del Pontificato romano, senza differire più a lungo, crediamo Nostro primo dovere di alzare subito la voce a riprovazione e condanna di tutto ciò che nelle funzioni del culto e nell’offìciatura ecclesiastica si riconosce difforme dalla retta norma indicata.

Essendo, infatti, Nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca per ogni modo e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa. Ed è vano sperare che a tal fine su noi discenda copiosa la benedizione del Cielo, quando il nostro ossequio all’Altissimo, anziché ascendere in odore di soavità, rimette invece nella mano del Signore i flagelli, onde altra volta il Divin Redentore cacciò dal tempio gli indegni profanatori.
Per la qual cosa, affinché niuno possa d’ora innanzi recare a scusa di non conoscere chiaramente il dover suo e sia tolta ogni indeterminatezza nell’interpretazione di alcune cose già comandate, abbiamo stimato espediente additare con brevità quei principii che regolano la musica sacra nelle funzioni del culto e raccogliere insieme in un quadro generale le principali prescrizioni della Chiesa contro gli abusi più comuni in tale materia.

E però di moto proprio e certa scienza pubblichiamo la presente Nostra Istruzione, alla quale, quasi a codice giuridico della musica sacra, vogliamo dalla pienezza della Nostra Autorità Apostolica sia data forza di legge, imponendone a tutti col presente Nostro Chirografo la più scrupolosa osservanza.

ISTRUZIONE SULLA MUSICA SACRA

I Principii generali.

1. La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione e edificazione dei fedeli. Essa concorre ad accrescere il decoro e lo splendore delle cerimonie ecclesiastiche, e siccome suo officio principale è dì rivestire con acconcia melodia il testo liturgico che viene proposto all’intelligenza dei fedeli, così il suo proprio fine è di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo, affinché i fedeli con tale mezzo siano più facilmente eccitati alla devozione e meglio si dispongano ad accogliere in sé i frutti della grazia, che sono propri della celebrazione dei sacrosanti misteri.

2. La musica sacra deve per conseguenza possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità.

Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori.

Deve essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull’animo di chi l’ascolta quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni.
Ma dovrà insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione all’udirle debba provarne impressione non buona.

II Generi di musica sacra.

3. Queste qualità si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto ch’essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza.

Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme.

L’antico canto gregoriano tradizionale dovrà dunque restituirsi largamente nelle funzioni del culto, tenendosi da tutti per fermo, che una funzione ecclesiastica nulla perde della sua solennità, quando pure non venga accompagnata da altra musica che da questo Soltanto.

In particolare si procuri di restituire il canto gregoriano nell’uso del popolo, affinché i fedeli prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura ecclesiastica, come anticamente solevasi.

4. Le anzidette qualità sono pure possedute in ottimo grado dalla classica polifonia, specialmente della Scuola Romana, la quale nel secolo XVI ottenne il massimo della sua perfezione per opera di Pier Luigi da Palestrina e continuò poi a produrre anche in seguito composizioni di eccellente bontà liturgica e musicale. La classica polifonia assai bene si accosta al supremo modello di ogni musica sacra che è il canto gregoriano, e per questa ragione meritò di essere accolta insieme col canto gregoriano, nelle funzioni più solenni della Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia. Dovrà dunque anche essa restituirsi largamente nelle funzioni ecclesiastiche, specialmente nelle più insigni basiliche, nelle chiese cattedrali, in quelle dei seminari e degli altri istituti ecclesiastici, dove i mezzi necessari non sogliono fare difetto.

5. La Chiesa ha sempre riconosciuto e favorito il progresso delle arti, ammettendo a servizio del culto tutto ciò che il genio ha saputo trovare di buono e di bello nel corso dei secoli, salve però sempre le leggi liturgiche. Per conseguenza la musica più moderna è pure ammessa in chiesa, offrendo anch’essa composizioni di tale bontà, serietà e gravità, che non sono per nulla indegne delle funzioni liturgiche.

Nondimeno, siccome la musica moderna è sorta precipuamente a servigio profano, si dovrà attendere con maggior cura, perché le composizioni musicali di stile moderno, che si ammettono in chiesa, nulla contengano di profano, non abbiano reminiscenze di motivi adoperati in teatro, e non siano foggiate neppure nelle loro forme esterne sull’andamento dei pezzi profani.

6. Fra i vari generi della musica moderna, quello che apparve meno acconcio ad accompagnare le funzioni del culto è lo stile teatrale, che durante il secolo scorso fu in massima voga, specie in Italia. Esso per sua natura presenta la massima opposizione al canto gregoriano ed alla classica polifonia e però alla legge più importante di ogni buona musica sacra. Inoltre l’intima struttura, il ritmo e il cosiddetto convenzionalismo di tale stile non si piegano, se non malamente, alle esigenze della vera musica liturgica.

III Testo liturgico.

7. La lingua propria della Chiesa Romana è la latina. È quindi proibito nelle solenni funzioni liturgiche di cantare in volgare qualsivoglia cosa; molto più poi di cantare in volgare le parti variabili o comuni della Messa e dell’Officio.

8. Essendo per ogni funzione liturgica determinati i testi che possono proporsi in musica, e l’ordine con cui devono proporsi, non è lecito né di confondere quest’ordine, né di cambiare i testi prescritti in altri di propria scelta, né di ometterli per intero od anche solo in parte, se pure le rubriche liturgiche non consentano di supplire con l’organo alcuni versetti del testo, mentre questi vengono semplicemente recitati in coro. Soltanto è permesso, giusta la consuetudine della Chiesa Romana, di cantare un mottetto al SS. Sacramento dopo il Benedictus della Messa solenne. Si permette pure che, dopo cantato il prescritto offertorio della Messa, si possa eseguire, nel tempo che rimane, un breve mottetto sopra parole approvate dalla Chiesa.

9. Il testo liturgico deve essere cantato come sta nei libri, senza alterazione o posposizione di parole, senza indebite ripetizioni, senza spezzarne le sillabe e sempre in modo intelligibile ai fedeli che ascoltano.

IV Forma esterna delle sacre composizioni

10. Le singole parti della Messa e dell’officiatura devono conservare anche musicalmente quel concetto e quella forma che la tradizione ecclesiastica ha loro dato, e che trovasi assai bene espressa nel canto gregoriano. Diverso dunque è il modo di comporre un introito, un graduale, un’antifona, un salmo, un inno, un Gloria in excelsis, ecc.

11. In particolare si osservino le norme seguenti:
a) Il Kyrie, Gloria, Credo, ecc. della Messa devono mantenere l’unità di composizione, propria del loro testo. Non è dunque lecito di comporli a pezzi separati, così che ciascuno di tali pezzi formi una composizione musicale compiuta e tale che possa staccarsi dal rimanente e sostituirsi con altra.

b) Nell’officiatura dei Vesperi si deve ordinariamente seguire la norma del Caerimoniale Episcoporum, che prescrive il canto gregoriano per la salmodia, e permette la musica figurata per i versetti del Gloria Patri e per l’inno.

Sarà nondimeno lecito, nelle maggiori solennità, di alternare il canto gregoriano del coro coi cosiddetti falsibordoni o con versi in simile modo convenientemente composti.

Si potrà eziandio concedere qualche volta che i singoli salmi si propongano per intero in musica, purché in tali composizioni sia conservata la forma propria della salmodia; cioè, purché i cantori sembrino salmeggiare tra loro, o con nuovi motivi, o con quelli presi dal canto gregoriano, o secondo questo imitati.

Restano dunque per sempre esclusi e proibiti i salmi cosiddetti di concerto.

c) Negli inni della Chiesa si conservi la forma tradizionale dell’inno. Non è quindi lecito di comporre p. es. il Tantum ergo per modo che la prima strofa presenti una romanza, una cavatina, un adagio, e il Genitori un allegro.

d) Le antifone dei Vesperi devono essere proposte d’ordinario con la melodia gregoriana loro propria. Se però in qualche caso particolare si cantassero in musica, non dovranno mai avere né la forma di una melodia di concerto, né l’ampiezza di un mottetto e di una cantata.

V Cantori.

12. Tranne le melodie proprie del celebrante all’altare e dei ministri, le quali devono essere sempre in solo canto gregoriano senza alcun accompagnamento d’organo, tutto il resto del canto liturgico è proprio del coro dei leviti, e però i cantori di chiesa, anche se sono secolari, fanno propriamente le veci del coro ecclesiastico. Per conseguenza le musiche che propongono devono, almeno nella loro massima parte, conservare il carattere di musica da coro.

Con ciò non s’intende del tutto esclusa la voce sola. Ma questa non deve mai predominare nella funzione, così che la più gran parte del testo liturgico sia in tale modo eseguita; piuttosto deve avere il carattere di semplice accenno o spunto melodico ed essere strettamente legata al resto della composizione a forma di coro.

13. Dal medesimo principio segue che i cantori hanno in chiesa vero officio liturgico e che però le donne, essendo incapaci di tale officio, non possono essere ammesse a far parte del Coro o della cappella musicale. Se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa.

14. Per ultimo non si ammettano a far parte della cappella di chiesa se non uomini di conosciuta pietà e probità di vita, i quali, col loro modesto e devoto contegno durante le funzioni liturgiche, si mostrino degni del santo officio che esercitano. Sarà pure conveniente che i cantori, mentre cantano in chiesa, vestano l’abito ecclesiastico e la cotta, e se trovansi in cantorie troppo esposte agli occhi del pubblico, siano difesi da grate.

VI Organo ed instrumenti musicali.

15. Sebbene la musica propria della Chiesa sia la musica puramente vocale, nondimeno è permessa eziandio la musica con accompagnamento d’organo. In qualche caso particolare, nei debiti termini e coi convenienti riguardi, potranno anche ammettersi altri strumenti, ma non mai senza licenza speciale dell’Ordinario, giusta la prescrizione del Caerimoniale Episcoporum.

16. Siccome il canto deve sempre primeggiare, così l’organo o gli strumenti devono semplicemente sostenerlo e non mai opprimerlo.

17. Non è permesso di premettere al canto lunghi preludi o d’interromperlo con pezzi di intermezzo.

18. Il suono dell’organo negli accompagnamenti del canto, nei preludi, interludi e simili, non solo deve essere condotto secondo la propria natura di tale strumento, ma deve partecipare di tutte le qualità che ha la vera musica sacra e che si sono precedentemente annoverate.

19. È proibito in chiesa l’uso del pianoforte, come pure quello degli strumenti fragorosi o leggeri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti, i campanelli e simili.

20. È rigorosamente proibito alle cosiddette bande musicali di suonare in chiesa; e solo in qualche caso speciale, posto il consenso dell’Ordinario, sarà permesso di ammettere una scelta limitata, giudiziosa e proporzionata all’ambiente, di strumenti a fiato, purché la composizione e l’accompagnamento da eseguirsi sia scritto in stile grave, conveniente e simile in tutto a quello proprio dell’organo.

21. Nelle processioni fuori di chiesa può essere permessa dall’Ordinario la banda musicale, purché non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani. Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il concerto musicale si restringesse ad accompagnare qualche cantico spirituale in latino o volgare, proposto dai cantori o dalle pie Congregazioni che prendono parte alla processione.

VII Ampiezza della musica liturgica.

22. Non è lecito, per ragione del canto o del suono, fare attendere il sacerdote all’altare più di quello che comporti la cerimonia liturgica. Giusta le prescrizioni ecclesiastiche, il Sanctus della Messa deve essere compiuto prima della elevazione, e però anche il celebrante deve in questo punto avere riguardo ai cantori. Il Gloria ed il Credo, giusta la tradizione gregoriana, devono essere relativamente brevi.

23. In generale è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella.

VIII Mezzi precipui

24. Per l’esatta esecuzione di quanto viene qui stabilito, i Vescovi, se non l’hanno già fatto, istituiscano nelle loro diocesi una Commissione speciale di persone veramente competenti in cose di musica sacra, alla quale, nel modo che giudicheranno più opportuno, sia affidato l’incarico d’invigilare sulle musiche che si vanno eseguendo nelle loro chiese. Né badino soltanto che le musiche siano per sé buone, ma che rispondano altresì alle forze dei cantori e vengano sempre bene eseguite.

25. Nei seminari dei chierici e negli istituti ecclesiastici, giusta le prescrizioni tridentine, si coltivi da tutti con diligenza ed amore il prelodato canto gregoriano tradizionale, ed i superiori siano in questa parte larghi di incoraggiamento e di encomio coi loro giovani sudditi. Allo stesso modo, dove torni possibile, si promuova tra i chierici la fondazione di una Schola Cantorum per l’esecuzione della sacra polifonia e della buona musica liturgica.

26. Nelle ordinarie lezioni di liturgia, di morale, di ius canonico che si danno agli studenti di teologia, non si tralasci di toccare quei punti che più particolarmente riguardano i principii e le leggi della musica sacra, e si cerchi di compierne la dottrina con qualche particolare istruzione circa l’estetica dell’arte sacra, affinché i chierici non escano dal seminario digiuni di tutte queste nozioni, pur necessarie alla piena cultura ecclesiastica.

27. Si abbia cura di restituire, almeno presso le chiese principali, le antiche Scholae Cantorum, come si è già praticato con ottimo frutto in buon numero di luoghi. Non è difficile al clero zelante d’istituire tali Scholae perfino nelle chiese minori e di campagna, anzi trova in esse un mezzo assai facile d’adunare intorno a sé i fanciulli e gli adulti, con profitto loro proprio e edificazione del popolo.

28. Si procuri di sostenere e promuovere in ogni miglior modo le scuole superiori di musica sacra dove già sussistono, e di concorrere a fondarle dove non si possiedono ancora. Troppo è importante che la Chiesa stessa provveda all’istruzione dei suoi maestri, organisti e cantori, secondo i veri principii dell’arte sacra.

IX Conclusione.

29. Per ultimo si raccomanda ai maestri di cappella, ai cantori, alle persone del clero, ai superiori dei seminari, degli istituti ecclesiastici e delle comunità religiose, ai parroci e rettori di chiese, ai canonici delle collegiate e delle cattedrali, e soprattutto agli Ordinari diocesani di favorire con tutto lo zelo queste sagge riforme, da molto tempo desiderate e da tutti concordemente invocate, affinché non cada in dispregio la stessa autorità della Chiesa, che ripetutamente le propose ed ora di nuovo le inculca

Il nuovo altare rivolto al popolo nelle chiese antiche: ambiguità, contraddizioni e forzature nella prassi e nella normativa.

di don Alfredo M. Morselli

Recentemente il Card. Kurt Koch[1], nel corso di una conferenza svolta presso la facoltà teologica dell’università di Friburgo[2], ha ribadito che “l’attuale odierna pratica liturgica non sempre trova il suo reale fondamento nel Concilio: per esempio, la celebrazione verso il popolo non è mai stata prescritta dal Concilio”[3].

Il Card. Joseph Ratzinger aveva scritto, in proposito, nel 2003:

Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l’altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo.

Non vi è nulla nel testo conciliare sull’orientamento dell’altare verso il popolo; quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis Missalis Romani, l’Introduzione Generale al nuovo Messale Romano pubblicata nel 1969, e afferma: «L’altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versus populum)».

Le Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza modifiche questa formulazione, tranne per l’aggiunta della clausola subordinata «la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile». In molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che dichiarò come la parola “expedit” (“è desiderabile”) non comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma che si deve distinguere l’orientamento fisico dall’orientamento spirituale. Anche se un sacerdote celebra versus populum, deve sempre essere orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù Cristo). Riti, simboli e parole non possono mai esaurire l’intima realtà del mistero della ed è per questo motivo che la ammonisce contro le posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito.

Si tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che, purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant’anni[4].

L’idea generalizzata secondo la quale c’è «un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”» ha fatto si che in quasi tutte le antiche chiese e cattedrali venisse costruito un nuovo altare maggiore senza rimuovere l’antico.

Ci chiediamo se ciò in realtà è coerente con la nuova normativa post-conciliare, o non sia piuttosto una forzatura, dovuta alle errate convinzioni che un nuovo altare rivolto al popolo sia obbligatorio e che questo non sia altro che l’indicazione del Concilio.

 

I – La prassi in contrasto con la normativa.

Vediamo cosa prescrive esattamente la normativa vigente:

Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso, realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l’attenzione dei fedeli dal nuovo altare[5].

La prassi abituale è in contrasto con la normativa perché questa prevede la possibilità di un secondo altare fisso soltanto in un caso particolare, ben definito (quando la partecipazione del popolo è resa difficile), mentre in pratica un nuovo altare è stato collocato in quasi tutte le chiese antiche.

La gravità di questa generalizzazione sta tutta nel suo presupposto implicito: con la celebrazione verso l’abside la partecipazione attiva sarebbe sempre resa difficile.

E qui notiamo un duplice errore: in primo luogo si dimentica che partecipazione attiva nella liturgia è la partecipazione al Sacrificio di Cristo.

Scriveva il Card.  Joseph Ratzinger nel 1999:

Il concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione liturgica l’espressione participatio actuosa, partecipazione attiva di tutti all’Opus Dei, al culto divino. […] In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa «actio» centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità[6].

 E qual è l’azione della liturgia ?

 La vera azione della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso[7].

Il Card. Joseph Ratzinger non ha certo detto, nelle sue pur profonde considerazioni, delle novità assolute. Questi stessi concetti erano già stati espressi da Pio XII, nel discorso Vous Nous avez demandé:

La liturgia della Messa ha come scopo di esprimere sensibilmente la grandezza del mistero che vi si compie, e gli sforzi attuali tendono a farvi partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente possibile. Benché questo intento sia giustificato, v’è pericolo di provocare una diminuzione della riverenza, se vien distolta l’attenzione dall’azione principale, per rivolgerla alla magnificenza di altre cerimonie.

   Qual è quest’azione principale del sacrificio eucaristico? Noi ne abbiamo parlato espressamente nell’Allocuzione del 2 novembre 1954. Noi riferivamo in primo luogo l’insegnamento del Concilio di Trento: «In divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus continetur et incruente immolatur, qui in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit… Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotum ministerio, qui se ipsum tunc in cruce obtulit, sola offerendi ratione diversa (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 2)» [8].

Commentiamo ora questo brano:

Giusti tutti gli sforzi che tendono a fare partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente… Ma… attenzione! – dice il Papa – , non si perda ciò che è principale, cioè la partecipazione all’Azione di Cristo!

Da un lato rimpiangiamo un po’ i pericoli di 50 anni fa: essere distolti dal cuore dell’azione liturgica dalla magnificenza delle cerimonie; oggi i pericoli sono i tanti ben peggiori abusi, accomunati da un comune denominatore: l’azione dell’assemblea viene a prevalere sull’azione di Cristo, sulla sua Immolazione Sacramentale, sul suo offrirsi: è a questa offerta che dobbiamo più che attivamente partecipare.

L’azione esterna, il fare, l’agire, non sono un valore assoluto, ma lo sono in tanto quanto ci permettono di unirci al Santo Sacrificio, tanto quanto ci permettono di essere quella gocciolina di acqua che il Sacerdote mette nel vino: questo gesto esprime come tutta la nostra vita viene sussunta nello stesso Sacrifico di Cristo, quel Sacrificio che realmente si riattualizza sull’Altare.

Se dunque la partecipazione liturgica è soprattutto l’unione al Sacrifico di Cristo, come è possibile che l’altare rivolto all’abside la renda difficoltosa? E come è possibile che per tanti secoli la Chiesa abbia creato difficoltà ai suoi figli in ciò che ha di più sacro? Eppure questo è il presupposto oggettivo della prassi generalizzata.

Vediamo ora il II errore: concediamo all’espressione partecipazione un significato meno tecnico, volendo indicare con essa semplicemente l’attenzione esteriore al rito, la partecipazione ai canti, il coinvolgimento nella gestualità: anche in questo caso, presupporre che, con l’altare rivolto verso l’abside, venga universalmente resa difficile la partecipazione del popolo (condizione necessaria – ricordiamo – per poter collocare un secondo altare fisso) è sempre una forzatura.

Scriveva a questo riguardo il Card. Giacomo Lercaro, in un documento ufficiale del Consilium ad exequendam Consitutionem de Sacra Liturgia:

In primo luogo, per una liturgia viva e partecipata non è necessario che l’altare sia rivolto al popolo. Tutta la liturgia della parola, nella messa, si celebra alle sedi o all’ambone, e dunque di fronte al popolo; per la liturgia eucaristica, le installazioni di microfoni, ormai comuni, aiutano sufficientemente alla partecipazione.

Inoltre bisogna tener conto della situazione architettonica e artistica la quale, in molti casi, è del resto protetta da severe leggi civili[9].

II – Altre forzature e incongruenze

Un secondo altare a tutti i costi rivolto al popolo, assunto nella prassi come principio della liturgia conciliare, mal si concilia con altri aspetti del rinnovamento liturgico e con altre norme. Almeno in due casi troviamo di fronte a delle vere e proprie acrobazie giuridiche.

1° principio disatteso: l’altare deve essere unico

Le norme in questo senso parlano chiaro; ecco un paio di esempi:

L’unico altare, presso il quale si riunisce come in un sol corpo l’assemblea dei fedeli, è segno dell’unico nostro Salvatore Gesù Cristo e dell’unica Eucarestia della Chiesa[10].

Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l’unico Cristo e l’unica Eucaristia della Chiesa[11].

Il noto liturgista, P. Matias Augé, per ribadire quanto – secondo lui – siano inopportuni gli altari laterali in una chiesa, evoca tutto il pathos di Sant’Ignazio d’Antiochia:

Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito” (Ai Magnesii VII,1)[12].

Ma se l’unicità dell’altare impedisce che si possa celebrare rivolti al popolo, allora ecco che un secondo altare diventa lecito. Che fare in questi casi: toglier le tovaglie e non adornare l’altare maggiore precedente. Una sorta di sbattezzo dell’altare.

Nel caso in cui l’altare preesistente venisse conservato, si eviti di coprire la sua mensa con la tovaglia e lo si adorni molto sobriamente, in modo da lasciare nella dovuta evidenza la mensa dell’unico altare per la celebrazione[13]

Ma, chiediamoci, è forse la tovaglia che rende un altare tale? Capolavori d’arte, adornati per secoli con tanta cura, con ricami, con fiori, con ceri, con tovaglie, ora lasciati nudi come non sono mai stati pensati da chi li ha fatti… e tutto perché l’altare deve essere unico, anche quando sono due.

2° principio disatteso: l’altare deve essere fisso

Conviene che in ogni chiesa ci sia l’altare fisso, che significa più chiaramente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva (Cf. 1Pt 2,4; Ef 2,20); negli altri luoghi, destinati alle celebrazioni sacre, l’altare può essere mobile.

L’altare si dice fisso se è costruito in modo da aderire al pavimento e non poter quindi venir rimosso; si dice invece mobile se lo si può trasportare[14].

E quando non si può celebrare rivolti al popolo, allora anche questo principio è derogato: si faccia l’altare mobile, che però deve essere definitivo.

L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbitèri, si studi, sempre d’intesa con le competenti Commissioni diocesane, l’opportunità di un altare «mobile» appositamente progettato e definitivo[15].

Qualora non sia possibile erigere un nuovo altare fisso, si studi comunque la realizzazione di un altare definitivo, anche se non fisso (cioè amovibile)[16].

Cosa vuol dire altare definitivo e mobile: che sia trasportabile ma che si sempre quello? Oppure che non sia murato definitivamente? Oppure che sia trasportabile, ma lasciato sempre al suo posto?

Questa indicazione sa tanto di acrobazia, per collocare in ogni caso un altare rivolto al popolo, anche quando c’è già un altare maggiore e quando la Sovrintendenza ai beni artistici non permette la costruzione di un nuovo altare fisso.

Conclusioni.

In base a quanto detto, l’idea dell’altare a tutti i costi rivolto al popolo, ritenuta generalmente – a torto – un principio conciliare per eccellenza, ha fatto sì che antiche chiese venissero adeguate indebitamente con un secondo altare fisso. Stando alla lettera della normativa, si tratta di un abuso: abuso pericoloso perché fa intendere che il modo di celebrare per tanti secoli abbia reso difficile la partecipazione del popolo alla liturgia.

Se il Concilio non ha mai parlato di celebrazione verso il popolo, l’idea che l’altare a tutti i costi debba essere ad esso rivolto, e il conseguente riadattamento forzoso degli antichi edifici di culto,  non sarà forse uno dei tristi effetti di ciò che Mons. Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiamato ideologia para-conciliarese il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità, ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento.  […] Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare[17].

Alla chiesa docente la risposta; a chi scrive, membro della chiesa discente, la possibilità di porre rispettosamente la domanda.


 [1] Attualmente presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e della Commissione per le Relazioni Religiose con gli Ebrei.

[2] http://www.oecumene.radiovaticana.org/ted/Articolo.asp?c=558608, visitato l’8 febbraio 2012.

[3] “Allerdings lasse sich nicht alles, was heute liturgische Praxis sei, durch Konzilstexte begründen. So sei beispielsweise nirgends die Rede davon, dass der Priester die Eucharistie den Gottesdienstteilnehmern zugewandt leite”.

[4] J. Ratzinger, prefazione a U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Siena: Cantagalli, 2006, p. 7.

[5] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 303.

[6] Joseph Ratzinger, Introduzione alla Spirito della Liturgia, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2001, p.167.

[7] Ibidem, p. 169.

[8] Discorso ai partecipanti al 1° Congresso internazionale di Liturgia Pastorale”, del 22 settembre 1956: la traduzione è presa da: Insegnamenti Pontifici, vol VIII, Roma: Pia Società San Paolo, 1959/2, pp. 354-374, passim.

[9] Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, Lettre circulaire aux Présidents des Conférences Episcopales L’heureux dévelopment pour indiquer quleques problèmes qui ont été soulevés, 25 janvier 1966 : Notitiae 2 (1966), 157-161; EV 2, 610.

[10] Dedicazione della chiesa e dell’altare, Premesse, § 158.

[11] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 303.

[12] http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-gli-altari-laterali-69559200.html

[13] Nota pastorale della Commissione Episcopale per la Liturgia – CEI L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, § 17. Molto più decoroso quanto prescrive l’ordinamento generale al § 303: “Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l’attenzione dei fedeli dal nuovo altare”

[14] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 298.

[15]  Principi e norme per l’uso del Messale Romano Precisazioni della Conferenza Episcopale Italiana, § 14.

[16] L’adeguamento delle chiese… § 17.

[17] Aspetti della ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II, conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, fatta ai sacerdoti europei della Fraternità San Pietro il 2 luglio2010 a Wigratzbad; cf. http://www.fssp.org/it/pozzo2010.htm, visitato l’8 febbraio 2012.