Padre Pio sulla Santa Messa

«Padre che cos’è la vostra Messa?» 

«Un sacro miscuglio con la passione di Gesù. La mia responsabilità è unica al mondo».

«Cosa devo leggere nella vostra santa Messa?»

«Tutto quello che ha sofferto Gesù nella sua passione, indegnamente, lo soffro anch’io, per quanto è possibile a creatura umana».

«Agonizzate, Padre, come Gesù nell’orto?»

«Sicuramente».

«Viene pure a voi l’angelo a confortarvi?»

«Sì».

«Quale fiat pronunziate?»

«Di soffrire per i fratelli d’esilio e per il suo divin regno».

«Diceste pure: “e grideranno, crucifige, crucifige”. Chi griderà?»

«I figli degli uomini e proprio i beneficati».

«Come restò Gesù, dopo la flagellazione, Padre?»

«Il profeta lo dice: diventò una sola piaga, diventò un lebbroso».

«E allora anche voi siete tutto una piaga, dalla testa ai piedi?»

«E non è questa la nostra gloria? E se non ci sarà spazio, per fare altre piaghe nel corpo, faremo piaga su piaga».

«Padre quando siete flagellato, siete solo o vi assiste qualcuno? »

«Mi assiste la Vergine santa, è presente tutto il paradiso».

«Padre, Gesù mi ha fatto sentire che voi soffrite la coronazione di spine».

«Altrimenti l’immolazione non sarebbe completa».

«Le spine le avete sulla fronte o intorno al capo?»

«Intorno a tutto il capo».

«Padre, i peccatori vi tirano i capelli, come a Gesù?»

«Mi tirano pure le ossa».

«Padre, quanto soffrite nella santa Messa »

«Non te ne incaricare: nella Messa è tutto un crescendo, fino alla fine».

«Padre, nel divin sacrificio, prendete su di voi le nostre iniquità?»

«Non si può fare diversamente, perché fa parte del divin sacrificio… la condanna del peccatore cade su di me».

«Padre, vi ho visto tremare, mentre salivate i gradini dell’altare, perché? Per quello che dovevate soffrire?»

«Non per quello che dovevo soffrire, ma per quello che dovevo offrire».

«Padre, perché piangete, quando leggete il Vangelo, nella Messa?»

«E ti par poco un Dio che conversi con le sue creature? E che sia da loro contraddetto? E che sia continuamente ferito dalla loro ingratitudine e crudeltà?».

«Padre, perché piangete all’offertorio?»

«Vorresti strapparmi il segreto? E sia pure. Allora è il momento in cui l’anima viene separata dal profano». L’anima separata dal profano. L’entrata nel sacrum.

«Ditemelo, Padre, perché soffrite tanto nella consacrazione?»

«Perché è proprio lì che avviene una nuova mirabile distruzione e creazione». Il mondo, l’umanità vengono distrutti e creati nella Messa, in ogni Messa.

«Padre come vi reggete in piedi, sull’altare?»

«Come si reggeva Gesù sulla croce».

«Padre, i carnefici capovolsero la croce di Gesù, per ribattere i chiodi?»

«E come!».

«Pure a voi la capovolgono?»

«Sì, ma non aver paura».

«Padre, la santissima Vergine assiste alla vostra Messa?»

«E tu credi che la Madonna non si interessi del Figlio?».

«E gli angeli assistono, Padre?»

«A torme».

«Padre, recitate pure voi le sette parole che Gesù proferì sulla croce?»

«Sì, indegnamente, le recito pure io».

«E a chi dite “Donna ecco tuo figlio”?»

«Dico a Lei: Ecco i figli del tuo figlio».

«Soffrite la sete e l’abbandono di Gesù?»

«Sì».

«Gesù crocifisso aveva le viscere consumate?»

«Dì, piuttosto bruciate».

«Che faceva la Vergine ai piedi di Gesù crocefisso?»

«Soffriva nel veder soffrire suo figlio. Offriva le sue pene e i dolori di Gesù al Padre celeste per la nostra salvezza».

«Padre, come dobbiamo ascoltare la s. Messa?»

«Come vi assistettero la Santissima Vergine e le pie donne. Come assistette san Giovanni al sacrificio eucaristico e a quello cruento della croce».

«Padre, che benefici riceviamo ascoltando la s. Messa?»

«Non si possono enumerare. Li vedrete in Paradiso».

«Padre, che cos’è la santa Comunione?»

«È tutta una misericordia interna ed esterna, tutto un amplesso. Pregate pure che Gesù si faccia sentire sensibilmente».

«Dopo la comunione continuano le sofferenze?»

«Sì, sofferenze amorose».

«Nella santa Messa morite anche voi, Padre?»

«Misticamente nella santa comunione».

«È per veemenza di amore o di dolore che subite la morte?»

«Per l’uno e per l’altro: ma più per amore».

«Dove posò l’ultimo sguardo Gesù morente?»

«Sulla Madre sua».

«E voi dove lo posate?»

«Sui fratelli d’esilio».

«Padre avete detto che nella comunione la vittima muore. Nelle braccia della Madonna vi depongono?»

«Di san Francesco».

L’abito dei chierici

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di Don Alfredo Maria Morselli,
parroco di Stiatico e Casadio (BO)

 

Talare e clergyman non sono la stessa cosa

Oggi, quando si vede un sacerdote in clergyman, ci si rallegra, perché per lo meno ci si trova di fronte a un prete che obbedisce alle norme vigenti e non ha paura di mostrare la sua identità. Però però… non è la stessa cosa che vederlo in talare.

Uno certo falso spiritualismo gnostico oggi alla moda, una delle tante anime del neo-modernismo, tende a farci dimenticare la grandiosa portata simbolica della lunga veste nera.

Le riflessioni del Ven. Jean-Jacques Olier ci faranno senz’altro meglio capire quanto un santo prete debba essere, in un certo senso, un tutt’uno con il suo santo abito

Don Alfredo Morselli

Dell’abito dei chierici
del Ven. Jean-Jacques Olier
La veste talare e la cotta, che sono l’abito della religione di Gesù Cristo (1) sono l’espressione esteriore della professione da noi fatta, di rivestirci interiormente della religione di Cristo verso il suo divino Padre.
Questa è la dichiarazione che tutti chierici devono fare ai piedi del vescovo ricevendo il santo abito. Essi testimoniano così solennemente di dedicarsi a Dio in Cristo suo Figlio, per servirlo nella sua Chiesa, di prenderlo per unico retaggio, per unico bene, per loro tutto. Allora soltanto vengono rivestiti della cotta, dopo d’aver ricevuto la tonsura e d’esser stati rivestiti di una veste talare.
Tutte queste circostanze sono molto misteriose e devono essere considerate con seria attenzione da coloro che entrano nel chiericato. Le persone incaricate dell’istruzione dei chierici, porranno gran cura nel darne le spiegazioni. Da parte loro, i chierici devono desiderare ardentemente di conoscere ciò che esse significano (2); poiché vi riscontreranno i loro obblighi principali e le disposizioni speciali che sono loro necessarie per entrare in questo stato e per abbracciare questa santa professione.
 
L’abito col quale si presenta colui che aspira al chiericato è la santa veste talare. Questo abito è il segno esterno dell’anima disposta a entrare nella vita ecclesiastica (3).
Tutto ciò che esiste di esteriore nella Chiesa del Signore governata dal suo Spirito divino e dalla sua santa saggezza, esprime qualcosa di interiore che non potrebbe essere espressa che con qualche espressione o figura sensibile (4). Il corpo significa l’anima, in noi; e con i suoi gesti, con i suoi movimenti e con le sue azioni esso scopre quali sono le sue potenze intime che altrimenti resterebbero sconosciute.
Non si saprebbe mai che l’anima ha la potenzialità di vedere, di ascoltare, di parlare, se il corpo, con le sue funzioni dipendenti dall’anima, non facesse vedere ciò che essa è in se stessa (5).
Così Nostro Signore fa apparire nella Chiesa, per mezzo di cose esteriori, ciò che vi è di più nascosto nei suoi misteri (6); e mediante le vesti e gli ornamenti di cui ricopre i suoi ministri, le cerimonie con cui vela le sue opere, egli spiega ciò che l’uomo nuovo e il suo spirito divino operano nelle anime nostre.·
Ora, poiché di tutte le vesti dell’ecclesiastico la prima è la veste talare, venerabile abito proprio dello stato ecclesiastico e prescritto dai sacri canoni stessi (7), dobbiamo vederne il significato e ciò che la Chiesa intende esprimerci per suo mezzo.
La veste talare, che è un abito nero, significa la prima delle disposizioni che deve avere il chierico e la prima parte della religione del santo clero, che è d’essere morto ad ogni amore, ad ogni stima del mondo (8). La cotta, invece, rappresenta la seconda parte di questa stessa religione, che è di non vivere che per il Signore. Si ricopre di questo abito colui che si presenta a ricevere la tonsura, per insegnargli che deve essere talmente distaccato da ogni cosa terrena, da rassomigliare a un morto, non desiderando più che Dio, in confronto del quale non esiste nulla al mondo di amabile. Così del resto dichiara il chierico allorché, spogliandosi dell’ignominia dell’abito secolare, si ricopre di questa santa veste: egli dichiara pubblicamente in faccia a tutta la Chiesa, che intende di cambiare le proprie abitudini, i propri costumi, così come cambia d’abito (9); che non intende più viver della vita terrena, ma della vita celeste; che non conosce più che Dio, non stima altri che Lui, che Egli è il suo tutto e che il resto non gli è più nulla; infine, che vuol essere come i beati che, nella visione di Dio, non vedono più che lui, o che se vedono qualche altra cosa, qualche creatura, la vedono talmente in Dio, che essa è ai loro occhi piuttosto Dio che creatura.
L’abito del chierico che rivela come egli sia il perfetto religioso di Dio, entrato nella comunione e partecipazione della religione del cielo, è la cotta. Questo è il suo abito vero, perfetto, senza del quale non può compiere alcuna delle sue funzioni (10); di modo che egli non è considerato chierico rappresentante il proprio stato, che quando ne è rivestito. Se qualche volta non porta che la veste talare, questo avviene quando egli è nel secolo (11), indegno di vedere l’innocenza, la purezza, la santità e lo splendore del suo abito divino. E se non mostra che nero agli occhi del mondo, è per significare che è morto per esso, e che egli lo considera tanto miserabile che, per vivere nella giustizia e nella grazia, bisogna morire a ciò che esso’ è; tanto è vizioso e corrotto (12)!
L’ampiezza di questo abito non ci deve stupire (13); il prete rappresenta tutto il mondo; deve portare nel cuore la religione che aveva Cristo nel suo, che è la religione universale che egli offrì al suo Padre per supplemento di quella di tutta la sua Chiesa.
Egli amava, adorava, lodava il Padre per tutti gli uomini e per tutti gli angeli. Faceva per essi ciò che non potevano degnamente fare, di modo che suppliva a tutti (4). Così egli era il religioso universale, colui che pregava lodava e glorificava Dio per tutto il mondo.
Questo Egli continua a fare nel Cielo (15) e nel Santissimo Sacramento dell’Altare, dove rende a Dio tutti gli omaggi e i doveri della religione nel suo interiore, come la Chiesa glieli rende esteriormente sulla terra e glieli renderà egualmente nel Cielo. Ma poi che Nostro Signore, ascendendo al cielo e lasciando la terra, ha cessato di onorare esteriormente il suo divin Padre a nome di tutti gli uomini come visibilmente faceva sulla terra, così ha voluto lasciare dei successori della sua religione che continuassero a compiere gli stessi doveri verso Dio, Padre suo (16). E siccome questa religione è in lui per mezzo dello Spirito Santo, la cui virtù gli fa adorare Dio quanto lo può essere, egli ha voluto, dopo l’ascensione al cielo, mandare questo stesso Spirito ai suoi Apostoli ed ai suoi discepoli affinché continuasse a diffondere nei cuori come aveva fatto nel suo (17), una religione perfetta, santa, interiore, comprendente in sé i doveri e gli omaggi di tutto il mondo insieme.
Così, gli Apostoli e i Preti sono i successori di Gesù Cristo nella sua religione e non sono stabiliti se non per onorare Dio in nome di tutto il mondo (18).
Per questo, la veste talare è così ampia, a rappresentare quasi la sfericità e la distesa della terra: ciò che si raffigurava anticamente nella veste del sommo sacerdote che era pure amplissima per prefigurare l’immensità della religione di Gesù Cristo (19). Il pontefice nella antica legge, portava su di sé i nomi delle dodici tribù (20) per prefigurare l’eccellenza della religione del Figlio di Dio e la grandezza del suo amore verso il Padre che sorpassò quello di tutti gli uomini insieme; ed ancora per significare che i preti devono portare l’amore di tutti gli uomini nei loro cuori (21); che essi devono contenere nel cuore tutti gli omaggi, tutte le lodi di ogni fedele, e possedere nelle loro anime più religione verso Dio che tutte le creature insieme riunite. La santa veste talare è inoltre come un sudario che ci tiene sepolti e che esprime al vescovo lo stato di morte nel quale si trova il santo chierico che a lui si presenta. Dico sempre è dovunque santo, perché, come la Chiesa è un nuovo mondo e un mondo di santità, fatto soltanto per rappresentarci Dio e Gesù Cristo nelle loro eminenti perfezioni, nulla deve trovarsi in essa che non sia santo.
La santa veste talare significa dunque che il chierico è morto al secolo (22): come egli stesso protesta, quando dice di non voler più che Dio; Dominus pars hereditatis meae. Ed anche se non lo dicesse, parlerebbe del suo obbligo l’abito che indossa che, semplice e nero come è, esprime a chiunque che il chierico che lo porta è morto alla pompa ed al fasto del secolo (22) e che deve esserne separato nel cuore come lo è nell’abito (23).
L’abito talare ricopre tutto il corpo, a testimoniare che tutta la carne è morta e che il chierico che lo porta, reca in sé la morte di Cristo in tutte le sue membra. Necessità quindi che colui che è innalzato al santo stato ecclesiastico, faccia apparire, nella persona, la morte di Nostro Signore e le sue vittorie, e tutte le sue azioni lo proclamino e lo annuncino dappertutto (24). Dice San Paolo che tutti i cristiani devono essere circondati per tutto il loro coro po della morte di Gesù Cristo: Semper mortifìcationem Jesu in corpore nostro circumferentes (25). Questo è raffigurato dall’abito talare che, ricoprendo il chierico e circondandone il corpo, non lascia scorgere nulla di lui se non sotto un abito di morte (26).

Siccome essi sono interamente appartenenti a Gesù e si sono dati a Lui senza riserva nello stato clericale, non devono soltanto essere mortificati nella carne, nelle sue sregolatezze e nei suoi desideri, secondo la parola dell’Apostolo: Qui sunt Christi, carnem suam crucifìxerunt cum vitiis et concupiscentiis (27); ma ancora devono essere morti e sepolti con Gesù Cristo, per partecipare poi alla sua nuova vita. Anche questo esprime la veste talare. E come la crocifissione, la morte e la sepoltura precedono la risurrezione interiore, il vescovo vuol vedere un figliolo vestito della veste talare come di un lenzuolo funebre che ne ricopra tutto il corpo, che lo tenga seppellito, prima di dargli la cotta (28).

Il chierico, rivestito dalla veste talare nera, esprime la disposizione del suo spirito e il desiderio di vivere umiliato tutta la vita (29) e morto a tutto se stesso, dai piedi alla testa; non avendo più nulla in lui, né volontà, né giudizio, né passioni, come se la vecchia creatura d’Adamo morta in lui non gli lasciasse più alcun desiderio.
Un chierico deve così camminare nel mondo, portando la croce di Gesù Cristo esposta su se stesso: Crucifìgentes veterem hominem in semetipsis; di modo che nulla di carnale appaia vivente in lui. Ecco perché la veste talare è interamente chiusa e copre tutto il nostro corpo (30). È però vero che la testa non è nascosta sotto questo santo abito, come il resto del corpo; e ciò a significare che solo Gesù Cristo (31) deve apparire in noi: Viri caput Christus (32). Lo si deve vedere sulla nostra bocca: Si quis loquitur, quasi sermones Dei (33); colui che parla, dice San Pietro, deve parlare il linguaggio di Dio. Bisogna scorgere che Dio muove la sua lingua ed anima la sua parola (34). Il viso pure è scoperto, per testimoniare che il chierico deve essere, nei suoi costumi e nella sua condotta, una immagine della Divinità.
E se le mani appaiono, è perché il chierico deve far conoscere nelle sue azioni rappresentate dalle mani, che Dio opera in lui: Si quis ministrat, tamquam ex virtute quam administrat Deus(35).
Se il chierico opera, sia per potenza di Dio; sia Dio che lo muove e che gli comunica l’efficacia della sua azione; di modo che si vedano, nel suo corpo morto, le opere della vita dello spirito espresse dalle sue mani (36). II volto ben composto e la condotta di vita ben regolata, sono gli indizi ai quali riconosciamo che Dio abita nella mente e nell’anima del chierico. Modestia vestra nota sit omnibus hominibus: Dominus enim prope est. Che la vostra modestia, dice S. Paolo (37), sia conosciuta da tutti, per rispetto a Dio che vi sta vicino, e per causa dell’unione a Cristo che, risiedendo in voi, fa riflettere la sua modestia nel vostro aspetto esteriore (38).
Questo grande Dio, che ordina ogni cosa con tanta saggezza e che muove la creatura con tanto criterio, si rivela presente in un’anima per mezzo del contegno de} corpo (39). Se si riconosce la presenza di Dio nell’armonia del firmamento e nel moto dei corpi celesti, più facilmente si potrà discernere la presenza della sua maestà in un’anima che Egli guida, nel moto che Egli vi imprime (40).
Nulla resta dunque di scoperto in colui che è rivestito dell’abito talare all’infuori del viso e delle mani: questo significa che non deve più apparire in un chierico e in un prete che la vita divina, la vita di Gesù Cristo, che si rivela per mezzo delle parole e delle opere buone (41). Tutto il resto deve essere morto in lui; tutto deve essere sepolto come in una tomba (42). La vita di Dio solo, la vita della fede e della saggezza divina devono unicamente rifulgere in lui (43). E siccome la fede opera per mezzo della carità (44), le mani sono scoperte come il viso, a indicare la carità di Dio che opera in noi, e questa vita di fede che si manifesta nelle nostre azioni (45).
Quanto ai piedi, sono nascosti dalla veste talare: ciò significa la morte ai desideri ed alle affezioni terrene. I piedi, camminando, esprimono da quali sentimenti siano mossi, portandoci verso i luoghi e gli oggetti che ci piacciono (46); e siccome appunto queste affezioni e questi desideri mondani sono quelli che costituiscono la parte principale della nostra vita animale, devono essere mortificati e soffocati nei chierici, poiché essi non devono avere più che Gesù Cristo vivente nei loro spiriti, per trattenervi e comprimervi e seppellirvi la vecchia creatura (47). Tutto ciò che vi è in essi deve servire alla edificazione delle genti, e tutto, anche esteriormente, deve parlare dei misteri della nostra santa religione. La veste talare appunto annuncia al mondo il mistero della morte e sepoltura del vecchio uomo (48).
Questo abito nero dice eminentemente: – Morite a tutte le vanità del secolo (49), morite alle sue massime, al peccato, al demonio ed alla carne; morite, infine, a tutto ciò che non è Dio.
Per mezzo di questo abito che è ben differente da quello del mondo (50) il chierico rivela di aver deposti gli usi mondani, di non voler aver più rapporti col secolo, e di professare pubblicamente la sua opposizione ad ogni pompa o vanità. La semplicità, la modestia, il colore di questa santa veste proclamano tali sentimenti.
II chierico porta pure impresso sul viso. e in tutto il suo contegno il grado di mortificazione propria a cui è giunto (51).
Il suo volto è scoperto unicamente perché è l’immagine di Dio per il quale egli vive; ma siccome Dio, che è infinitamente superiore al mondo, vive in lui di una vita infinitamente sublime e al di sopra della terra, così il chierico deve avere scolpita sul viso un’espressione di grande elevazione al di sopra di tutte le creature, mostrando così quanto il mondo e tutto ciò che contiene siano sprezzabili ai suoi occhi (52).
L’ecclesiastico deve essere come cieco, in rapporto al mondo; non deve considerarne più né le bellezze né le rarità; deve essere come sordo alle sue notizie, calpestare tutte le sue pompe, condannare i suoi artifici; deve avere il cuore ben chiuso alle sue massime ed ai suoi sentimenti: in una parola, deve essere insensibile a tutto ciò che esso propone, poi che egli è ormai interiormente rivestito dell’uomo nuovo, questo uomo tutto di cielo, che più non vive sulla terra dove non trova più nulla degno di lui (53). Egli pregusta in tal modo le delizie di un altro mondo, dove Dio solo formerà la gioia, dove non apparirà più traccia di questo mondo volgare (54). Egli appartiene già a quell’altra generazione, a quell’altro mondo, più bello, più puro, mille volle più santo del presente. Egli non è più, come era nell’ordine naturale, il centro a cui converge tutta la volta del mondo, ma è il punto al quale converge tutta la Chiesa del Cielo che sopra lui riposa, che lo guarda e per il quale è stato formato tutto questo mondo superiore (55).
Bisogna dunque che noi ci consideriamo come persone fuori del mondo, viventi nel cielo (56), che conversano coi santi, che vivono nell’oblio, nell’avversione in un sovrano disdegno di tutto il mondo (57).
Bisogna che dimostriamo bene, a tutti, con la nostra condotta, vivendo e muovendoci nel mondo come Dio stesso (58), che c’è una vita molto migliore che ci aspetta nel cielo (59) dove già ci troviamo per la fede e dove già felicemente conversiamo con i santi.

 

NOTE

 
(1) Habitus religiosus Sidon., lib. 4, ep. 24. Conc. Meld. anno 845, c. 37.
(2) Quaeratur ex singulis an ritus et caeremonias, quae cum initiantur adhiberi solita sunt, noverint? an sanctiores illarum notiones? an sacrarum vestium, quibus induuntur, mysteria et significata? lnst. ad Ord. Eccl. suscip. in Eccl. Mediol. – Quaeratur quid per tonsuram significetur, quae fit in superiori capitis parte; quid per superpelliceum, quo c1erici induuntur, declaretur? Ibid. – Vestes ministrorum designant idoneitatem quae in eis requiritur ad tractandum divina. D. Thom. , Suppl, q. 40, a. 7, in corp.
(3) Etsi habitus non faciat monachum, in clerico tamen magnum indicium est, ut ait Salomon, eius quod in corde latet. Synodus Atheniens. ann 1571.
(4) Quaecumque in ecclesiasticis officiis rebus ac ornamentis consistunt, divinis plena sunt signis atque mysteriis. Dnrand. Divin. Offic. praem.
(5) Sicut accidentia multum conferunt ad cognoscendam rei ipsius quidditatem: ita habitus exterior plurimum confert ad declarandum ·morum honestatem. Synod. Venusin., anno 1589. – Haec (ornamenta) sunt virtutum insignia, quibus tanquam scripturis docentur utentes quales esse debeant. Hugo a S. Victor., Specul. Eccl., c. 6. .
(6) Considerare debet per symbola quam accipit gratiam. Sim. Thessalon., de Sacro Ordin., cap. 5.
(7) Conc. Basileens. Lateran. 5 sub Leone X, anno 1511, sess. 9: et alia passim.
(8) Nigra vestls insinuat humilitatem mentis; vile vestimentum denuntiat mundi contemptum, De modo bene vivendi, cap. 9: Op. S. Bernard., tom. 2. Omnia tanquam cinerem despielens, quasi mortuus prorsus ad mortuum immobilis permanebat. S. Chrysost., hom. 1, de laud. Pauli.
(9) Priorls vestis detractio, et alterius assumptio, slgnificat a media sancta vita ad perfeetiorem traduetionem. S. Dionys. , de Eccles. Hier., cap. 6. –Moneo te ut habitum, quem ostendis specie, impleas opere… Sanctus est habitus, sanctus sit animus. Sicut sancta sunt vestimenta, sic opera sancta sint. De modo bene vivendi, cap. 9: Op. S. Bernard., tom. 2.
(10) Caveant tam saeerdotes quam clerici, ne superpelliceo exuti clericalibus fungantur officiis. Synod. Capad. aquens, an., 1617, tit de Min. Eccl. c. 19.
(11) Ne cum superpelliceo per civitatem deambulantes vagentur. Synod. Vicens., anno 1628: tit. 13, de Vita et hon. Cleric., c. 3.
(12) Moriendum est mundo ut Deo in sempiternum vivamus. S. Aug, serm. 170, n. 9.
(13) Vestimentum amplum et longum, propter pietatem et divinam caritatem. Sim Thessalon., de Ord.
(14) Sese Deo ac Patri subjecit… et obedientiae suae odorem tanquam pro omnibus simul et singulis Deo et Patri obtulit. S. Cyril Alex., lib. 11, de Ador. in Spirit. et verit.
(15) Introivit in ipsum caelum, ut appareat nunc vultui Dei pro nobis, Hebr., 9, 24.
(16) Successori nel culto esterno e visibile, come si è detto più sopra: Sacerdotes Christi vicarios esse Christi et Christum. S. Chrysost., hom. 17, op. imp. in Matth., Suum relicturus erat eis ministerium. Id. in Joan., 20, hom. 86, al. 85 n. 2.
(17) Sicut misit me Pater, et ego mitto vos: Haec cum dixisset, insufflavit, et dixit eis: Accipite Spiritum sanctum. Joan., 22 et 23. Hac vocula sicut illos quodammodo slbi aequat, et pares efficit, scilicet proportionaliter ut suos successores et vicarios. Corn. a Lap. hic. – Sicut significat etiam similitudinem in fine: utrique enim missi sunt ad eundem finem. Id., ex S. Cyrill., lib. 12 in Joan., in ead. verb.
(18) Sacerdotes procuratores sunt apud Deum pro ejus Ecclesia. Guillel. Paris., de Sacro Ord. – Pro universo terrarum orbe deprecator est apud Deum. S. Chrysost., de Sacerd. t. 6, c. 4. – Non jura sua sed aliena allegat. Guillel. Paris., ibid.
(19) Amictus pontificis totius mundi quaedam imago fuit. Philo., de Vita Mosis., lb. 3.
(20) Portabit Aaron nomina filiorum Israel coram Domino super utrumque humerum. Exod. 28, 12. Portabit nomina filiorum Israel in rationali judictl super pectus suum quando ingredietur sanctuarium. Ibid., 29 .
(21) Est Aaron Christi figura, et Illius sacerdotii quod in spiritu et veritate intelllgitur. S. Cyr. Alex., lib. 11, de Ador. in spir. et verit.
(22) Clericatum elegistis, id est, mundo renuntiare, et cum habitu humilitatis, affectum promittere humilitatis, Ivo Carnot., serm. 2. De excell. sacro Ord. Pontif. Bibliot. Apost. exhort. ad Tonsur.
(23) Paupertatem et humlitatem profertis habitu corporis. Ibid.
(24) Sacerdotes constituti sunt per mundum, Christi narrare victorias. Petr. Dom. opusc. 18, contra Cleric. intemp. dissert. 1, c. 1.
(25) II Cor., 4, 10.
(26) Homines sacros tum interius tum exterus oportet mortificationem Jsu circumferre in suo corpore. S. Cyril. Alex., de Adorat. in spir. et verit., lib. 11. – Vestimentum talare, tam retro quam a lateribus et ante undique clausum. Conc. Basil.
(27) Gal. 5, 24.
(28) Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, id est Christo crucifixo se conformaverunt, affligendo carnem suam cum vitiis…, id est, cum peccatis; concupiscentiis, id est, passionibus quibus anima inclinatur ad peccandum. Non enim bene crucifigit carnem, qui passionibus locum non aufert, D. Thom,. in ead. verb. Ep. ad Gal., 5, 24, lect. 7.
(29) Electo, ad intimam cordis humilita!em desiderandam, humiliore cunctis coloribus nigro colore. Petr. Cluniac., statut. 16.
(30) Quia sacerdos dux et antesignanus est exercitus Domini, his titulorum insignibus jubetur adornatus incedere, seseque sequentibus ecclesiasticae militiae cuneis sanguinis et crucis Christi debet vexilla praeferre. Petr. Dam . op. 25, de Dignit. sacerdot., c. 2.
(31) Capile nudato testatur Christum sibi caput esse. Simon. Thessalon. , de Ord. Episc.
(32) I Cor., 11, 3.
(33) I Petr., 4, 11.
(34) Non enim vos estis qui loquimini, sed Spiritus Patris vestri qui loquitur in vobis. Matth., 10, 20. Vox nostra Christus est. S. Ambr., de Isaac., c. 8, n. 75.
(35) I Petr., 4, 11.
(36) Exstantes et visae manus virtutem et efficientiam Dei, in his quae operatur sacerdos, declarant.
Sim. Thessalon., de Sacro Ord.
(37) Philip., 4, 5.
(38) Ex vlsu cognoscitur vir, et ab occursu faciei cognoscitur sensatus. Eccl., 19, 26. – Nec oculus sine Dei nutu moventur. S. Basil. in Ps. 32, n. 6. –Conversemur quasi Del templa, ut Deum in nobis constet habitare. S. Cypr., de Orat. Dom., p. 207. Modestia portio Dei est. S.Ambr., de Offic., lib. 1, c. 18, n. 70. – Ubi Christus est, modestia quoque est. S. Greg. Naz., ep.193.
(39) Amictus corporis…, et ingressus hominis enuntiant de illo. Eccl., 19, 27.
(40) Caelum, eunctaque caelestia… consono ordinationis concentu, protestantur gloriam Dei, et praedicatione perpetua majestatem sui loquuntur auctoris. De Vocat. Gen., lib. 2, c. 4, inter op. S. Leon.
(41) Accipe hoc sacrum indumentum, quo cognoscaris mundum contempsisse, et te Christo perpetuo subdidisse, Frederìc. Archiep., Institut. ad Ord.. suscip. in EccI. Mediol. tit. 1. Forma esse debemus caeteris, non solum in opere scd etiam in sermone. S. Ambr., de Offic., lib. 2, cap.19, n. 96.
(42) Nos oportet non solum carnalibus vitiis, verum etiam ipsis elementis mortuos esse.Cassian.. Inst., lib. 4, cap. 35.
(43) Quod nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei. Gal., 2, 20.
(44) Fides quae per caritatem operatur. Gal., 5, 6.
(45) Vita justitiae est per Deum habitantem in nobis bis per fidem… Et intelligendum est de fide per dilectionem operante. D. Thom. in cap. 3 Ep. ad Gal., lect. 4.
(46) Humani affectus quasi pedes sunt. S. Aug. tract. 56 in Joan, n. 44. Pedes nostri affectus nostri sunt. Prout quisque affectum et amorem habuerit, ita accedit vel recedit a Deo. Id. in Ps.94, n. 2.
(47) Signum crucis (impressum in ordinatione) designat omnium simul cupiditatum cessationem, divinaeque vitae imitationem. S. Dionys., de EccI. Hier., cap. 5. Contempl. § 4.
(48) In eos tanquam in speculum reliqui oculos conjiciunt; ex iisque sumunt quod imitentur. Quaporpter sic decet omnino clericos…, vitam moresque suos omnes componere, ut habitu, gestu, incessu, sermone, aliisque omnibus rebus, nil nisi grave, moderatum, ac religione plenum prae se ferant. Conc. Trid., sess. 32, cap . 1 de Reform.
(49) Nolite conformari huic saeculo. Rom., 12, 2.
(50) Vestis nigra humilitatis et religiosae vitae symbolum est. Sim. Thessalon., lib. de sacris Ordin., cap. 2, de Ritu ordinat. Lector.
(51) Mortuum nobis hunc mundum deputantes, nos quoqne ipsi huic mundo moriamur, et dicamus quod Apostolus ait: Mihi mundus crucifixus est, et ego mundo. S. Aug., de Trinit., lib.2, cap. 17, n. 28.
(52) Eo usque mente secedat et avolet, ut et hunc communem transcendat usum et consuetudinem cogitandi. S. Bernard. in Cant., serm. 52, n. 4.
(53) Quaemadmodum qui inflammattus est ac febri laborat, quemcumnque ei offeras cibum aut potum quamvis suavissmum abominatur ac renuit; sic qui Spiritus Sancti atque Christi caelesti desiderio sunt accensi, et amore dilectionis Dei in anima sauciati, omnia quae sunt in hoc saeculo praeclara et pretiosa repudianda et odio digna reputant. S. Macar., hom. 9. –Quid agis in saeculo, qui major es mundo? S. Hieron., ep. 3, ad Heliod.
(54) Deus ipsi sibi et mundus, et locus, et omnia. Tertull., lib. contra Prax., c. 5. Nihil nobis sit commune cum saeculo. S. Chrysost., hom. 5, in Epist. ad Tit. , cap. 2, n. 1.
(55) Respice universum mundum istum, et considera si in eo aliquid sit quod tibi non serviat. Omnis creatura ad hunc finem cursum suum dirigit, ut obsequiis tuis famuletur, ut utilitati deserviat. Hoc caelum, hoc terra, hoc aër, hoc maria. Append. S. Aug. tom. 6, de Dilig. Deo, c. 4.
(56) De mundo non estis, sed ego elegi vos de mundo. Joan. 15, 19. –Nostra conversatio in caelis est. Philip. 3, 20.
(57) Non solurn non se immisceat circa saeculari negotia, sed nec cogitet de mundo. S. Crysost. hom. 15, op. imp. in Matth.
(58) In hoc positi sunt, ut Deum repraesentent. D. Thom., Suppl. q. 34, a. 1.
(59) Cognoscentes vos habere meliorem el manentem substantiam. Hebr., 10, 34.

Il valore del Rito Romano antico

 Sancta Missa 132

 

Omelia di Padre Konrad zu Loewenstein – Venezia, Domenica 22 Ottobre 2006

Per valutare i meriti di un rito di Messa bisogna prima considerare la natura della Messa. Ora, la Santa Messa è nient’altro che il Santo Sacrificio del Calvario: il sacerdote è lo stesso, ossia Gesù Cristo nella persona del celebrante; la vittima è la stessa, ossia Gesù Cristo sotto l’apparenza del pane e del vino. Lo stesso sacerdote, la stessa vittima: lo stesso sacrificio. Ogni rito di Messa della Chiesa Cattolica rende presente questo sacrificio; ci sono molti riti, tra i quali il rito bizantino, il rito ambrosiano, il rito siro-malabarese, il rito nuovo di Paolo VI, ma per valutare un rito particolare bisogna chiedersi quanto esso è adeguato al Sacrificio del Calvario.

Sacrificio, umiltà e riverenza
Quanto al rito romano antico dobbiamo subito constatare che esso è molto adeguato al sacrificio del Calvario e questo in tre modi generali, cioè il rito antico manifesta chiaramente la natura sacrificale della Messa, e la debita umiltà e riverenza di coloro che partecipano a questo Sacrificio. Il rito antico manifesta la natura sacrificale della Messa innanzitutto nel suo uso di un altare sacrificale (piuttosto di una tavola) che contiene le reliquie dei martiri, un altare sacrificale in posizione sopraelevata (come suggerisce l’etimologia del termine altare, ovvero alta ara) che rappresenta il monte Calvario; manifesta la natura sacrificale della Messa nel suo uso costante dei termini “sacrificio” e “oblazione”, e nei moltissimi segni di croce. Il rito antico manifesta l’umiltà in parecchi modi, tra cui i due Confiteor, con il loro ricorso agli angeli e ai santi, la preghiera Domine non sum dignus per tre volte prima della Santa Comunione, il battersi il petto tre volte nel Confiteor e nel Domine non sum dignus e la Comunione in ginocchio e sulla lingua – perché la Santa Comunione non è un oggetto qualsiasi di cui ci si appropria, ma Iddio Stesso che si riceve, in tutta indegnità, umiliazione e raccoglimento. Il rito antico manifesta anche la riverenza in tutti questi modi e, inoltre, nei moltissimi inchini e genuflessioni del celebrante; nella sua attenzione a non lasciar cadere alcun frammento, neppure il più piccolo del Santissimo Sacramento, a tenere chiuse le dita e a purificare scrupolosamente la patena, il corporale, le dita, e similmente anche il calice. Questi tre aspetti del rito antico: la sua chiara manifestazione del sacrificio, dell’umiltà, della riverenza vengono espressi in modo esemplare nella preghiera Placeat Tibi, recitata dal celebrante verso la fine della Santa Messa con un profondo inchino: «Sia a Voi gradito, o Santa Trinità, l’ossequio della mia servitù, e concedete che il Sacrificio da me indegno offerto agli occhi della Vostra maestà, sia accetto a Voi e fecondo di bene per Vostra bontà a me e a tutti coloro ai quali l’ho offerto, per Cristo Signore nostro. Così sia».

La posizione del celebrante, il latino, il silenzio

Consideriamo adesso tre modi particolari in cui il rito antico è adeguato al Santo Sacrificio del Calvario, cioè la posizione del celebrante, l’uso del latino, e il silenzio. Questi tre elementi sono stati oggetto di critica da parte di coloro che non amano questo rito.Il primo elemento viene criticato con frasi come: «Il prete dà le spalle ai fedeli». La risposta semplice a questo è: «Il prete dà la faccia a Dio». Abbiamo visto che la santa Messa è il Sacrificio del Calvario. Questo sacrificio, nelle parole di San Giovanni della Croce, è il Sacrificio di Dio, da Dio, a Dio: è il Sacrificio che nostro Signore Gesù Cristo fa di se stesso a Dio Padre. Durante la Santa Messa il celebrante (nella persona di Cristo) offre questo Sacrificio a Dio realmente presente nel tabernacolo e rappresentato in croce. Non offre il sacrificio al popolo, ma con il popolo e per il popolo, come significa anche la parola “liturgia”, che significa “l’opera (ergon) per il popolo (laos)” e questo spiega la posizione del celebrante che sta a capo del popolo rivolto come loro e con loro verso Iddio. Criticare questa posizione del celebrante è come criticare un avvocato che non sta di fronte ai suoi clienti nel tribunale. Sarebbe una critica assurda, perché l’avvocato deve presentare il suo caso al giudice per i suoi clienti, e dunque deve essere rivolto al giudice come i suoi clienti e con i suoi clienti che si trovano quindi dietro di lui. Il secondo elemento, l’uso del latino, viene criticato con frasi come: «Nessuno capisce il latino». La risposta a questo è che, in realtà, alcuni lo capiscono, e molti capiscono almeno qualche elemento, come le preghiere, Gloria in excelsis Deo, Agnus Dei; e tuttavia ci sono libretti con traduzioni per aiutarci a capire, e ci sono stati sempre. E’ pur vero che il latino esige un certo sforzo per i fedeli, ma ci sono buoni motivi per fare questo sforzo. Un primo motivo sarebbe che il latino è una lingua sacra, maggiormente adeguata al Santo sacrificio della Messa che è un’opera di Dio che trascende assolutamente tutte le cose di questo mondo; un secondo motivo è che il latino è una lingua immutabile, e perciò conviene al Santo Sacrificio che è anch’esso immutabile e reso presente nella sua forma identica con ogni celebrazione della Messa; un terzo motivo è che il latino è una lingua tradizionale che ci unisce con la Santa Messa come fu celebrata nel corso dei secoli; un quarto motivo è che il latino è una lingua universale per tutti coloro che pregano secondo il rito romano, proprio come il sacrificio del calvario è un sacrificio universale: per tutti gli uomini – almeno per tutti gli uomini che vogliono accettarlo. Fino a poco tempo fa un fedele poteva andare a Messa in qualsiasi paese del mondo: Polonia, Cina, Olanda, Germania ecc. e mediante questo rito essere unito agli altri cattolici presenti, ed essere accolto nel seno consolante della madre Chiesa. Infatti in quanto il latino è tradizionale e universale può unire tutti i cattolici di rito romano di tutte le nazioni e di tutte le epoche. Il latino è una lingua sacra, immutabile, tradizionale e universale, e per questo è più adeguato al Sacrificio della Messa, così come lo è alla Chiesa e al Cattolicesimo stesso.Si può aggiungere che rigettare il latino dalla Messa significa rigettare anche la più bella musica del mondo, la quale fu scritta per la Chiesa: il canto gregoriano e le opere di musica dei più grandi compositori classici, la qual musica è stata bandita dalla Chiesa e profanata, confinandola nelle sale da concerto e negli studi di registrazione. Ci si può chiedere se la critica della posizione del celebrante e del latino non contenga qualcosa di egocentrico: «Io voglio che il celebrante si indirizzi a me e voglio capire subito». Perché nella Santa Messa non si abbassa qualcosa a livello dell’uomo, ma ci si innalza a livello di Dio; non si rimane rinchiusi nella propria umanità, ma si esce da se stessi verso la Divinità; non ci si appropria, ma si dà di se stessi; non si domina, ma ci si umilia davanti alla Maestà infinita di Dio. E non si tratta tanto di conoscere, quanto di amare. Difatti la santa Messa, il Sacrificio del Calvario sono una cosa che non riusciremo mai a comprendere completamente. Se il latino è un modo eccellente per esprimere ciò che possiamo capire, il resto è silenzio. Ora, le persone che non apprezzano il silenzio, che dicono: «Non si dice niente, non si fa niente, non si partecipa», trascurano che il silenzio rende possibile ciò che è più grande delle parole o dei gesti, che permette una partecipazione più profonda nei santi misteri della Messa: ossia la contemplazione e l’adorazione di Dio, l’umiliazione di se stessi e l’offerta di se stessi a Dio. «Fa silenzio e sappi che sono Iddio».

Opera perfetta e mistero

Ci sono due ultimi aspetti del Santo Sacrificio della Messa che vengono ben espressi nel rito antico romano e questi sono la sua perfezione e il suo mistero. Il Santo Sacrificio della Messa è un’opera perfetta perché opera di Dio, Opus Dei nelle parole di San Bernardo, anzi la sua opera più grande: esige dunque una collaborazione corrispondente da parte degli uomini, infatti la Messa solenne secondo questo rito è stata definita il più grande compimento della civiltà occidentale. Tutti gli elementi devono contribuire a quest’opera sublime, divina e umana allo stesso tempo: i gesti, i movimenti, l’architettura della Chiesa, i paramenti, le candele, l’incenso, il canto, la musica, i fiori. Tutto deve essere perfetto (humano modo), bello e degno di Dio.In ultima analisi tutti questi elementi esprimono un mistero che, come abbiamo detto, non potremo mai comprendere: il mistero che Iddio viene chiamato sull’altare da un uomo, che il pane e il vino diventano Dio e rendono presente il Sacrificio del Calvario, che questo Sacrificio unico si ripete nel corso dei secoli, che Iddio sacrifica Dio a Iddio, che Iddio viene consumato dalle Sue creature, che così vengono unite con Lui e con tutti i membri della Chiesa, che tutta la Chiesa sulla terra, nel Purgatorio e nel Paradiso ne godono. Questi misteri esigono un quadro adeguato, un quadro che il rito antico fornisce in modo mirabile, nel quale i fedeli, almeno una volta alla settimana, possano uscire dal mondo moderno e dalla vita quotidiana, dura e talvolta anche brutta e dolorosa, per ritrovare un riflesso della bellezza e del mistero di Dio sublime e assolutamente trascendente, Colui che solo può dare un senso alla loro vita; un quadro, infine, dove possano abbassarsi davanti alla Sua divina Maestà, adorarLo e offrirsi completamente a Lui in unione con il Santo Sacrificio del Calvario.

Summorum Pontificum: una speranza per tutta la Chiesa!

di Cristina Siccardi

Che cosa sono lex orandi e lex credendi se non un patrimonio antico che riceviamo oggi per mantenerlo sempre giovane nella sua eternità? La Tradizione è un retaggio sempre presente, senza età, come lo è Dio. La Tradizione della Chiesa è oro e l’oro non può subire evoluzioni o alterazioni, altrimenti  non sarebbe più se stesso; l’unico procedimento indicato per l’oro è la lucidatura, per ravvivarne il colore e la brillantezza, questo l’unico “sviluppo” nel presente della Tradizione.

Ecco allora che il Cardinale Walter Brandmüller ricorda ai contemporanei le parole del Cardinale John Henry Newman nella sua prefazione al volume Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Una speranza per tutta la Chiesa, a cura di Padre Vincenzo Nuara O.P. (Fede & Cultura, pp. 170, € 13.00): «Un vero sviluppo, dunque, può essere descritto come quello che conserva l’insieme degli sviluppi precedenti, coincidendo realmente con essi ed essendo qualcosa al di là di essi. Le aggiunte che vi apporta illuminano, non oscurano, corroborano, non correggono il corpo di pensiero da cui nascono e questa è la sua caratteristica vista in contrasto di una corruzione» (p. 6).

Vera mirabilia della Tradizione della Chiesa è la Santa Messa in Vetus Ordo, quella anteriore alla riforma liturgica post Concilio Vaticano II. In realtà è più corretto chiamarla Santa Messa di sempre poiché, come scrive Madre Francesca dell’Immacolata delle Francescane dell’Immacolata, «se è vero che papa San Pio V promulgò un Messale a seguito del Concilio di Trento, in realtà non fece altro che fissare e circoscrivere sapientemente un rito già in uso a Roma da secoli. Esso risaliva, nei suoi elementi essenziali, almeno a mille anni prima, precisamente a papa San Gregorio Magno. Da quest’ultimo Pontefice viene anche il nome, più corretto ma non esauriente, di rito gregoriano. Non esauriente perché da San Gregorio  Magno (…) il rito risale ai tempi apostolici per riannodarsi infine all’Ultima Cena e al sacrificio cruento di Nostro Signore Gesù Cristo di cui ogni Messa è costante ripresentazione e incruenta attualizzazione» (p. 93).

La Sacra Liturgia non è mai stata e né potrà mai essere, ha affermato Madre Francesca nel suo intervento al terzo Convegno organizzato dall’Associazione Giovani e Tradizione ‒ ora ripreso, insieme ad altri interventi, nel saggio curato da Padre Nuara ‒ l’espressione dei sentimenti che il fedele prova per Dio. «Essa è invece l’adempimento da parte del fedele di un suo dovere nei confronti di Dio, ch’egli deve esprimere conformemente agli stessi insegnamenti divini. È il cosiddetto ius divinum, ossia il diritto di Dio a essere adorato come Egli ha stabilito» (p. 95).

Di fronte alla Santa Messa di sempre l’atteggiamento sia del Sacerdote che del fedele è oggettivamente diverso rispetto alla nuova Liturgia, come ha scritto il Cardinale Ratzinger, oggi Papa emerito: «viene addirittura concepita etsi Deus non daretur: come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella Liturgia non appare più la comunione della fede, l’unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov’è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena» (p. 94).

Lo svilimento della Santa Messa è avvenuto anche attraverso la desacralizzazione della lingua utilizzata. Nel suo intervento al Convegno il professor Roberto de Mattei ha dimostrato come il latino non è la lingua anacronistica, che ha accompagnato la Chiesa solo in una determinata epoca storica, ma è la lingua universale e perenne della Chiesa e «in questo senso, malgrado il suo attuale oscuramento, appartiene non solo al passato, ma anche al presente e al futuro della Chiesa stessa. Così la definì San Pio X: “La lingua latina a buon diritto viene detta ed è la lingua propria della Chiesa”» (pp. 136-137).

da www.corrispondenzaromana.it

POPULUS SUMMORUM PONTIFICUM 2014. SI RITORNA A ROMA!

Foto: Chers pèlerins, chers amis,Agenouillés devant la crèche, nous vous adressons tous nos vœuxde bon et saint Noël et sommes heureux de vous annoncer que le prochain pèlerinage Populus Summorum Pontificum se déroulera du jeudi 23 au dimanche 26 octobre 2014.Abbé Claude Barthe, aumônierCœtus Internationalis Summorum Pontificum

Cari pellegrini, cari amici,

inginocchiati davanti al presepio, vi porgiamo tutti i nostri auguri di buon e santo Natale e siamo lieti di annunciarvi che il prossimo pellegrinaggio POPULUS SUMMORUM PONTIFICUM si svolgerà da giovedì 23 a domenica 26 ottobre 2014.

Don Claude Barthe,

cappellano Cœtus Internationalis Summorum Pontificum

Il Primato di Pietro

Negli ultimi cent’anni, pochi passi del Vangelo sono stati oggetto di discussioni tanto veementi e appassionate, poiché, secondo quanto pretendono alcuni, la formulazione attuale non corrisponderebbe all’originale scritto da Matteo, ma si tratterrebbe di un testo manipolato intorno all’anno 130 per giustificare il primato di Pietro e dei suoi successori sui suoi fratelli nell’episcopato.

Invece, per secoli nessuno aveva messo in dubbio l’autenticità di questo passo. È stato necessario aspettare l’infiltrazione del razionalismo nell’esegesi biblica nel secolo XIX e lo storicismo protestante del secolo XX, perché cominciassero i tentativi di squalificarla.

Di particolare importanza per il tema che ci riguarda è la storia dei primi secoli della Chiesa, perché si scontra frontalmente con la gratuita supposizione che il primato di giurisdizione universale del Romano Pontefice sia stato un’invenzione posteriore rispetto ai tempi apostolici.

Ora, già nella lettera inviata da Papa San Clemente ai fedeli di Corinto, a proposito della ribellione avvenuta in questa comunità intorno all’anno 96, è evidente il primato romano. Infatti, in essa il Pontefice non chiede scusa per essersi immischiato nelle questioni interne di un’altra Chiesa – come sarebbe normale, nel caso fosse un semplice primus inter pares, capo di un’altra Chiesa sorella -, bensì per non avere avuto l’opportunità di intervenire nella questione con più rapidità; avverte che chiunque non obbedirà ai suoi ammonimenti correrà il pericolo di commettere peccato grave e si mostra convinto che la sua attitudine è ispirata dallo Spirito Santo. D’altra parte, la lettera fu accolta a Corinto senza resistenze e considerata come un grande onore, al punto che sempre nell’anno 170, secondo testimoni, era letta nella liturgia domenicale.

Sant’Ignazio di Antiochia nella lettera ai Romani. Il suo saluto iniziale alla chiesa di Roma è assai diverso da quello rivolto alle altre chiese: essa non è soltanto “la chiesa amata e illuminata per volontà di colui che ha voluto tutte le cose che sono secondo la carità di Cristo”; è ancora la chiesa “che presiede nel luogo della regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, degna di beatitudine, degna di lode, bene ordinata, casta e che presiede alla carità, avendo la legge di Cristo e il nome del Padre”. Gli studiosi si sono impegnati a decifrare soprattutto le espressioni: “presiede nel luogo della regione dei Romani”, e “presiede alla carità”. Chi ci vede affermata una preminenza solo morale, dovuta alla generosa attività caritativa di quella chiesa, e chi un riconoscimento della sua autorità. E’ uno dei tanti testi, concernenti il nostro tema, che difficilmente si possono leggere senza farsi influenzare dalle proprie convinzioni previe. E’ interessante comunque notare da un lato il rispetto manifestato da Ignazio verso la Chiesa di Roma, alla quale non osa dare ordini, perché essa li ha ricevuti dagli Apostoli Pietro e Paolo (IV,3) e essa stessa ha insegnato e comandato agli altri (III,1), dall’altro il suo assoluto silenzio circa la presenza di un vescovo a Roma, mentre l’accenno non manca nelle sue lettere dirette alle chiese dell’Asia minore. A Roma in questo tempo non era ancora avvenuto il passaggio dal collegio dei presbiteri all’episcopato monarchico nella direzione della chiesa, anche se Clemente, l’autore della lettera, doveva ricoprire un ruolo eminente.”

La posizione di preminenza della chiesa romana nel II sec. è testimoniata anche dal gran numero di cristiani, ortodossi e eretici, che vi accorrono: il martire Giustino vi istituì una scuola di filosofia; Policarpo, vescovo di Smirne, martirizzato nel 167, vi venne a consultare il papa Aniceto sulla questione della Pasqua[1]; il giudeo-cristiano Egesippo vi dimorò a lungo allo scopo di stabilire l’ordine della successione apostolica dall’inizio fino al papa Eleuterio[2]. Soprattutto le visite di questi ultimi mostrano che la preminenza della chiesa romana non era legata tanto al fatto di essere nella capitale dell’impero, quanto a motivi religiosi. Ciò appare confermato dalle testimonianze di diversi autori del II secolo, riferite da Eusebio di Cesarea: sia Papia di Gerapoli che Clemente Alessandrino nei loro scritti avrebbero parlato della predicazione romana di Pietro, associandogli l’evangelista Marco[3]; Dionigi di Corinto verso il 170 avrebbe attestato la missione apostolica e il martirio sia di Pietro che di Paolo a Roma[4]; il presbitero romano Gaio, nei primi anni del III secolo, si diceva in grado di mostrare sul colle Vaticano e sulla via Ostiense le tombe dei due Apostoli, “che hanno fondato questa chiesa”[5]. La preminenza della chiesa di Roma nel II sec., insomma, appare legata non tanto a fattori politici, quanto al ricordo della dimora, dell’insegnamento e del martirio di Pietro e di Paolo nella città.

Ireneo e Tertulliano sugli stessi motivi insistono anche teologi importanti come Ireneo e Tertulliano, quando, per combattere gli gnostici, sono costretti ad appellarsi alla regola della fede, trasmessa dalla tradizione apostolica, fedelmente conservata a Roma attraverso la successione apostolica. Grande rilievo assume la posizione di Ireneo, vescovo di Lione nella seconda metà del II sec., ma originario dell’Asia minore. Egli indica nella comunione con la chiesa di Roma il criterio sicuro per conoscere l’autentica regola della fede, trasmessa dalla tradizione apostolica; e per dimostrare la ininterrotta successione dei vescovi romani dagli apostoli Pietro e Paolo, ne riferisce la lista completa. Egli è convinto che la Chiesa di Roma “è la chiesa più grande e più antica, conosciuta da tutti e stabilita a Roma dai due gloriosi apostoli Pietro e Paolo… Pertanto a questa chiesa propter potentiorem principalitatem deve convergere ogni altra chiesa, cioè i fedeli che sono dovunque, perché in essa è stata sempre custodita la tradizione che viene dagli Apostoli da coloro che sono dovunque”. Potentior principalitas non pare che voglia dire una più potente autorità, quanto piuttosto una più alta origine. Anche così, il discorso di Ireneo non lascia dubbi: riconosce il ruolo preminente della chiesa di Roma nell’accertamento della fede e della comunione cattolica.

Sant’ Ambrogio non solo fu un baluardo a difesa della fede cattolica contro l’eresia ariana, ma si adoperò a difendere anche il Vescovo di Roma, Papa Damaso contro l’antipapa Ursino. Egli così riconosceva la funzione ed il primato del Vescovo della Città Eterna (in quanto successore di Pietro) come centro e segno di unità per tutti i cristiani.
È a lui che si deve la famosa frase che recita: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa), e l’altra: “In omnibus cupio sequi Ecclesiam Romanam” e cioè “In tutto voglio seguire la Chiesa Romana” quasi un’attestazione del primato della Chiesa di Roma, sul quale la discussione andrà avanti per secoli e, come si sa, non è ancora finita.
Per i suoi molteplici scritti teologici e scritturistici è uno dei quattro grandi dottori della Chiesa d’Occidente, insieme a Gerolamo, Agostino e Gregorio Magno.
“Dunque, egli che prima taceva per insegnarci che di quel che dicono gli empi non si deve ripetere neanche una parola, quando si sentí domandare: Ma voi chi dite che io sia?, subito, ben consapevole della sua autorità, esercitò il primato: un primato di confessione e non di onore, un primato di fede e non di rango. Vale a dire: ‘Ora nessuno deve vincermi. Debbo riscattare il mio silenzio, il mio silenzio deve essere utile. La mia lingua non ha spine, la professione di fede deve uscire senza impedimento. Mentre gli altri vomitano il fango dell’empietà, pur ripetendo con le loro labbra affermazioni altrui, dicendo che Cristo è Elia o Geremia o uno dei profeti – e queste parole sono ricoperte di fango e cosparse di spine -; mentre alcuni detergono questo fango e in altri si strappano queste spine, la nostra voce faccia riecheggiare che ‘ Cristo è Figlio di Dio’. Le mie parole sono pure e nessuna espressione di empietà vi ha lasciato spine.
Sant’Ambrogio, Il mistero dell’incarnazione del Signore, IV, 32

“Tale è Pietro che rispose davanti agli altri, anzi per gli altri. E viene denominato fondamento perché sa custodire un bene che non è soltanto suo proprio ma di tutti. Cristo confermò la sua testimonianza e ‘glielo rivelò il Padre’. Chi esprime la vera generazione del Padre non può averla appresa dalla carne, ma deve averla appresa dal Padre. Dunque il fondamento della Chiesa è la fede. Non della carne di Pietro ma della sua fede è stato detto che ‘le porte della morte non prevarranno su di lui’: è la sua professione di fede che ha vinto l’inferno. E questa professione di fede non ha allontanato una eresia soltanto. Infatti, sebbene la Chiesa come una solida nave sia continuamente colpita da molti flutti, il fondamento della Chiesa deve prevalere contro tutte le eresie.”
Sant’Ambrogio, Il mistero dell’incarnazione del Signore, IV, 33

Per capire bene ciò che pensava Sant’Ambrogio sul primato di Pietro, bisogna leggere anche altri testi di lui che parlano di San Pietro:

“Tu dunque, o uomo, sei un pesce. Senti qui perché sei un pesce: ‘Il Regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che ha raccolto ogni genere di pesci; e quando è piena, la si tira alla spiaggia, ci si siede e si fa la raccolta dei buoni in ceste, e i cattivi si gettano via. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi di mezzo ai buoni, e li getteranno nella fornace accesa’. Ci sono dunque pesci buoni e pesci cattivi, i buoni sono riservati al premio, i cattivi vengono subito bruciati. Ma un buon pesce, le reti non lo avviluppano, bensì lo sollevano in alto, né l’amo ne fa strage ma lo irrora col sangue sgorgato da una preziosa ferita: e in bocca gli si trova la buona valuta della fede, con cui pagare le tasse degli apostoli e il tributo di Cristo. Così infatti sta scritto, quando il Signore disse: ‘I re di questa terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli, o dagli altri?’ E avendo risposto Pietro: ‘Dagli altri’, il Signore continuò: ‘Va’ al mare, getta l’amo, e il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca, e vi troverai uno statere. Prendilo, e dàllo a loro per me e per te’.
Tu dunque, che sei un buon pesce, non temere l’amo di Pietro: esso non stermina, ma santifica. Non ti credere senza valore, vedendo che il tuo corpo è debole. In bocca hai da chi pagare sia per Pietro, sia per Cristo. Non temere le reti di Pietro, a cui Gesù disse: ‘Prendi il largo e cala le reti’; egli non getta a sinistra, ma a destra, come glie lo ha ordinato Cristo. Non temere le ampie maglie, poiché gli è stato detto: ‘Da questo momento darai la vita agli uomini’. Per questo egli gettò la rete, e prese Stefano, che fu il primo a venire a galla dal Vangelo con lo statere della giustizia in bocca.”
Sant’Ambrogio, Exameron, 6,15-16

“Al suo segnale, si rianima il navigante, si placano le infide onde del mare, al suo canto, anche la Pietra della Chiesa lava nel pianto.”
Sant’Ambrogio, Inni I, 4.

“Io bramo seguire in ogni cosa la Chiesa di Roma; però anche noi abbiamo il nostro modo di pensare, come tutti gli uomini: quindi ciò che altrove si osserva con buone ragioni, anche noi, con buone ragioni, lo teniamo in vigore.
Io non faccio che seguire l’apostolo Pietro, sto fedelmente attaccato alla sua pietà. Che cosa può rispondere su questo punto la Chiesa di Roma? Colui che ci ispira questo atteggiamento è proprio l’apostolo Pietro, il quale fu il vescovo della Chiesa di Roma, Pietro in persona, quando disse: ‘Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e la testa!’ Vedi quale fede! Se prima oppose un rifiuto, fu per umiltà, ma che in seguito abbia offerto se stesso, fu per devozione e per fede.”
Sant’Ambrogio, I sacramenti III, 5-6

Come possiamo vedere, tutto questo è in piena armonia con quello che dice la Chiesa Cattolica:

San Pietro ha il primato a causa della fede da lui confessata, ma rimane comunque il primo degli apostoli, il governatore della Chiesa di Cristo, il pastore della Chiesa di Cristo.

“Nel collegio dei Dodici Simon Pietro occupa il primo posto [Cf Mc 3,16; Mc 9,2; Lc 24,34; 552 1Cor 15,5 ]. Gesù a lui ha affidato una missione unica. Grazie ad una rivelazione concessagli dal Padre, Pietro aveva confessato: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Nostro Signore allora gli aveva detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18). Cristo, “Pietra viva” (1Pt 2,4), assicura alla sua Chiesa fondata su Pietro la vittoria sulle potenze di morte. Pietro, a causa della fede da lui confessata, resterà la roccia incrollabile della Chiesa. Avrà la missione di custodire la fede nella sua integrità e di confermare i suoi fratelli [Cf Lc 22,32 ].”
Catechismo della Chiesa Cattolica, Numerale 552

“Gesù ha conferito a Pietro un potere specifico: “A te darò le chiavi del Regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). Il “potere delle chiavi” designa l’autorità per governare la casa di Dio, che è la Chiesa. Gesù, “il Buon Pastore” (Gv 10,11) ha confermato questo incarico dopo la Risurrezione: “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21,15-17). Il potere di “legare e sciogliere” indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina, e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesù ha conferito tale autorità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli [Cf Mt 18,18 ] e particolarmente di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno.”
Catechismo della Chiesa Cattolica, Numerale 553

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S. Agostino († 430) «Il salvatore dice: tu sei Pietro e su questa pietra che tu hai confessata, su questa Pietra che tu hai riconosciuta esclamando tu sei il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente, io edificherò la mia chiesa, vale a dire su me stesso, che sono il figlio dell’Iddio vivente» (Serm. 76; vedere anche Ser. 124, trattato su Giovanni) : non si può prendere questa frase tralasciando quello che viene detto immediatamente dopo “Edificherò te su di me, non me sopra di te” e anche quanto Agostino dice di lì a un minuto quando parla esplicitamente di primato di Pietro.
“DISCORSO 76
Di NUOVO SUL VANGELO DI MT 14, 24-33: SUL SIGNORE CHE CAMMINAVA SULLE ACQUE DEL
MARE E SUL TIMORE DI PIETRO : il brano del Vangelo ci racconta come Cristo Signore camminò sulle acque del mare e come l’apostolo Pietro camminando sull’acqua ebbe paura e tentennò e, poiché non aveva fede, stava affondando ma poi, riconoscendo la propria debolezza, venne di nuovo a galla; questo brano ci suggerisce che il mare è la vita presente e che l’apostolo Pietro invece è la figura dell’unica Chiesa. Lo stesso Pietro infatti, ch’è il primo nella serie degli Apostoli e assai ardente nell’amore per il Cristo, è spesso lui il solo che risponde per tutti gli altri.
Infine quando il Signore Gesù Cristo domandò ai discepoli chi la gente pensasse che egli fosse e i discepoli avevano riferito le diverse opinioni della gente, avendo il Signore chiesto di nuovo e avendo detto: Ma voi chi dite che sono io? fu proprio Pietro che rispose: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Diede la risposta uno solo per molti, l’unità che tiene uniti molti.
Allora il Signore gli disse: Beato te, Simone, figlio di Giona, poiché questa verità non te l’ha rivelata né la carne né il sangue, ma il Padre mio celeste. Poi soggiunse: E io ti dico. Come se avesse voluto dire: «Poiché tu mi hai detto: Tu sei il Cristo, il Figlio dei Dio vivente, anch’io ti dico; Tu sei Pietro». Prima infatti si chiamava Simone. Questo nome di Pietro gli fu posto dal Signore e questo nome aveva un significato simbolico, quello cioè di rappresentare la Chiesa. La pietra infatti era Cristo, Pietro era il popolo cristiano. Poiché «pietra» è il nome primitivo; Pietro quindi deriva da «pietra», non pietra da «Pietro», come il nome di Cristo non deriva da «Cristiano», ma è il nome di «Cristiano» che deriva da Cristo. Tu, dice dunque, sei Pietro e su questa pietra che tu hai riconosciuta pubblicamente, su questa pietra che tu hai riconosciuta come vera, dicendo: Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivente, io edificherò la mia Chiesa’, cioè sopra me stesso, Figlio del Dio vivente, io edificherò la mia Chiesa- Edificherò te su di me, non me sopra di te.
In verità alcuni, i quali volevano che la Chiesa fosse edificata sugli uomini, andavano dicendo: Io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; io al contrario sono di Cefa, cioè di Pietro. Altri però, che non volevano che la Chiesa fosse edificata su Pietro, ma sulla pietra, affermavano: Io invece sono di Cristo. L’apostolo Paolo quindi, quando venne a sapere ch’era preferito lui e Cristo veniva disprezzato: Può forse – disse – essere diviso Cristo? E’ stato forse crocifisso per voi Paolo? Siete forse stati battezzati nel nome di Paolo? Come nessuno era battezzato nel nome di Paolo, cosi neppure nel nome di Pietro, ma tutti nel nome di Cristo; in tal modo Pietro veniva edificato sulla pietra, non già la pietra su Pietro.
Il medesimo Pietro dunque, cosi chiamato dalla « pietra », proclamato beato, lui ch’era figura della Chiesa, che aveva il primato sugli Apostoli, immediatamente dopo aver sentito ch’era beato, ch’era Pietro, che doveva essere edificato sulla pietra, avendo sentito che il Signore avrebbe sofferto la passione, poiché aveva preannunciato ai suoi discepoli che sarebbe sopravvenuta presto, ne provò dispiacere. Ebbe paura di perdere il Cristo che andava incontro alla morte, ch’egli aveva dichiarato sorgente della vita. Rimase sconvolto e disse: « Dio non voglia, Signore. No, questo non avverrà mai Abbi misericordia di te stesso, o Dio; non voglio che tu muoia ». Pietro diceva a Cristo: « Non voglio che tu muoia », ma meglio diceva Cristo: «Io voglio morire per te»”.

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Questo dice il testo di San Cipriano:

“Il Signore disse a Pietro: ‘Io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non la vinceranno. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli’. Il Signore edifica la sua Chiesa sopra uno solo…***
San Cipriano, L’unità della Chiesa Cattolica, IV

*** Esistono due testi di questo brano: il Textus Receptus: T. R.; il Textus Primatus: T. P. Quest’ultimo sarebbe favorevole al primato con le “addizioni”, sulle quali però Hertel richiamò l’attenzione degli studiosi. Dopo un primo rifiuto, queste addizioni furono oggetto di nuovo studio da parte del Chapman. Secondo lo studioso sarebbero state introdotte dallo stesso Cipriano in una riedizione del suo trattato. Per D. van Eynde, O. Perler e M. Bévenot il testo T. P. sarebbe la prima stesura di questo capitolo quarto, modificata successivamente secondo la stesura del T. R. Secondo Moyne solo il T. P. sarebbe autentico. Demoustier, sostiene che i due testi concorderebbero a proposito del primato.***

T. R.

“….anche se dopo la resurrezione egli conferisce un’eguale potestà a tutti gli apostoli con le parole: ‘Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi; saranno ritenuti a chi non li riterrete’, tuttavia per evidenziare l’unità dispose di sua autorità che l’origine della medesima procedesse da uno solo. Certamente anche gli apostoli erano ciò che era Pietro: erano insigniti di un’eguale partecipazione, sia di onore che di potere; ma l’origine viene dall’unità, affinché la Chiesa di Cristo si manifesti una sola.”
San Cipriano, L’unità della Chiesa Cattolica, IV

T. P.

“…Dopo la resurrezione gli dice: ‘Pasci le mie pecore’. Sopra uno solo edifica la Chiesa e a lui comanda di pascere le sue pecore. E benché dia a tutti gli apostoli un’eguale potestà, tuttaviacostituisce una sola cattedra e stabilisce con l’autorità della sua parola l’origine dell’unità.
Anche gli altri erano certamente ciò che era Pietro, ma il primato fu dato a Pietro di modo che si mostrasse una la Chiesa e una la cattedra. Tutti sono pastori, però il gregge è uno solo, poiché tutti gli apostoli lo pascolano con accordo unanime.
Chi non conserverà questa unità raccomandata anche da Paolo penserà forse di conservare la fede? Chi abbandonerà la cattedra di Pietro sulla quale è fondata la Chiesa penserà di essere ancora nella Chiesa?”
San Cipriano, L’unità della Chiesa Cattolica, IV

Comunque abbiamo altri testi di San Cipriano riguardo al primato di Pietro.

“Non si tratta qui di accettare per diritto di prescrizione una consuetudine; bisogna invece vincere attraverso la ragione. Infatti Pietro, che il Signore ha eletto per primo e sul quale ha edificato la sua Chiesa, durante quel sissenso che ha avuto con Paolo a proposito della circoncisione, non si è rivendicato qualche diritto con insolenza e orgoglio. No ha premesso di possedere il primato, non ha detto che sia i nuovi che i meno anziani devono obbedirgli. Non ha disprezzato Paolo, perché era stato prima persecutore della Chiesa, ma ha accettato il consiglio che proveniva dalla verità e con facilità ha dato il suo assenso alle legittime motivazioni che Paolo portava.”

San Cipriano, Epistola 71,3

– GIUSTINO MARTIRE (+165) scrive: “Uno dei discepoli, che prima si chiamava Simone, conobbe, per rivelazione del Padre, che Gesù Cristo è Figlio di Dio. Per questo, egli ricevette il nome di Pietro. L’affermazione di Gesù e il mutamento del nome sono quindi collegate alla confessione di fede di Pietro” ( è vero che è la piu’ antica interpretazione , ma poi contraddetta), come fu contraddetta l’afffermazione di San Girolamo sui libri deuterocanonici: ricordiamo che lo stesso San girolamo riconosce il primato di Pietro.

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ORIGENE:
“Ma se ritieni che solamente su quel Pietro Dio edifichi tutta quanta la Chiesa, cosa dirai allora di Giovanni, il figlio del tuono (15) o di ciascuno degli apostoli? Ma veramente oseremo asserire che le porte degli inferi non prevarranno su quel Pietro in particolare, mentre prevarranno sugli altri apostoli e sui perfetti? Non è che la suddetta promessa: le porte degli inferi non prevarranno su di essa e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, viene fatta in rapporto a tutti e ad ognuno di loro? (16). Dunque le chiavi del regno dei cieli sono consegnate da Cristo al solo Pietro, e nessun altro dei beati le riceverà? Ma se la promessa: a te darò le chiavi del regno dei cieli è comune ad altri, come non lo saranno tutte le parole precedenti e conseguenti rivolte a Pietro…? In realtà, qui sembrano rivolte a Pietro le parole: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, ecc. (17); ma nel Vangelo di Giovanni, il Salvatore è ai discepoli che dà lo Spirito Santo, col suo alitare, e dice: Ricevete lo Spirito Santo, ecc.

Orbene, molti diranno al Salvatore: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente 11, ma non tutti quelli che lo asseriscono glielo diranno per averlo appreso da una rivelazione della carne e del sangue, ma per aver lo stesso Padre che è nei cieli rimosso il velo posto sopra il loro cuore 12, affinché dopo ciò, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore 13, parlino nello Spirito di Dio, dicendo di lui: Gesù è il Signore 1 4 e dicendo a lui: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (18). E se uno dice a lui questo, non perché glielo abbiano rivelato la carne e il sangue, ma il Padre che è nei cieli, riceverà dette promesse, come dice certo la lettera del Vangelo a quel Pietro, ma come insegna anche lo spirito del Vangelo a chiunque sia divenuto come quel Pietro.

Infatti, lo stesso nome di «pietra» hanno tutti gli imitatori di Cristo, pietra spirituale che seguiva coloro che erano salvati, affinché ne attingessero la bevanda spirituale (19). Costoro dunque, come il Cristo, prendono lo stesso nome dalla pietra, ma essendo anche membra di Cristo 15 si chiamarono «Cristi» derivando da lui questo nome, e si chiamarono «Pietri» dalla pietra. Prendendo spunto da ciò, dirai che i giusti hanno questo nome da Cristo-Giustizia, e i sapienti da Cristo-Sapienza (20). E così, per tutti gli altri suoi titoli assegnerai rispettivi nomi ai santi: a tutti loro potrebbero essere rivolte le parole dette dal Salvatore: Tu sei Pietro, e così via fino a: non prevarranno contro di essa (21).
Origene, Commento a Matteo, Libro XII, Cap. 11

Origene non era contro il primato di Pietro, già che lui stesso dice questo:

“Ma chi è cosí beato da essere libero dal peso delle tentazioni che nessun pensiero ambiguo sorprenda la sua anima? Vedi che cosa dice il Signore a quel grande fondamento della Chiesa e pietra solidissima, sopra la quale il Cristo fondò la Chiesa: ‘O uomo di poca fede, perché hai dubitato?’.”
Origene, Omelie sull’Esodo, V, 4
Origene, come altri padri della Chiesa, considerava a San Pietro come la pietra della Chiesa, ma allo stesso tempo, come facciamo anche noi oggi, considerava che la base della Chiesa è la fede in Cristo.

TERTULLIANO
Dunque, ‘in principio Dio creò il cielo e la terra’. Adoro la pienezza della Scrittura, con la quale vengono manifestati il creatore e la sua opera. Nel Vangelo invece scopro, come ulteriore rivelazione, che il Verbo è il ministro e l’ordinatore del creatore, ma non ho ancora letto in alcun passo se l’universo sia stato creato da una qualche materia soggiacente: ché, se questo è scritto, lo insegni la bottega di Ermogene, ma se non è scritto, abbia timore di quel ‘guai’, destinato a coloro che fanno aggiunte o sottrazioni alla Scrittura”
Tertulliano, Contro Ermogene, Cap XXII, 3
La citazione esiste. Praticamente Tertulliano sta dicendo che quello che dice Ermogene non si trova nella scrittura, e fa una allussione a Apocalisse 22,18-19, per confutare meglio, chiaramente si sta parlando di scrittura e non di tradizione. Comunque, bisogna guardare anche altri testi di Tertulliano per vedere se era contro la tradizione apostolica o no.

Ma poi, se vi siano eresie, le quali abbiano l’ardire di sostenere che esse sono strettamente congiunte alla purezza e all’integrità dell’Epoca Apostolica, così da voler quasi dimostrare che derivano in certo modo dagli Apostoli direttamente, perchè all’età loro fiorirono, noi possiamo risponder così: ci dimostrino chiaramente le origini, dunque, delle Chiese loro; ce lo dichiarino in quale ordine si siano susseguiti i vescovi loro, cominciando dall’inizio e venendo giù ordinatamente nel tempo, in modo che quel primo vescovo possa a sua volta riconoscere come predecessore e sostenitore qualcuno degli Apostoli o di quei primi uomini apostolici che cogli Apostoli ebbero assoluta comunione di vita e di fede. È proprio seguendo questo sistema che le Chiese Apostoliche spiegano e dichiarano la loro vita, la loro gloria. Ecco che la Chiesa di Smirne afferma che fu Giovanni a porre a suo capo Policarpo, e la Chiesa di Roma riconosce che Clemente fu ordinato da Pietro. E così continuando, tutte le altre Chiese fanno ricordo dei loro vescovi, che posti in tal grado direttamente dagli Apostoli, rappresentano la semente prima, apostolica, di quella che fu poi la fioritura. Anche gli eretici possono forse portare qualcosa che stia a confronto colle nostre affermazioni? Ci si provino! Che c’è di non lecito per loro, dal momento che han potuto e saputo pronunziare parole piene di menzona?Tertulliano, Praescriptione Haereticorum, Cap XXXII “Le cose stanno dunque così: che noi possediamo la verità; che essa deve a noi proprio venire aggiudicata; a noi, che avanziamo, ognuno, sicuri in questa nostra regola, che le Chiese riceverono dagli Apostoli, gli Apostoli a lor volta attinsero dalla voce di Cristo, Cristo, da Dio. È chiaro ed evidente dunque che noi abbiamo pieno il diritto di non riconoscere agli eretici la facoltà di discussione e d’esame delle Scritture Sacre; sono proprio loro che noi possiamo benissimo convincere, senza appoggiarsi affatto all’aiuto dei Libri Sacri, che su di questi non possono vantare diritto alcuno.”Tertulliano, Praescriptione Haereticorum, Cap XXXVII È da qui, da ogni considerazione esposta, che noi facciamo movere la nostra prescrizione contro gli eretici. È pure vero che Gesù Cristo inviasse gli Apostoli a predicare la sua dottrina (68). Ebbene: noi non dobbiamo accettare altri, all’ infuori di loro, come divulgatori di essa.Chi può conoscere il Padre se non il Figlio Suo e quelli a cui il Figlio lo rivelò (69)? E sembra chea nessun altro, se non agli Apostoli, il Figlio abbia rivelato i! Padre Suo. Ad essi poi dètte l’incarico della predicazione e di divulgare, s’intende, ciò che era stato loro manifestato.Ciò che essi, dunque, bandiscono alle genti, è quello che Cristo rivelò all’intelligenza loro; ed è da questo punto anche che noi possiamo alzare il nostro grido di prescrizione, in quanto non deve esser possibile conoscere la verità della dottrina di Cristo, se non ricorrendo alle Chiese che gli Apostoli fondarono e dove essi ammaestrarono i fedeli, sia colla voce viva ed ardente, sia rivolgendosi poi con lettere alle genti.Se dunque le cose stanno esattamente così ne risulta cheogni dottrina, la quale si accordi ai principi di quelle Chiese Apostoliche Madri, sorgenti di ogni fede più pura, si deve riconoscere come veritiera: essa contiene in sè, senza dubbio alcuno, ciò che le Chiese attinsero dal labbro degli Apostoli, ciò che a loro volta gii Apostoli colsero dalle labbra di Gesù, ciò che infine Gesù attinse da Dio. E si può affermare, senz’ altro, falsa ogni dottrina che si schieri contro la verità della Chiesa e quindi contro la parola degli Apostoli, di Cristo, di Dio. Quello che ci resta da dimostrare è questo appunto: che la dottrina nostra, di cui prima abbiamo dato la regola di fede, trae l’origine sua dalla pura tradizione apostolica e che quindi, posto questo riconoscimento, tutte le altre dottrine vengono infirmate come false, in quanto traggono loro sorgente da principi non veri. Noi siamo nel rapporto più intimo colle Chiese Aposto-liche, perchè la nostra dottrina non è in alcun punto diversa dalla loro: questa è la prova sicura dell’assoluta verità.Tertulliano, Praescriptione Haereticorum, Cap XXI,1-7

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Rito della Messa: Forma straordinaria e nuova evangelizzazione

di S. Ecc. Mons. Athanasius Schneider

 Mons. Schneider 5
L’articolo che segue, di Mons. Athanasius Schneider, il vescovo autore di “Dominus est“, è stato pubblicato sull’edizione dell’estate 2012 di “The Latin Mass“. Il vescovo Schneider esamina i punti di rottura tra la liturgia preconciliare e postconciliare considerandoli vere e proprie “piaghe liturgiche”, anche perché, per la maggior parte, non sono nemmeno previste dalla Sacrosanctum Concilium. Propone anche il ristabilimento di un minimo di continuità, che considera condizione imprescindibile per la nuova evangelizzazione, vista la corrispondenza tra lex orandi e lex credendi.

 

Volgendo lo sguardo verso Cristo

Per parlare correttamente di nuova evangelizzazione, è necessario in primo luogo a volgere lo sguardo verso Colui che è il vero evangelizzatore, cioè Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, il Verbo di Dio fatto Uomo. Il Figlio di Dio venne su questa terra per espiare e riparare il più grande peccato, il peccato per eccellenza. E questo peccato, il peccato per eccellenza dell’umanità, consiste nel rifiuto di adorare Dio e nel rifiuto di mantenere per lui il primo posto, il posto d’onore. Questo peccato da parte dell’uomo consiste nel non prestare attenzione a Dio, non avendo più il senso della convenienza delle cose, o anche il senso dei dettagli relativi a Dio e dell’adorazione che gli è dovuta, nel non voler vedere Dio, e nel non voler a inginocchiarsi davanti a Dio.

Per chi ha un tale atteggiamento, l’incarnazione di Dio è una fonte di imbarazzo e di conseguenza anche la presenza reale di Dio nel mistero eucaristico è motivo di imbarazzo, come lo è la centralità della presenza eucaristica di Dio nelle nostre chiese. Infatti l’uomo peccatore vuole il centro della scena per se stesso, sia all’interno della Chiesa che durante la celebrazione eucaristica. Vuole essere visto, per farsi notare.

Per questo motivo Gesù Eucaristia, Dio incarnato, presente nel tabernacolo sotto la forma eucaristica, viene messo da parte. Anche la rappresentazione del Crocifisso sulla croce in mezzo all’altare durante la celebrazione verso il popolo è un imbarazzo, perché potrebbe nascondere il volto del sacerdote. Pertanto, l’immagine del Crocifisso al centro dell’altare, così come Gesù Eucaristia nel tabernacolo nel centro dell’altare, è un imbarazzo. Di conseguenza, la croce e il tabernacolo sono spostati a lato. Durante la messa, l’assemblea deve essere in grado di vedere il volto del sacerdote in ogni momento, e lui si diverte a mettersi letteralmente al centro della casa di Dio… E se per caso Gesù, realmente presente a noi nella Santissima Eucaristia, è ancora lasciato nel suo tabernacolo al centro dell’altare perché il Ministero di monumenti storici, anche in un regime ateo, ha proibito il suo spostamento per la conservazione del patrimonio artistico, il prete, spesso, durante tutta la celebrazione eucaristica, non si fa scrupolo di voltargli le spalle.

Quante volte gli adoratori di Cristo buoni e fedeli, piangendo, hanno gridato, nella loro semplicità e umiltà: “Dio ti benedica, Ministero dei monumenti storici! Almeno ci hanno lasciato Gesù al centro della nostra chiesa “.

La Messa è destinato a dare gloria a Dio, non agli uomini

Solo sulla base dell’adorazione e della glorificazione di Dio la Chiesa può adeguatamente proclamare la parola di verità, vale a dire evangelizzare. Prima che il mondo abbia mai sentito Gesù, il Verbo eterno fatto carne, predicare e annunciare il Regno, Egli ha adorato in silenzio per trenta anni. Questa rimane sempre la legge per la vita della Chiesa e la sua azione, nonché per tutti gli evangelizzatori. “Dal modo in cui viene trattata la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”, ha detto il cardinale Ratzinger, il nostro attuale Santo Padre Benedetto XVI. Il Concilio Vaticano II ha voluto ricordare alla Chiesa quale realtà e quali azioni sarebbero dovute essere al primo posto nella sua vita.

Per questa ragione la prima parte degli atti del Concilio è stata dedicata alla liturgia. Il Concilio ci dà i seguenti principi: nella Chiesa, e quindi nella liturgia, l’uomo deve essere orientato verso il divino ed essere subordinato ad esso, allo stesso modo il visibile in relazione l’invisibile, l’azione in relazione alla contemplazione, la città presente in relazione a quella futura, a cui aspiriamo (vedi Sacrosanctum Concilium, 2). Secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II nostra liturgia terrena partecipa in anticipo alla liturgia celeste della città santa di Gerusalemme (ibid., 2).

Tutto ciò che riguarda la liturgia della Santa Messa, vale a dire le preghiere di adorazione, di ringraziamento, di espiazione e di petizione che il sommo ed eterno Sacerdote ha presentato al Padre, deve quindi servire a esprimere chiaramente la realtà del sacrificio di Cristo.

La forma straordinaria e la nuova evangelizzazione

Il rito e ogni dettaglio del Santo Sacrificio della Messa deve incentrarsi sulla glorificazione e adorazione di Dio, insistendo sulla centralità della presenza di Cristo, sia nel segno e la rappresentazione del Crocifisso, sia nella sua presenza eucaristica nel tabernacolo, e in particolare al momento della Consacrazione e della Santa Comunione. Più questo è rispettato, meno l’uomo è protagonista nella celebrazione, e tanto meno la celebrazione appare come un cerchio chiuso in se stesso; piuttosto [è un cerchio] aperto a Cristo e avanza verso di lui come in un corteo, con il sacerdote alla sua testa; come una processione liturgica ha il pregio di rispecchiare il sacrificio di adorazione di Cristo crocifisso; i frutti derivanti dalla glorificazione di Dio e ricevuti nelle anime dei presenti saranno più ricchi; Dio li onorerà di più.

Quanto più il sacerdote e i fedeli, nelle celebrazioni eucaristiche, cercano sinceramente la gloria di Dio piuttosto che quella degli uomini e non cercano di ricevere la gloria gli uni dagli altri, più Dio li considererà, concedendo che le loro anime possano partecipare più intensamente e con frutto alla gloria e all’onore della sua vita divina.

Oggi, in vari luoghi della terra, ci sono molte celebrazioni della Santa Messa che, si potrebbe dire, rappresentano un inversione del Salmo 113:9: “Non a te, o Signore, ma al nostro nome dà gloria” [chissà che cosa ne direbbe il Card. Siri! n. d. t.]. A tali celebrazioni si riferiscono le parole di Gesù: “Come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?”(Gv 5:44).

I sei principi della riforma liturgica

Il Concilio Vaticano II stabilì i seguenti principi in merito a una riforma liturgica:

1. Durante la celebrazione liturgica, l’umano, il temporale, e l’azione devono essere diretti verso il divino, l’eterno, e la contemplazione, il ruolo dei primi deve essere subordinato a questi ultimi (Sacrosanctum Concilium, 2).

2. Durante la celebrazione liturgica, dovrà essere incoraggiata la consapevolezza che la liturgia terrena partecipa alla liturgia celeste (Sacrosanctum Concilium, 8).

3. Non ci deve essere assolutamente alcuna innovazione; quindi nessuna nuova creazione dei riti liturgici, in particolare nel rito della Messa, se non per un guadagno vero e certo per la Chiesa, e a condizione che tutto sia fatto con prudenza e, se ciò è garantito, che nuove forme sostituiscano organicamente quelle esistenti (Sacrosanctum Concilium, 23).

4. Il rito della Messa deve essere tale che il sacro sia affrontato in modo più esplicito (Sacrosanctum Concilium, 21).

5. Il latino deve essere conservato nella liturgia, soprattutto alla Santa Messa (Sacrosanctum Concilium, 36 e 54).

6. Il canto gregoriano ha un posto d’onore nella liturgia (Sacrosanctum Concilium, 116).

I Padri conciliari hanno visto le loro proposte di riforma come la continuazione della riforma di san Pio X (Sacrosanctum Concilium 112 e 117) e del servo di Dio Pio XII, anzi, nella Costituzione liturgica, l’Enciclica Mediator Dei di Pio XII è quella citata più spesso.

Tra le altre cose, il Papa Pio XII ha lasciato alla Chiesa un importante principio della dottrina riguardante la Santa Liturgia, vale a dire la condanna di quello che viene chiamato archeologismo liturgico, le cui proposte sono in gran parte sovrapponibili a quelle del sinodo giansenista e tendente al protestantesimo di Pistoia (vedi Mediator Dei, 63-64).

È un dato di fatto che richiamino alla mente il pensiero teologico di Martin Lutero.

Per questa ragione, il Concilio di Trento aveva già condannato le idee liturgiche protestanti, in particolare l’enfasi esagerata sulla nozione di banchetto nella celebrazione eucaristica a scapito del suo carattere sacrificale e la soppressione di segni univoci di sacralità come espressione del mistero della liturgia (Concilio di Trento, sessione 22).

Le dichiarazioni dottrinali del Magistero sulla liturgia, in questo caso quelle del Concilio di Trento e dell’ enciclica Mediator Dei e che si riflettono in una prassi liturgica secolare, o addirittura millenaria, queste dichiarazioni, dico, formano una parte di quell’elemento della Santa Tradizione che non si può abbandonare senza incorrere in gravi danni spirituali. Il Vaticano II ha confermato queste dichiarazioni dottrinali sulla liturgia, come si può vedere leggendo i principi generali del culto divino nella Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.

Come esempio di errore nel pensiero e nella prassi liturgica, Papa Pio XII cita la proposta di dare all’altare la forma di un tavolo (Mediator Dei 62).

Se già Papa Pio XII rifiutò l’altare a forma di tavolo , si può immaginare quanto più egli avrebbe rifiutato la proposta per una celebrazione attorno a un tavolo versus populum!

Quando la Sacrosanctum Concilium (n. 2) insegna che, nella liturgia, la contemplazione ha la priorità e che tutta la celebrazione deve essere orientata ai misteri celesti (ibid. 2 e 8), riecheggia fedelmente la seguente dichiarazione del Concilio di Trento: “E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.“(Sessione 25, capitolo 5).

Gli insegnamenti magisteriali della Chiesa citati sopra, in particolare la Mediator Dei, erano certamente riconosciuti come pienamente valida dai Padri del Concilio. Pertanto essi devono continuare ad essere pienamente validi per tutti i figli della Chiesa anche oggi.

Le cinque piaghe del Corpo mistico di Cristo liturgico

Nella lettera a tutti i vescovi della Chiesa cattolica che Benedetto XVI ha inviato il 7 luglio 2007 con il Motu Proprio Summorum Pontificum, il Papa ha fatto la seguente importante dichiarazione: “Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni precedenti era sacro, resta sacro e grande anche per noi.” Nel dire questo, il Papa ha espresso il principio fondamentale della liturgia che hanno insegnato il Concilio di Trento, Papa Pio XII e il Concilio Vaticano II.

Guardando senza pregiudizi e obiettivamente la prassi liturgica della stragrande maggioranza delle chiese di tutto il mondo cattolico in cui viene utilizzata la forma ordinaria del rito romano, nessuno può onestamente negare che i sei principi liturgici del Vaticano II siano costantemente violati, o quasi, nonostante l’affermazione erronea che questa sia la prassi liturgica voluta dal Vaticano II. Ci sono un certo numero di aspetti concreti della prassi liturgica attualmente prevalente nel rito ordinario che rappresentano una rottura vera e propria rispetto ad una pratica liturgica costante e millenaria. Con questo intendo le cinque pratiche liturgiche che citerò a breve, che possono essere definite le cinque piaghe del corpo mistico liturgico di Cristo. Si tratta di ferite, perché costituiscono una rottura violenta con il passato in quanto minimizzano il carattere sacrificale (che in realtà è il carattere centrale ed essenziale della Messa) e propongono l’idea del banchetto. Tutto questo riduce i segni esteriori di adorazione divina, perché mette in evidenza in misura molto minore la dimensione celeste ed eterna del mistero.

Ora le cinque ferite (tranne per le nuove preghiere dell’Offertorio) sono quelli che non sono previsti nella forma ordinaria del rito della Messa, ma sono stati portati in esso attraverso la pratica di una moda deplorevole.

A) La prima e più ovvia ferita è la celebrazione del Sacrificio della Messa in cui il sacerdote celebra con la faccia rivolta verso i fedeli, soprattutto durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro del culto che è dovuto a Dio. Questa forma esteriore corrisponde, per sua stessa natura, più che altro al modo in cui si insegna in una classe o si condivide un pasto. Siamo in un circolo chiuso. E questa forma assolutamente non è conforme al momento della preghiera, meno ancora a quella di adorazione. Eppure il Vaticano II non ha voluto affatto questa forma, né la stessa è mai stata raccomandata dal Magistero dei Papi dopo il Concilio.

Papa Benedetto XVI ha scritto nella prefazione al primo volume delle sue opere raccolte: “L’idea che il sacerdote e il popolo in preghiera devono guardarsi l’un l’altro reciprocamente è nata solo in età moderna ed è completamente estranea al cristianesimo antico. Infatti, il sacerdote e il popolo non affrontano la loro preghiera gli uni verso gli altri, ma insieme la rivolgono all’unico Signore. Per questo motivo, nella preghiera, guardano nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico del ritorno del Signore, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso l’alto“.

La forma di celebrazione in cui tutti volgono il loro sguardo nella stessa direzione (Conversi ad orientem, ad Crucem, ad Dominum) è anche menzionata nelle rubriche del nuovo rito della Messa (cfr. Ordo Missae, 25, 133, 134). La cosiddetta celebrazione versus populum non corrisponde certo all’idea della Santa Liturgia come indicato nella dichiarazione della Sacrosanctum Concilium, 2 e 8.

B) La seconda ferita è la comunione nella mano, che ora è diffusa in quasi tutto il mondo. Non solo questo modo di ricevere la comunione non è in alcun modo menzionato dai Padri del Concilio Vaticano II, ma è stato in realtà introdotto da un certo numero di vescovi in disobbedienza alla Santa Sede e nonostante il voto a maggioranza negativo dai vescovi nel 1968. Papa Paolo VI la legittimò solo più tardi, a malincuore, e in particolari condizioni.

Papa Benedetto XVI, dal Corpus Christi 2008, distribuisce la Comunione ai fedeli in ginocchio e sulla lingua, sia a Roma che in tutte le chiese locali che visita. E così sta mostrando a tutta la Chiesa un chiaro esempio di Magistero pratico in una questione liturgica. Poiché la maggioranza qualificata dei vescovi rifiutò la Comunione nella mano come qualcosa di nocivo tre anni dopo il Concilio, tanto più lo avrebbero fattoi Padri conciliari!

C) La ferita è rappresentata dalle nuove preghiere di Offertorio. Si tratta di una creazione del tutto nuova e non erano mai state utilizzate nella Chiesa. Esse non esprimono tanto il mistero del sacrificio della Croce quanto l’evento di un banchetto e in tal modo ricordano le preghiere del pasto del sabato ebraico. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa, in Oriente e in Occidente, le preghiere Offertorio sono sempre stati espressamente orientate al mistero del sacrificio della Croce (cfr. ad esempio Paul Tirot, Histoire des Prières d’Offertoire dans la liturgie romaine du VIIème XVIème au siècle [Roma, 1985]). Non vi è dubbio che una tale creazione, assolutamente nuova contraddice la chiara formulazione del Concilio Vaticano II che afferma: “novità ne fiant. . . novae formae ex Formis iam exstantibus organice crescant “(Sacrosanctum Concilium, 23).

D) La quarta ferita è la totale scomparsa del latino nella stragrande maggioranza delle celebrazioni eucaristiche nella forma ordinaria in tutti i paesi cattolici. Si tratta di una infrazione diretta contro le decisioni del Concilio Vaticano II.

E) La quinta ferita è l’esercizio da parte delle donne dei servizi liturgici di lettore e di accolito, come pure l’esercizio di questi stessi servizi in abiti laici, quando, durante la Santa Messa entrano nel coro direttamente dallo spazio riservato ai fedeli. Questa usanza non è mai esistita nella Chiesa, o almeno non è mai stato la benvenuta. Essa conferisce la celebrazione della Messa cattolica il carattere esterno di informalità, il carattere e lo stile di un gruppo piuttosto profano. Il Concilio di Nicea, già nel 787, proibiva tali pratiche quando ha stabilito il canone seguente: “Se qualcuno non è ordinato, non è consentito per lui a fare la lettura dall’ambone durante la santa liturgia” (can. 14 ). Questa norma è stata costantemente seguita nella Chiesa. Solo i suddiaconi e i lettori sono stati autorizzati a fare la lettura durante la liturgia della Messa. Se lettori e accoliti non sono presenti, uomini o ragazzi con i paramenti liturgici possono farlo, non le donne, dal momento che il sesso maschile rappresenta simbolicamente l’ultimo anello di ordini minori dal punto di vista dell’ordinazione non sacramentale di lettori e accoliti.

I testi del Vaticano II non parlano della soppressione degli ordini minori e del suddiaconato o dell’introduzione di nuovi ministeri. Nella Sacrosanctum Concilium, al n. 28, il Concilio distingue il ministro dal fedele durante la celebrazione liturgica, e stabilisce che ciascuno può fare solo ciò che gli compete per la natura della liturgia. Il numero 29 menziona i ministrantes, cioè i chierichetti che non sono stati ordinati. In contrasto con loro, ci sono, in linea con i termini giuridici in uso in quel tempo, i Ministri, vale a dire coloro che hanno ricevuto un ordine, sia esso maggiore o minore.

Il Motu Proprio: Come porre fine alla rottura nella Liturgia

Nel Motu Proprio Summorum Pontificum, Papa Benedetto XVI stabilisce che le due forme del rito romano devono essere considerate e trattate con lo stesso rispetto, perché la Chiesa rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Nella lettera di accompagnamento del Motu Proprio, il Papa vuole le che due forme si arricchiscano reciprocamente.

Inoltre egli auspica che la nuova forma “sia in grado di dimostrare, più chiaramente di quanto non sia avvenuto finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso“.

Quattro delle ferite liturgiche, o pratiche sfortunate (celebrazione versus populum, comunione nella mano, totale abbandono del latino e del canto gregoriano, e intervento delle donne per il servizio di lettore e di accolito), non hanno in sé e per sé nulla a che fare con la forma ordinaria della Messa ed inoltre sono in contraddizione con i principi liturgica del Vaticano II. Se fossero abolite queste pratiche si tornerebbe al vero insegnamento del Concilio Vaticano II. E poi, le due forme del rito romano, verrebbero ad essere considerate assai più vicine, e così la forma straordinaria e la nuova evangelizzazione poiché, almeno esternamente, non si parlerebbe di alcuna rottura né apparirebbe alcuna rottura nella Chiesa tra il pre e il postconcilio.

Per quanto riguarda le nuove preghiere dell’Offertorio, sarebbe auspicabile che la Santa Sede le sostituisse con le preghiere corrispondenti della forma straordinaria, o almeno consentisse l’uso di quest’ultimo ad libitum. In questo modo la rottura tra le due forme sarebbe evitata non solo esternamente ma anche internamente. La rottura nella liturgia è proprio ciò che i Padri conciliari non volevano. I verbali del Concilio attestano questo, perché nel corso dei duemila anni di storia della liturgia, non c’è mai stata una rottura liturgica e, di conseguenza, non ci può essere. D’altra parte deve esserci continuità, così come si conviene per il Magistero.

Le cinque piaghe del corpo liturgico della Chiesa che ho menzionato gridano per la guarigione. Esse rappresentano una rottura che si può confrontare con l’esilio ad Avignone.

La situazione di una rottura così forte in un’espressione della vita della Chiesa è ben lungi dall’essere irrilevante, allora con l’assenza dei papi da Roma, oggi lcon a rottura visibile tra la liturgia prima e dopo il Concilio. Questa situazione grida in effetti, per la guarigione. Per questo motivo abbiamo bisogno di nuovi santi oggi, di una o più Sante Caterina di Siena.

Abbiamo bisogno di vox populi fidelis che richiedano la soppressione di questa rottura liturgica. La tragedia in tutto questo è che, oggi come i nel tempo dell’esilio di Avignone, la grande maggioranza del clero, soprattutto nei suoi ranghi più alti, è contenta di questa rottura.

Prima che ci si possano aspettare frutti efficaci e duraturi dalla nuova evangelizzazione, deve avere corso all’interno della Chiesa un processo di conversione. Come possiamo chiamare gli altri alla conversione quando, tra coloro che hanno risposto alla vocazione, non si è ancora verificata una convincente conversione nei confronti di Dio, internamente o esternamente? Il sacrificio della Messa, il sacrificio di adorazione di Cristo, il più grande mistero della Fede, l’atto più sublime di adorazione si celebra in un circolo chiuso, in cui le persone si cercano a vicenda.

Quello che manca è la conversio ad Dominum. È necessaria, anche esternamente e fisicamente, dal momento che nella liturgia Cristo è trattata come se non fosse Dio, e non Gli sono rivolti chiari segni esteriori dell’adorazione che è dovuta a Dio solo, perché i fedeli ricevono la Santa Comunione in piedi e, per giunta, la prendono in mano come un qualsiasi altro alimento, l’afferrano con le dita e la portano in bocca. Vi è qui una sorta di arianesimo o semi-arianesimo eucaristico.

Una delle condizioni necessarie per una nuova e fruttuosa evangelizzazione sarebbe la testimonianza di tutta la Chiesa nel culto liturgico pubblico. Dovrebbero essere osservati almeno questi due aspetti del culto divino:

1) Che la Santa Messa sia celebrata in tutto il mondo, anche in forma ordinaria, in una conversio ad Dominum interna e quindi necessariamente anche esterna .

2) Che i fedeli si inginocchino davanti a Cristo al momento della Santa Comunione, come san Paolo chiede quando si fa menzione del nome o della persona di Cristo (Fil 2,10), e che lo ricevano con l’amore più grande e il più grande rispetto possibile, come si addice a Lui come Dio vero.

Grazie a Dio, Benedetto XVI ha preso due misure concrete per avviare il processo di un ritorno dall’esilio di Avignone della liturgia, cioè, il Motu Proprio Summorum Pontificum e la reintroduzione del tradizionale rito della Comunione.

Vi è ancora bisogno di molte preghiere e forse di una nuovo santa Caterina da Siena per le altre misure da adottare al fine di guarire le cinque piaghe sul corpo liturgico e mistico della Chiesa e perché Dio sia venerato nella liturgia con quell’amore, quel rispetto, quel senso del sublime che da sempre sono le caratteristiche della Chiesa e del suo insegnamento, in particolare nel Concilio di Trento, nell’enciclica Mediator Dei di Papa Pio XII, nella Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II e nella teologia della liturgia di Papa Benedetto XVI, nel suo magistero liturgico, e nel Motu proprio di cui sopra.

Nessuno può evangelizzare a meno che non abbia adorato, o meglio ancora a meno che non adori costantemente e doni Dio, Cristo nell’Eucaristia, vera priorità nel suo modo di celebrare e in tutta la sua vita. Infatti, per citare il cardinale Joseph Ratzinger: “E’ nel trattamento della liturgia che si decide il destino della fede e della Chiesa.

da “The Latin Mass Magazine” vol. 21 n. 2, estate 2012.

“Alla mia veste nera”

di Mons. F. Olgiati

Preti in talare

O cara veste nera, da alcune settimane tutti parlano di te. Nel volume su L’attività della Santa Sede nel 1958 era detto: “Attese le varie richieste pervenute circa l’abito talare, è stata iniziata una vasta indagine sulla questione della forma dell’abito ecclesiastico, ed è stata concessa agli ordinari diocesani (cioè ai Vescovi) qualche facoltà di dispensa, in casi particolari, ferma sempre restando la regola di usare la veste talare nell’esercizio della potestà di ordine e di giurisdizione”.

Queste poche righe hanno dato origine a mille discussioni, anche sulla stampa nostra. E le fantasie hanno galoppato.

Alcuni si sono appellati alla storia, dal secolo V ai Concili Lateranense IV (213) e Viennese (1312), che agli ecclesiastici imposero un abito diverso dal comune, da Sisto V a Pio IX.

Altri hanno fatto ricorso alla moda dei paesi tedeschi ed anglosassoni, che concedono ai sacerdoti l’abito cosidetto alla “clergyman”, pur imponendo la “talare”, come esige il Codice di Diritto canonico, nelle funzioni sacerdotali.

Altri hanno rievocato i tempi della Rivoluzione francese, quando anche in Paesi latini – come oggi nelle terre comuniste – il clero, a causa della persecuzione, non si distingueva affatto per i suoi abiti dai laici.

Altri, infine, hanno osservato che “la veste talare, oltre ad essere fastidiosa d’estate e ingombrante sempre, diventa un ridicolo intralcio ed anche un reale pericolo quando, proprio per ragioni del suo ministero, il prete deve usare la bicicletta e la motoreta”, mezzi diventati, ormai, indispensabili per chi è in cura d’anime. Nè è da omettersi, hanno aggiunto, “la tendenza del clero non ad isolarsi in una torre d’avorio, ma ad accostarsi il più possibile alla vita del popolo cristiano affidato alle sue cure, a dividerne le sofferenze e le contrarietà”.

Cara mia veste nera, pur sapendo che non si tratta di una questione sostanziale, ma solo d’una materia disciplinare di esclusiva competenza dell’autorità ecclesiastica, io non ho potuto fare a meno di guardarti e di meditarti.

Sono vecchio e ti voglio bene.

Tu mi perdonerai se io non mi interesso degli argomenti accennati. Non voglio discuterli. Solo voglio dire a te una parola. Ti porto da tanti decenni. Quando ero fanciullo e, prima degli undici anni, entrai in Seminario, si usava indossarti fin dalla prima ginnasiale e tenerti anche nelle vacanze. Ricordi, mia cara veste nera, il giorno della mia vestizione? Ti aveva preparata la mia santa mamma, povera ed inesperta, aiutata da una vecchia sarta volenterosa. Assisteva al rito e pianse quando il vecchio Prevosto me ne rivestì e asperse. Con la benedizione del Parroco e con le lacrime materne uscii dalla chiesa. Com’ero felice, o mia cara veste nera! Potevo io concepire un tesoro più grande e più prezioso di te? Lo fosti sempre durante i miei dodici anni di Seminario e in seguito per tutta la mia vita.

In Seminario subito mi hanno insegnato a baciarti, quando alla sera mi spogliavo per andare al riposo. Quanti baci e di che cuore!

O veste nera della mia prima Messa e di tante Messe celebrate e di tanti azioni sacerdotali compiute! O veste nera, che accanto al letto dei morenti avevi un significato ed un tuo singolare linguaggio! O veste nera, che non mi hai mai costretto ad isolarmi in una torre d’avorio, pur ricordandomi in ogni occasione il mio sacerdozio, anche nel fervore di dispute accese e nelle battaglie per la difesa della verità, in congressi, in associazioni, nelle scuole!

Tu hai conosciuto talvolta, soprattutto in alcuni tempi, l’insulto villano del teppista; ma quanto in quei momenti sono stato fiero di te e ti ho amato!

T’ho riguardata sempre come una bandiera…bandiera nera, sì. Simbolo di morte. ma non potevo vergognarmi, perchè mi simboleggiavi il Crocifisso, che, appunto perchè tale, è risurrezione e vita.

Ora che sono al tramonto, sentendo discorrere di te, ho capito sempre più e sempre meglio che ti amo tanto.

Non so se ti modificheranno, se ti sostituiranno, se ti cambieranno. Avranno le loro ragioni. Anzi, se scoppiasse una persecuzione, ti strapperebbero da me. Non importa. Persino in questo caso tu saresti nel mio cuore. E vi rimarrai per sempre.

Quando tra breve chiuderò gli occhi, voglio che tu scenda con me nella tomba. Rivestito di te, avvolto nelle tue pieghe, dormirò più tranquillo il sonno della morte. Più non potrò darti il bacio del mio affetto. Il mio cuore più non batterà. Ma se qualcuno potesse leggere nelle sue fibre più profonde, troverebbe scolpita una parola di amore e di fierezza per te, o cara e dilettissima veste nera…

Maggio 1959