Motu proprio “TRA LE SOLLECITUDINI” di San Pio X sulla Musica Sacra

MOTU PROPRIO
TRA LE SOLLECITUDINI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO X
SULLA MUSICA SACRA

22 novembre 1903 

Tra le sollecitudini dell’officio pastorale, non solamente di questa Suprema Cattedra, che per inscrutabile disposizione della Provvidenza, sebbene indegni, occupiamo, ma di ogni Chiesa particolare, senza dubbio è precipua quella di mantenere e promuovere il decoro della Casa di Dio, dove gli augusti misteri della religione si celebrano e dove il popolo cristiano si raduna, onde ricevere la grazia dei Sacramenti, assistere al santo Sacrificio dell’Altare, adorare l’augustissimo Sacramento del Corpo del Signore ed unirsi alla preghiera comune della Chiesa nella pubblica e solenne officiatura liturgica.

Nulla adunque deve occorrere nel tempio che turbi od anche solo diminuisca la pietà e la devozione dei fedeli, nulla che dia ragionevole motivo di disgusto o di scandalo, nulla soprattutto che direttamente offenda il decoro e la santità delle sacre funzioni e però sia indegno della Casa di Orazione e della maestà di Dio.

Non tocchiamo partitamente degli abusi che in questa parte possono occorrere. Oggi l’attenzione Nostra si rivolge ad uno dei più comuni, dei più difficili a sradicare e che talvolta si deve deplorare anche là dove ogni altra cosa è degna del massimo encomio per la bellezza e sontuosità del tempio, per lo splendore e per l’ordine accurato delle cerimonie, per la frequenza del clero, per la gravità e per la pietà dei ministri che celebrano. Tale è l’abuso nelle cose del canto e della musica sacra. Ed invero, sia per la natura di quest’arte per sé medesima fluttuante e variabile, sia per la successiva alterazione del gusto e delle abitudini lungo il correr dei tempi, sia per funesto influsso che sull’arte sacra esercita l’arte profana e teatrale, sia pel piacere che la musica direttamente produce e che non sempre torna facile contenere nei giusti termini, sia infine per i molti pregiudizi che in tale materia di leggeri si insinuano e si mantengono poi tenacemente anche presso persone autorevoli e pie, v’ha una continua tendenza a deviare dalla retta norma, stabilita dal fine, per cui l’arte è ammessa al servigio del culto, ed espressa assai chiaramente nei canoni ecclesiastici, nelle Ordinazioni dei Concilii generali e provinciali, nelle prescrizioni a più riprese emanate dalle Sacre Congregazioni romane e dai Sommi Pontefici Nostri Predecessori.

Con vera soddisfazione dell’animo Nostro Ci è grato riconoscere il molto bene che in tal parte si è fatto negli ultimi decenni anche in questa Nostra alma Città di Roma ed in molte Chiese della patria Nostra, ma in modo più particolare presso alcune nazioni, dove uomini egregi e zelanti dal culto di Dio, con l’approvazione di questa Santa Sede e sotto la direzione dei Vescovi, si unirono in fiorenti Società e rimisero in pienissimo onore la musica sacra pressoché in ogni loro chiesa e cappella. Codesto bene tuttavia è ancora assai lontano dall’essere comune a tutti, e se consultiamo l’esperienza Nostra personale e teniamo conto delle moltissime lagnanze che da ogni parte Ci giunsero in questo poco tempo, dacché piacque al Signore di elevare l’umile Nostra Persona al supremo apice del Pontificato romano, senza differire più a lungo, crediamo Nostro primo dovere di alzare subito la voce a riprovazione e condanna di tutto ciò che nelle funzioni del culto e nell’offìciatura ecclesiastica si riconosce difforme dalla retta norma indicata.

Essendo, infatti, Nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca per ogni modo e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa. Ed è vano sperare che a tal fine su noi discenda copiosa la benedizione del Cielo, quando il nostro ossequio all’Altissimo, anziché ascendere in odore di soavità, rimette invece nella mano del Signore i flagelli, onde altra volta il Divin Redentore cacciò dal tempio gli indegni profanatori.
Per la qual cosa, affinché niuno possa d’ora innanzi recare a scusa di non conoscere chiaramente il dover suo e sia tolta ogni indeterminatezza nell’interpretazione di alcune cose già comandate, abbiamo stimato espediente additare con brevità quei principii che regolano la musica sacra nelle funzioni del culto e raccogliere insieme in un quadro generale le principali prescrizioni della Chiesa contro gli abusi più comuni in tale materia.

E però di moto proprio e certa scienza pubblichiamo la presente Nostra Istruzione, alla quale, quasi a codice giuridico della musica sacra, vogliamo dalla pienezza della Nostra Autorità Apostolica sia data forza di legge, imponendone a tutti col presente Nostro Chirografo la più scrupolosa osservanza.

ISTRUZIONE SULLA MUSICA SACRA

I Principii generali.

1. La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione e edificazione dei fedeli. Essa concorre ad accrescere il decoro e lo splendore delle cerimonie ecclesiastiche, e siccome suo officio principale è dì rivestire con acconcia melodia il testo liturgico che viene proposto all’intelligenza dei fedeli, così il suo proprio fine è di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo, affinché i fedeli con tale mezzo siano più facilmente eccitati alla devozione e meglio si dispongano ad accogliere in sé i frutti della grazia, che sono propri della celebrazione dei sacrosanti misteri.

2. La musica sacra deve per conseguenza possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità.

Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori.

Deve essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull’animo di chi l’ascolta quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni.
Ma dovrà insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione all’udirle debba provarne impressione non buona.

II Generi di musica sacra.

3. Queste qualità si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto ch’essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza.

Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme.

L’antico canto gregoriano tradizionale dovrà dunque restituirsi largamente nelle funzioni del culto, tenendosi da tutti per fermo, che una funzione ecclesiastica nulla perde della sua solennità, quando pure non venga accompagnata da altra musica che da questo Soltanto.

In particolare si procuri di restituire il canto gregoriano nell’uso del popolo, affinché i fedeli prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura ecclesiastica, come anticamente solevasi.

4. Le anzidette qualità sono pure possedute in ottimo grado dalla classica polifonia, specialmente della Scuola Romana, la quale nel secolo XVI ottenne il massimo della sua perfezione per opera di Pier Luigi da Palestrina e continuò poi a produrre anche in seguito composizioni di eccellente bontà liturgica e musicale. La classica polifonia assai bene si accosta al supremo modello di ogni musica sacra che è il canto gregoriano, e per questa ragione meritò di essere accolta insieme col canto gregoriano, nelle funzioni più solenni della Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia. Dovrà dunque anche essa restituirsi largamente nelle funzioni ecclesiastiche, specialmente nelle più insigni basiliche, nelle chiese cattedrali, in quelle dei seminari e degli altri istituti ecclesiastici, dove i mezzi necessari non sogliono fare difetto.

5. La Chiesa ha sempre riconosciuto e favorito il progresso delle arti, ammettendo a servizio del culto tutto ciò che il genio ha saputo trovare di buono e di bello nel corso dei secoli, salve però sempre le leggi liturgiche. Per conseguenza la musica più moderna è pure ammessa in chiesa, offrendo anch’essa composizioni di tale bontà, serietà e gravità, che non sono per nulla indegne delle funzioni liturgiche.

Nondimeno, siccome la musica moderna è sorta precipuamente a servigio profano, si dovrà attendere con maggior cura, perché le composizioni musicali di stile moderno, che si ammettono in chiesa, nulla contengano di profano, non abbiano reminiscenze di motivi adoperati in teatro, e non siano foggiate neppure nelle loro forme esterne sull’andamento dei pezzi profani.

6. Fra i vari generi della musica moderna, quello che apparve meno acconcio ad accompagnare le funzioni del culto è lo stile teatrale, che durante il secolo scorso fu in massima voga, specie in Italia. Esso per sua natura presenta la massima opposizione al canto gregoriano ed alla classica polifonia e però alla legge più importante di ogni buona musica sacra. Inoltre l’intima struttura, il ritmo e il cosiddetto convenzionalismo di tale stile non si piegano, se non malamente, alle esigenze della vera musica liturgica.

III Testo liturgico.

7. La lingua propria della Chiesa Romana è la latina. È quindi proibito nelle solenni funzioni liturgiche di cantare in volgare qualsivoglia cosa; molto più poi di cantare in volgare le parti variabili o comuni della Messa e dell’Officio.

8. Essendo per ogni funzione liturgica determinati i testi che possono proporsi in musica, e l’ordine con cui devono proporsi, non è lecito né di confondere quest’ordine, né di cambiare i testi prescritti in altri di propria scelta, né di ometterli per intero od anche solo in parte, se pure le rubriche liturgiche non consentano di supplire con l’organo alcuni versetti del testo, mentre questi vengono semplicemente recitati in coro. Soltanto è permesso, giusta la consuetudine della Chiesa Romana, di cantare un mottetto al SS. Sacramento dopo il Benedictus della Messa solenne. Si permette pure che, dopo cantato il prescritto offertorio della Messa, si possa eseguire, nel tempo che rimane, un breve mottetto sopra parole approvate dalla Chiesa.

9. Il testo liturgico deve essere cantato come sta nei libri, senza alterazione o posposizione di parole, senza indebite ripetizioni, senza spezzarne le sillabe e sempre in modo intelligibile ai fedeli che ascoltano.

IV Forma esterna delle sacre composizioni

10. Le singole parti della Messa e dell’officiatura devono conservare anche musicalmente quel concetto e quella forma che la tradizione ecclesiastica ha loro dato, e che trovasi assai bene espressa nel canto gregoriano. Diverso dunque è il modo di comporre un introito, un graduale, un’antifona, un salmo, un inno, un Gloria in excelsis, ecc.

11. In particolare si osservino le norme seguenti:
a) Il Kyrie, Gloria, Credo, ecc. della Messa devono mantenere l’unità di composizione, propria del loro testo. Non è dunque lecito di comporli a pezzi separati, così che ciascuno di tali pezzi formi una composizione musicale compiuta e tale che possa staccarsi dal rimanente e sostituirsi con altra.

b) Nell’officiatura dei Vesperi si deve ordinariamente seguire la norma del Caerimoniale Episcoporum, che prescrive il canto gregoriano per la salmodia, e permette la musica figurata per i versetti del Gloria Patri e per l’inno.

Sarà nondimeno lecito, nelle maggiori solennità, di alternare il canto gregoriano del coro coi cosiddetti falsibordoni o con versi in simile modo convenientemente composti.

Si potrà eziandio concedere qualche volta che i singoli salmi si propongano per intero in musica, purché in tali composizioni sia conservata la forma propria della salmodia; cioè, purché i cantori sembrino salmeggiare tra loro, o con nuovi motivi, o con quelli presi dal canto gregoriano, o secondo questo imitati.

Restano dunque per sempre esclusi e proibiti i salmi cosiddetti di concerto.

c) Negli inni della Chiesa si conservi la forma tradizionale dell’inno. Non è quindi lecito di comporre p. es. il Tantum ergo per modo che la prima strofa presenti una romanza, una cavatina, un adagio, e il Genitori un allegro.

d) Le antifone dei Vesperi devono essere proposte d’ordinario con la melodia gregoriana loro propria. Se però in qualche caso particolare si cantassero in musica, non dovranno mai avere né la forma di una melodia di concerto, né l’ampiezza di un mottetto e di una cantata.

V Cantori.

12. Tranne le melodie proprie del celebrante all’altare e dei ministri, le quali devono essere sempre in solo canto gregoriano senza alcun accompagnamento d’organo, tutto il resto del canto liturgico è proprio del coro dei leviti, e però i cantori di chiesa, anche se sono secolari, fanno propriamente le veci del coro ecclesiastico. Per conseguenza le musiche che propongono devono, almeno nella loro massima parte, conservare il carattere di musica da coro.

Con ciò non s’intende del tutto esclusa la voce sola. Ma questa non deve mai predominare nella funzione, così che la più gran parte del testo liturgico sia in tale modo eseguita; piuttosto deve avere il carattere di semplice accenno o spunto melodico ed essere strettamente legata al resto della composizione a forma di coro.

13. Dal medesimo principio segue che i cantori hanno in chiesa vero officio liturgico e che però le donne, essendo incapaci di tale officio, non possono essere ammesse a far parte del Coro o della cappella musicale. Se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa.

14. Per ultimo non si ammettano a far parte della cappella di chiesa se non uomini di conosciuta pietà e probità di vita, i quali, col loro modesto e devoto contegno durante le funzioni liturgiche, si mostrino degni del santo officio che esercitano. Sarà pure conveniente che i cantori, mentre cantano in chiesa, vestano l’abito ecclesiastico e la cotta, e se trovansi in cantorie troppo esposte agli occhi del pubblico, siano difesi da grate.

VI Organo ed instrumenti musicali.

15. Sebbene la musica propria della Chiesa sia la musica puramente vocale, nondimeno è permessa eziandio la musica con accompagnamento d’organo. In qualche caso particolare, nei debiti termini e coi convenienti riguardi, potranno anche ammettersi altri strumenti, ma non mai senza licenza speciale dell’Ordinario, giusta la prescrizione del Caerimoniale Episcoporum.

16. Siccome il canto deve sempre primeggiare, così l’organo o gli strumenti devono semplicemente sostenerlo e non mai opprimerlo.

17. Non è permesso di premettere al canto lunghi preludi o d’interromperlo con pezzi di intermezzo.

18. Il suono dell’organo negli accompagnamenti del canto, nei preludi, interludi e simili, non solo deve essere condotto secondo la propria natura di tale strumento, ma deve partecipare di tutte le qualità che ha la vera musica sacra e che si sono precedentemente annoverate.

19. È proibito in chiesa l’uso del pianoforte, come pure quello degli strumenti fragorosi o leggeri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti, i campanelli e simili.

20. È rigorosamente proibito alle cosiddette bande musicali di suonare in chiesa; e solo in qualche caso speciale, posto il consenso dell’Ordinario, sarà permesso di ammettere una scelta limitata, giudiziosa e proporzionata all’ambiente, di strumenti a fiato, purché la composizione e l’accompagnamento da eseguirsi sia scritto in stile grave, conveniente e simile in tutto a quello proprio dell’organo.

21. Nelle processioni fuori di chiesa può essere permessa dall’Ordinario la banda musicale, purché non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani. Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il concerto musicale si restringesse ad accompagnare qualche cantico spirituale in latino o volgare, proposto dai cantori o dalle pie Congregazioni che prendono parte alla processione.

VII Ampiezza della musica liturgica.

22. Non è lecito, per ragione del canto o del suono, fare attendere il sacerdote all’altare più di quello che comporti la cerimonia liturgica. Giusta le prescrizioni ecclesiastiche, il Sanctus della Messa deve essere compiuto prima della elevazione, e però anche il celebrante deve in questo punto avere riguardo ai cantori. Il Gloria ed il Credo, giusta la tradizione gregoriana, devono essere relativamente brevi.

23. In generale è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella.

VIII Mezzi precipui

24. Per l’esatta esecuzione di quanto viene qui stabilito, i Vescovi, se non l’hanno già fatto, istituiscano nelle loro diocesi una Commissione speciale di persone veramente competenti in cose di musica sacra, alla quale, nel modo che giudicheranno più opportuno, sia affidato l’incarico d’invigilare sulle musiche che si vanno eseguendo nelle loro chiese. Né badino soltanto che le musiche siano per sé buone, ma che rispondano altresì alle forze dei cantori e vengano sempre bene eseguite.

25. Nei seminari dei chierici e negli istituti ecclesiastici, giusta le prescrizioni tridentine, si coltivi da tutti con diligenza ed amore il prelodato canto gregoriano tradizionale, ed i superiori siano in questa parte larghi di incoraggiamento e di encomio coi loro giovani sudditi. Allo stesso modo, dove torni possibile, si promuova tra i chierici la fondazione di una Schola Cantorum per l’esecuzione della sacra polifonia e della buona musica liturgica.

26. Nelle ordinarie lezioni di liturgia, di morale, di ius canonico che si danno agli studenti di teologia, non si tralasci di toccare quei punti che più particolarmente riguardano i principii e le leggi della musica sacra, e si cerchi di compierne la dottrina con qualche particolare istruzione circa l’estetica dell’arte sacra, affinché i chierici non escano dal seminario digiuni di tutte queste nozioni, pur necessarie alla piena cultura ecclesiastica.

27. Si abbia cura di restituire, almeno presso le chiese principali, le antiche Scholae Cantorum, come si è già praticato con ottimo frutto in buon numero di luoghi. Non è difficile al clero zelante d’istituire tali Scholae perfino nelle chiese minori e di campagna, anzi trova in esse un mezzo assai facile d’adunare intorno a sé i fanciulli e gli adulti, con profitto loro proprio e edificazione del popolo.

28. Si procuri di sostenere e promuovere in ogni miglior modo le scuole superiori di musica sacra dove già sussistono, e di concorrere a fondarle dove non si possiedono ancora. Troppo è importante che la Chiesa stessa provveda all’istruzione dei suoi maestri, organisti e cantori, secondo i veri principii dell’arte sacra.

IX Conclusione.

29. Per ultimo si raccomanda ai maestri di cappella, ai cantori, alle persone del clero, ai superiori dei seminari, degli istituti ecclesiastici e delle comunità religiose, ai parroci e rettori di chiese, ai canonici delle collegiate e delle cattedrali, e soprattutto agli Ordinari diocesani di favorire con tutto lo zelo queste sagge riforme, da molto tempo desiderate e da tutti concordemente invocate, affinché non cada in dispregio la stessa autorità della Chiesa, che ripetutamente le propose ed ora di nuovo le inculca

Il nuovo altare rivolto al popolo nelle chiese antiche: ambiguità, contraddizioni e forzature nella prassi e nella normativa.

di don Alfredo M. Morselli

Recentemente il Card. Kurt Koch[1], nel corso di una conferenza svolta presso la facoltà teologica dell’università di Friburgo[2], ha ribadito che “l’attuale odierna pratica liturgica non sempre trova il suo reale fondamento nel Concilio: per esempio, la celebrazione verso il popolo non è mai stata prescritta dal Concilio”[3].

Il Card. Joseph Ratzinger aveva scritto, in proposito, nel 2003:

Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l’altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo.

Non vi è nulla nel testo conciliare sull’orientamento dell’altare verso il popolo; quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis Missalis Romani, l’Introduzione Generale al nuovo Messale Romano pubblicata nel 1969, e afferma: «L’altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versus populum)».

Le Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza modifiche questa formulazione, tranne per l’aggiunta della clausola subordinata «la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile». In molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che dichiarò come la parola “expedit” (“è desiderabile”) non comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma che si deve distinguere l’orientamento fisico dall’orientamento spirituale. Anche se un sacerdote celebra versus populum, deve sempre essere orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù Cristo). Riti, simboli e parole non possono mai esaurire l’intima realtà del mistero della ed è per questo motivo che la ammonisce contro le posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito.

Si tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che, purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant’anni[4].

L’idea generalizzata secondo la quale c’è «un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”» ha fatto si che in quasi tutte le antiche chiese e cattedrali venisse costruito un nuovo altare maggiore senza rimuovere l’antico.

Ci chiediamo se ciò in realtà è coerente con la nuova normativa post-conciliare, o non sia piuttosto una forzatura, dovuta alle errate convinzioni che un nuovo altare rivolto al popolo sia obbligatorio e che questo non sia altro che l’indicazione del Concilio.

 

I – La prassi in contrasto con la normativa.

Vediamo cosa prescrive esattamente la normativa vigente:

Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso, realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l’attenzione dei fedeli dal nuovo altare[5].

La prassi abituale è in contrasto con la normativa perché questa prevede la possibilità di un secondo altare fisso soltanto in un caso particolare, ben definito (quando la partecipazione del popolo è resa difficile), mentre in pratica un nuovo altare è stato collocato in quasi tutte le chiese antiche.

La gravità di questa generalizzazione sta tutta nel suo presupposto implicito: con la celebrazione verso l’abside la partecipazione attiva sarebbe sempre resa difficile.

E qui notiamo un duplice errore: in primo luogo si dimentica che partecipazione attiva nella liturgia è la partecipazione al Sacrificio di Cristo.

Scriveva il Card.  Joseph Ratzinger nel 1999:

Il concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione liturgica l’espressione participatio actuosa, partecipazione attiva di tutti all’Opus Dei, al culto divino. […] In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa «actio» centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità[6].

 E qual è l’azione della liturgia ?

 La vera azione della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso[7].

Il Card. Joseph Ratzinger non ha certo detto, nelle sue pur profonde considerazioni, delle novità assolute. Questi stessi concetti erano già stati espressi da Pio XII, nel discorso Vous Nous avez demandé:

La liturgia della Messa ha come scopo di esprimere sensibilmente la grandezza del mistero che vi si compie, e gli sforzi attuali tendono a farvi partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente possibile. Benché questo intento sia giustificato, v’è pericolo di provocare una diminuzione della riverenza, se vien distolta l’attenzione dall’azione principale, per rivolgerla alla magnificenza di altre cerimonie.

   Qual è quest’azione principale del sacrificio eucaristico? Noi ne abbiamo parlato espressamente nell’Allocuzione del 2 novembre 1954. Noi riferivamo in primo luogo l’insegnamento del Concilio di Trento: «In divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus continetur et incruente immolatur, qui in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit… Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotum ministerio, qui se ipsum tunc in cruce obtulit, sola offerendi ratione diversa (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 2)» [8].

Commentiamo ora questo brano:

Giusti tutti gli sforzi che tendono a fare partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente… Ma… attenzione! – dice il Papa – , non si perda ciò che è principale, cioè la partecipazione all’Azione di Cristo!

Da un lato rimpiangiamo un po’ i pericoli di 50 anni fa: essere distolti dal cuore dell’azione liturgica dalla magnificenza delle cerimonie; oggi i pericoli sono i tanti ben peggiori abusi, accomunati da un comune denominatore: l’azione dell’assemblea viene a prevalere sull’azione di Cristo, sulla sua Immolazione Sacramentale, sul suo offrirsi: è a questa offerta che dobbiamo più che attivamente partecipare.

L’azione esterna, il fare, l’agire, non sono un valore assoluto, ma lo sono in tanto quanto ci permettono di unirci al Santo Sacrificio, tanto quanto ci permettono di essere quella gocciolina di acqua che il Sacerdote mette nel vino: questo gesto esprime come tutta la nostra vita viene sussunta nello stesso Sacrifico di Cristo, quel Sacrificio che realmente si riattualizza sull’Altare.

Se dunque la partecipazione liturgica è soprattutto l’unione al Sacrifico di Cristo, come è possibile che l’altare rivolto all’abside la renda difficoltosa? E come è possibile che per tanti secoli la Chiesa abbia creato difficoltà ai suoi figli in ciò che ha di più sacro? Eppure questo è il presupposto oggettivo della prassi generalizzata.

Vediamo ora il II errore: concediamo all’espressione partecipazione un significato meno tecnico, volendo indicare con essa semplicemente l’attenzione esteriore al rito, la partecipazione ai canti, il coinvolgimento nella gestualità: anche in questo caso, presupporre che, con l’altare rivolto verso l’abside, venga universalmente resa difficile la partecipazione del popolo (condizione necessaria – ricordiamo – per poter collocare un secondo altare fisso) è sempre una forzatura.

Scriveva a questo riguardo il Card. Giacomo Lercaro, in un documento ufficiale del Consilium ad exequendam Consitutionem de Sacra Liturgia:

In primo luogo, per una liturgia viva e partecipata non è necessario che l’altare sia rivolto al popolo. Tutta la liturgia della parola, nella messa, si celebra alle sedi o all’ambone, e dunque di fronte al popolo; per la liturgia eucaristica, le installazioni di microfoni, ormai comuni, aiutano sufficientemente alla partecipazione.

Inoltre bisogna tener conto della situazione architettonica e artistica la quale, in molti casi, è del resto protetta da severe leggi civili[9].

II – Altre forzature e incongruenze

Un secondo altare a tutti i costi rivolto al popolo, assunto nella prassi come principio della liturgia conciliare, mal si concilia con altri aspetti del rinnovamento liturgico e con altre norme. Almeno in due casi troviamo di fronte a delle vere e proprie acrobazie giuridiche.

1° principio disatteso: l’altare deve essere unico

Le norme in questo senso parlano chiaro; ecco un paio di esempi:

L’unico altare, presso il quale si riunisce come in un sol corpo l’assemblea dei fedeli, è segno dell’unico nostro Salvatore Gesù Cristo e dell’unica Eucarestia della Chiesa[10].

Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l’unico Cristo e l’unica Eucaristia della Chiesa[11].

Il noto liturgista, P. Matias Augé, per ribadire quanto – secondo lui – siano inopportuni gli altari laterali in una chiesa, evoca tutto il pathos di Sant’Ignazio d’Antiochia:

Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito” (Ai Magnesii VII,1)[12].

Ma se l’unicità dell’altare impedisce che si possa celebrare rivolti al popolo, allora ecco che un secondo altare diventa lecito. Che fare in questi casi: toglier le tovaglie e non adornare l’altare maggiore precedente. Una sorta di sbattezzo dell’altare.

Nel caso in cui l’altare preesistente venisse conservato, si eviti di coprire la sua mensa con la tovaglia e lo si adorni molto sobriamente, in modo da lasciare nella dovuta evidenza la mensa dell’unico altare per la celebrazione[13]

Ma, chiediamoci, è forse la tovaglia che rende un altare tale? Capolavori d’arte, adornati per secoli con tanta cura, con ricami, con fiori, con ceri, con tovaglie, ora lasciati nudi come non sono mai stati pensati da chi li ha fatti… e tutto perché l’altare deve essere unico, anche quando sono due.

2° principio disatteso: l’altare deve essere fisso

Conviene che in ogni chiesa ci sia l’altare fisso, che significa più chiaramente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva (Cf. 1Pt 2,4; Ef 2,20); negli altri luoghi, destinati alle celebrazioni sacre, l’altare può essere mobile.

L’altare si dice fisso se è costruito in modo da aderire al pavimento e non poter quindi venir rimosso; si dice invece mobile se lo si può trasportare[14].

E quando non si può celebrare rivolti al popolo, allora anche questo principio è derogato: si faccia l’altare mobile, che però deve essere definitivo.

L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbitèri, si studi, sempre d’intesa con le competenti Commissioni diocesane, l’opportunità di un altare «mobile» appositamente progettato e definitivo[15].

Qualora non sia possibile erigere un nuovo altare fisso, si studi comunque la realizzazione di un altare definitivo, anche se non fisso (cioè amovibile)[16].

Cosa vuol dire altare definitivo e mobile: che sia trasportabile ma che si sempre quello? Oppure che non sia murato definitivamente? Oppure che sia trasportabile, ma lasciato sempre al suo posto?

Questa indicazione sa tanto di acrobazia, per collocare in ogni caso un altare rivolto al popolo, anche quando c’è già un altare maggiore e quando la Sovrintendenza ai beni artistici non permette la costruzione di un nuovo altare fisso.

Conclusioni.

In base a quanto detto, l’idea dell’altare a tutti i costi rivolto al popolo, ritenuta generalmente – a torto – un principio conciliare per eccellenza, ha fatto sì che antiche chiese venissero adeguate indebitamente con un secondo altare fisso. Stando alla lettera della normativa, si tratta di un abuso: abuso pericoloso perché fa intendere che il modo di celebrare per tanti secoli abbia reso difficile la partecipazione del popolo alla liturgia.

Se il Concilio non ha mai parlato di celebrazione verso il popolo, l’idea che l’altare a tutti i costi debba essere ad esso rivolto, e il conseguente riadattamento forzoso degli antichi edifici di culto,  non sarà forse uno dei tristi effetti di ciò che Mons. Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiamato ideologia para-conciliarese il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità, ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento.  […] Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare[17].

Alla chiesa docente la risposta; a chi scrive, membro della chiesa discente, la possibilità di porre rispettosamente la domanda.


 [1] Attualmente presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e della Commissione per le Relazioni Religiose con gli Ebrei.

[2] http://www.oecumene.radiovaticana.org/ted/Articolo.asp?c=558608, visitato l’8 febbraio 2012.

[3] “Allerdings lasse sich nicht alles, was heute liturgische Praxis sei, durch Konzilstexte begründen. So sei beispielsweise nirgends die Rede davon, dass der Priester die Eucharistie den Gottesdienstteilnehmern zugewandt leite”.

[4] J. Ratzinger, prefazione a U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Siena: Cantagalli, 2006, p. 7.

[5] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 303.

[6] Joseph Ratzinger, Introduzione alla Spirito della Liturgia, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2001, p.167.

[7] Ibidem, p. 169.

[8] Discorso ai partecipanti al 1° Congresso internazionale di Liturgia Pastorale”, del 22 settembre 1956: la traduzione è presa da: Insegnamenti Pontifici, vol VIII, Roma: Pia Società San Paolo, 1959/2, pp. 354-374, passim.

[9] Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, Lettre circulaire aux Présidents des Conférences Episcopales L’heureux dévelopment pour indiquer quleques problèmes qui ont été soulevés, 25 janvier 1966 : Notitiae 2 (1966), 157-161; EV 2, 610.

[10] Dedicazione della chiesa e dell’altare, Premesse, § 158.

[11] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 303.

[12] http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-gli-altari-laterali-69559200.html

[13] Nota pastorale della Commissione Episcopale per la Liturgia – CEI L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, § 17. Molto più decoroso quanto prescrive l’ordinamento generale al § 303: “Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l’attenzione dei fedeli dal nuovo altare”

[14] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 298.

[15]  Principi e norme per l’uso del Messale Romano Precisazioni della Conferenza Episcopale Italiana, § 14.

[16] L’adeguamento delle chiese… § 17.

[17] Aspetti della ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II, conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, fatta ai sacerdoti europei della Fraternità San Pietro il 2 luglio2010 a Wigratzbad; cf. http://www.fssp.org/it/pozzo2010.htm, visitato l’8 febbraio 2012.

 

 

La frequenza dei fedeli alla Messa in forma straordinaria: problemi e soluzioni

di Daniele Di Sorco

1. La difficoltà aggregativa.

Chi ha la fortuna di ottenere una nuova celebrazione regolare nella forma straordinaria, si trova quasi sempre di fronte a un problema imprevisto e apparentemente insormontabile: la difficoltà di aggregare un ragionevole numero di fedeli e soprattutto di farlo crescere. Normalmente le cose vanno in questo modo. La prima volta, grazie alla novità dell’evento e alla solerzia degli organizzatori nell’invitare amici e conoscenti, si ottiene una partecipazione piuttosto cospicua. Essa, poi, decresce progressivamente, fino ad assestarsi, dopo circa un mese (se la celebrazione ha cadenza settimanale), su una media di circa trenta persone: poco più o poco meno a seconda della grandezza del centro abitato.

Questo fenomeno, che si verifica con puntualità sistematica ogni volta che si riesce ad avviare un nuovo (per usare un’espressione molto in voga) “centro di Messa”, scoraggia molti, sorprende tutti, appare inspiegabile a chi conosce, sia pur superficialmente, la situazione di altri Paesi europei, dove la frequenza alla Messa tradizionale è assai più significativa che in Italia. Tuttavia, se vogliamo che la conoscenza e la diffusione della liturgia in forma straordinaria si espanda e raggiunga strati sempre più ampi di fedeli, non dobbiamo fermarci alla fase dello scoraggiamento e dello stupore, ma interrogarci sulle cause del problema e individuare le soluzioni adatte per risolverlo.

2. Quali cause?

Non mi addentro nell’analizzare le ragioni storiche che hanno contribuito a creare nei fedeli una mens di per sé poco propensa verso la liturgia antica, in parte perché ritengo che siano abbastanza note, e in parte perché non rientrano nello scopo di questo contributo. L’abbandono della catechesi liturgica e la denigrazione della forma storica del rito romano sono state due costanti del periodo postconciliare fino al pontificato di Benedetto XVI.

Tutto ciò ha avuto in Italia conseguenze più disastrose che altrove, poiché, mentre nei Paesi francofoni e germanofoni il movimento liturgico era riuscito, fin dal primo dopoguerra, ad impartire al popolo una istruzione liturgica di medio livello, in Italia si cominciò a fare qualche passo nella medesima direzione solo a partire dagli anni Cinquanta. Le conseguenze sono facilmente immaginabili: l’ignoranza del rito storico da un lato, e la sua denigrazione dall’altro, hanno fatto sì che oggi la maggioranza dei cattolici italiani abbia serie difficoltà nell’apprezzare le caratteristiche della liturgia che la Chiesa ha ininterrottamente celebrato fino alla fine degli anni Sessanta.

Un altro problema è senza dubbio costituito dall’ostracismo di tanta parte del clero nei confronti della liturgia antica. Molti fedeli, specialmente quelli che hanno conosciuto la Messa tradizionale in gioventù, sono ben contenti di potervi nuovamente partecipare, ma il loro desiderio incontra non di rado un serio ostacolo nell’atteggiamento, per esempio, del parroco, che non si fa scrupolo di sconsigliare la frequenza alla Messa in forma straordinaria, tacciata di arretratezza, accusata di fomentare divisioni all’interno della Chiesa o indebitamente associata a istituti non in piena comunione con la Santa Sede. Poiché la persona media si fida ancora dell’opinione del proprio parroco o del proprio sacerdote di fiducia, il parere negativo di costoro influisce non poco sulla decisione di partecipare o non partecipare alle funzioni in forma straordinaria. Contro una tendenza del genere, i laici o anche le associazioni di laici possono fare ben poco, se non denunciare i casi più gravi alla competente autorità ecclesiastica.

A ciò deve aggiungersi la notevole difficoltà che si incontra nel divulgare la notizia della celebrazione in forma straordinaria al di là della cerchia degli amici e dei conoscenti o delle persone già in precedenza interessate. Il recente sontaggio effettuato dall’istituto Doxa ha rilevato come appena poco più della metà dei cattolici praticanti italiani conosce l’esistenza di una forma straordinaria del rito romano. Una situazione certamente non destinata a migliorare nel breve periodo, visto l’atteggiamento ostile di buona parte del mondo ecclesiastico. E se non c’è conoscenza, non può esserci neppure interessamento: nihil volitum, quin cognitum. Anche i parroci e i rettori che non sono a priori contrari accettano di mala voglia che nella bacheca delle loro chiese si affiggano notizie relative alla Messa tradizionale: non vedono di buon occhio la possibilità che qualcuno dei loro fedeli frequenti una realtà diversa da quella parrocchiale.

3. In che cosa precisamente consiste il problema.

La capacità della Messa tradizionale di aggregare fedeli, inoltre, è proporzionale alla correttezza e al fervore con cui viene celebrata. I documenti apostolici precedenti al Concilio che toccano la questione della partecipazione attiva sono concordi nell’affermare che essa ha come presupposto una funzione perfettamente conforme alle rubriche. “L’esempio principale [di partecipazione attiva] è offerto dal sacerdote celebrante e dai suoi ministri, i quali servono all’altare con la dovuta pietà interna e con l’esatta osservanza delle rubriche e cerimonie” (Sacra Rituum Congregatio, Instructio de Musica sacra et de sacra Liturgia, 3 sett. 1958, n. 22).

Le ragioni sono intuitive. La liturgia ha il fine di elevare il popolo al divino, non di abbassare il divino al livello del popolo. I riti, pertanto, devono svolgersi dappertutto allo stesso modo e non possono essere modificati o adattati alle esigenze, vere o presunte, della comunità locale. Diversamente si scade in quel particolarismo che costituisce uno dei più gravi difetti della liturgia riformata e che non consegue alcun risultato sul piano pastorale, poiché l’unità della preghiera corrisponde all’unità della fede. Le statistiche dimostrano che l’esodo dalle chiese è cominciato proprio quando il rito, da universale e stabile, si è trasformato in particolare e variabile.

Ora, non è un mistero che moltissime delle attuali Messe in forma straordinaria si caratterizzano per la molteplicità di abusi o per la negligenza e la superficialità con cui vengono osservate le norme. Ciò avviene talvolta in mala fede, nel caso in cui al celebrante interessi poco o nulla del rito tradizionale, talaltra e più spesso in buona fede, quando il sacerdote crede, mettendo in pratica quegli adattamenti che egli ritiene opportuni, di agevolare la partecipazione popolare.

Abbiamo visto poco sopra come questo atteggiamento, oltre ad essere contrario alle leggi ecclesiastiche, che riservano esclusivamente alla Santa Sede la regolazione del rito e dei singoli suoi particolari, non porta ad alcun risultato positivo. Esso risente della mentalità tipica della liturgia riformata e fa della forma straordinaria qualcosa di altrettanto variabile e adattabile che la forma ordinaria. In questo modo ai fedeli è impossibile conoscere la liturgia antica nella sua vera essenza.

Opposto a questo, ma non meno dannoso, è l’atteggiamento di chi non si preoccupa in alcun modo di curare la partecipazione attiva dei fedeli. Molti, una volta ottenuta la celebrazione regolare, non si interessano più del suo funzionamento e lasciano che la cosa vada avanti per forza di inerzia. Non è raro assistere, anche nei giorni festivi, a una Messa completamente piana, dalla quale sono completamente estromesse, non dico le forme moderne e deviate, ma quelle tradizionali e raccomandabili di partecipazione attiva: i libretti bilingue su cui seguire la funzione o mancano del tutto o sono inefficaci, perché privi di indicazioni spirituali e pastorali; il canto, sia quello liturgico che quello popolare, è assente, come pure il suono dell’organo; il servizio all’altare, quando c’è, si caratterizza per sciattezza e superficialità.

Cose del genere sono forse sopportabili nella forma ordinaria, dove la lingua volgare e la familiarità dei riti suppliscono alla povertà esteriore della cerimonia, ma risultano deleterie nella forma straordinaria, che fa della sacralità del rito e dell’apparato con cui si celebra uno dei suoi punti di forza.

4. Disorganizzazione e disunione.

La rassegna dei problemi va conclusa con quello che, a mio avviso, è il principale e dal quale derivano tutti gli altri: l’incapacità di dare vita ad una vera e propria comunità. O, se si vuole, l’incapacità di costruire qualche cosa che vada oltre la Messa, pur conservando la Messa come centro e trait d’union. Non bisogna dimenticare che la liturgia in forma straordinaria non è che una componente, importantissima ma pur sempre una componente, del più vasto ambito della Tradizione cattolica. Molti, invece, tendono a farne un traguardo al di là del quale non importa andare. Su questo punto bisogna intendersi.

Mi rendo perfettamente conto che, specialmente in alcuni luoghi, riuscire ad ottenere una Messa regolare è già un grande risultato. Né sono all’oscuro che in molti casi le forze a disposizione sono scarse e non consentono di andare oltre un certo limite. Ma il problema della mancanza di coesione e dello scarso attivismo extraliturgico riguarda non solo i centri di Messa in formazione, ma anche quelli esistenti da tempo e ormai ben consolidati.

Tra le cause, bisogna annoverare anzitutto una diffusa mancanza di coraggio e di iniziativa. Si ha l’impressione, certe volte, che i fautori della liturgia tradizionale, forse anche a causa della lunga fase catacombale alla quale sono stati per decenni costretti, abbiano sviluppato una specie di allergia ad occuparsi dei gravi problemi che travagliano la Chiesa di oggi. Non che essi non se ne interessino o non ne parlino. Lo fanno, certo, ma quasi sempre nell’ambito della propria ristretta cerchia, stando ben attenti a non esporsi troppo all’esterno.

Per quanto possa apparire paradossale, ho conosciuto alcune persone che frequentano la Messa tradizionale quasi di nascosto; altre che se ne vergognano; altre ancora che evitano qualunque rapporto con gli altri fedeli che frequentano la funzione. Pochi sono disposti ad assumersi incarichi organizzativi. Pochissimi sono d’accordo con l’idea di iniziative extraliturgiche. Sembra che lo spirito individualista del postconcilio abbia preso piede anche negli ambienti legati alla Tradizione e che molti vedano nella Messa tradizionale nient’altro che un modo per soddisfare le proprie (peraltro legittime) esigenze di ordine spirituale.

È noto che la mancanza di coesione e di unità è una delle cause più formidabili di disgregazione. “Omne regnum in se ipsum divisum, desolabitur“, insegna il Vangelo (Luc. 11, 17). Tale, duole ammetterlo, è la situazione, almeno nel nostro Paese, di molte chiese e cappelle nelle quali si celebra la liturgia tradizionale, col risultato di deludere prima e allontanare poi i potenziali frequentatori. Essi, infatti, cercano nelle realtà legate al rito antico ciò che non riescono più a trovare nelle proprie parrocchie: non solo, quindi, una celebrazione degna della sacra liturgia, ma anche un’occasione per approfondire la dottrina cristiana e condividere con gli altri le proprie riflessioni od esperienze in un ambiente non avvelenato dal secolarismo e dal progressismo. Se in passato le associazioni di fedeli laici, come le confraternite e le pie unioni, hanno avuto un grande successo in termini numerici e spirituali, è proprio perché, oltre al loro fine specifico, hanno saputo valorizzare nel dovuto modo la dimensione aggregativa.

Certo, è impensabile che le realtà legate alla tradizione si pongano come alternativa alle parrocchie. Il motu proprio di Benedetto XVI lo esclude esplicitamente, identificando appunto nella parrocchia il luogo ordinario di celebrazione della forma straordinaria. Ciò non toglie, tuttavia, che esse possano svolgere un ruolo complementare a quello della parrocchia, proprio come le confraternite, favorendo in particolar modo la conoscenza della Tradizione cattolica in ogni suo aspetto, non soltanto liturgico.

Dalla nostra capacità di trasformare, nei modi e nei tempi opportuni, le realtà legate alla tradizione in autentiche comunità, simili al lievito che fa gonfiare la pasta (cfr. Mt. 13, 33), dipende il successo o l’insuccesso della nostra causa.

5. Proposte di soluzione. Il ruolo del clero.

Finora ho cercato di tracciare un quadro abbastanza completo, benché sintetico, dei problemi che determinano un’affluenza di fedeli alla liturgia tradizionale inferiore alle aspettative. Individuare le soluzioni non è lavoro di una persona sola. Mi limiterò, pertanto, ad alcune considerazioni e proposte, in attesa che altri esaminino la questione e avanzino proposte.

Anzitutto, un’osservazione preliminare. Il ruolo dei laici è senza dubbio importante, ma una reale svolta nell’organizzazione e nella gestione delle funzioni in forma straordinaria potrà avvenire solo quanto il clero comincerà, in modo generale e sistematico, a prendere coscienza dell’importanza dell’iniziativa e ad occuparsene in prima persona. L’esperienza dimostra che nei luoghi in cui è stato il parroco a farsi carico dell’organizzazione e della divulgazione del rito tradizionale, la frequenza dei fedeli risulta significativamente più alta. Per contro, laddove la maggior parte del clero ostenta contrarietà o sufficienza nei confronti della forma straordinaria e inculca una mentalità liturgica ad essa contraria, i gruppi di fedeli laici, per quanto organizzati e coordinati, non possono fare molto.

Nel nostro Paese, infatti, esiste ancora la tendenza di fidarsi ciecamente del parere del clero, specialmente in questioni che riguardano direttamente l’ambito ecclesiastico. Un atteggiamento del genere, nell’odierno contesto, ha vantaggi e svantaggi. Tra gli svantaggi, il rischio di adeguamento ad opinioni discutibili, non conformi alla mente del Santo Padre o addirittura sconfinanti nell’eterodossia. Tra i vantaggi, la possibilità di divulgare su vasta scala posizioni in linea con la Tradizione cattolica. Tutto dipende dalla persona con cui si ha a che fare.

Nell’opinione di chi scrive, quindi, il coinvolgimento sistematico del clero nella causa della liturgia tradizionale costituirà il vero punto di svolta di una situazione altrimenti destinata ad evolversi con molta lentezza. Da questo punto di vista, non è azzardato coltivare buone speranze. Risulta, infatti, che una buona parte del giovane clero è interessata alla questione liturgica e, più in generale, alla riscoperta della Tradizione cattolica nel suo complesso. Grazie ad una nuova ondata di studi liturgici, cominciano a perdere molto del loro vigore quei pregiudizi che hanno portato alla denigrazione delle forme rituali storiche e all’esaltazione smodata e acritica di quelle attuali. Inoltre il crescente interesse verso il rito tradizionale da parte dei fedeli sollecita una risposta adeguata da parte del clero.

In Italia la strada da fare è ancora lunga, ma in Francia i fedeli legati alla forma straordinaria del rito romano rappresentano una porzione molto significativa del totale dei praticanti, ed essendo i più prolifici sul piano vocazionale, sono destinati a divenire, nell’arco di qualche decennio, la maggioranza. Una situazione che i vescovi, volenti e nolenti, non potranno ignorare.

6. Il ruolo dei laici.

In attesa che il clero si decida a fare le sue mosse, però, è evidente che i laici non possono restare inerti. È ad essi che spetta preparare il terreno per un un ritorno più generalizzato della liturgia romana storica, non solo nella pratica ecclesiale, ma anche nella mentalità dei cattolici. Ciò si ottiene non soltanto moltiplicando il numero delle chiese in cui si celebra l’antico rito, ma anche facendo in modo, con tutti gli accorgimenti suggeriti dalle norme ecclesiastiche e dal buon senso, che esso sia officiato in maniera veramente degna, attenta, devota, tale da veicolare ai partecipanti il senso genuino della liturgia. In questo modo sarà facile, anche per i non esperti, sperimentare l’alta spiritualità che caratterizza la liturgia romana classica.

7. Il celebrante.

Il punto di partenza è costituito, naturalmente, dal celebrante. Mi rendo conto che in molte diocesi, nonostante il motu proprio, vige ancora la prassi della nomina episcopale: in questi casi, è necessario accontentarsi, almeno per il momento, di chi si ha a disposizione, anche se si tratta di persone che, per età, preparazione o scarso interesse, si rivelano impari all’incarico loro affidato. Diversamente è opportuno affidarsi a un sacerdote che dimostri vero interesse per il rito antico e sincera disponibilità ad impararne nel dettaglio le norme.

Il modo di celebrare, infatti, riflette in modo assai eloquente la visione che si ha della liturgia e più in generale della religione cattolica. Il sacerdote sciatto, superficiale, disattento, che bada più al funzionamento del microfono che al modo con cui tocca le sacre Specie, non stimola certo pietà o devozione. Invece il sacerdote che è, ed appare anche esteriormente, tutto preso dal rito, dall’azione sacra e da ciò che essa significa, coinvolge anche i fedeli nel suo processo di elevazione verso il divino. Gli effetti sul popolo delle Messe celebrate dai Santi ne sono la prova.

Tutto ciò, com’è evidente, ha come presupposto il rispetto scrupoloso, puntuale e attento delle rubriche. Il rito romano antico non è difficile. Lo è forse rispetto al rito romano riformato, che in molte cose ha rimpiazzato il principio dell’uniformità con quello della creatività, non certo rispetto ai riti orientali, che sono infinitamente più complessi. Il vero scoglio per chi, abituato alla forma ordinaria, si accosta per la prima volta alla forma straordinaria è costituito più dalla mentalità che dalla differenza tra le singole norme. La forma ordinaria ha abituato molti all’idea che, per celebrare in modo decente, sia sufficiente conoscere il rito nelle sue linee generali, affidandosi, per il resto, all’iniziativa personale o a vaghe e indefinite reminescenze.

Naturalmente qui non ci si riferisce ai lapsus o alle distrazioni cui può andare incontro la memoria, ma ad un atteggiamento di programmata e sistematica negligenza verso le prescrizioni dei libri liturgici. È normale, per esempio, scordarsi di espandere le mani durante l’orazione; meno normale trascurare deliberatamente la norma che prescrive questo gesto e regolarsi in base al proprio arbitrio. Un tale modo di pensare, dannoso per la forma ordinaria, per la forma straordinaria è distruttivo, visto che essa, al pari delle altre liturgie storiche, fa dell’uniformità e dell’esattezza rituale il suo punto di forza.

Non meno distruttivo è l’atteggiamento di coloro che, sostituendosi alla Santa Sede, introducono arbitrariamente modifiche e adattamenti nel rito oppure operano improbabili commistioni tra la forma ordinaria e quella straordinaria. In questo modo, la struttura del rito risulta snaturata, il significato delle singole parti oscurato o travisato, la spiritualità della liturgia distrutta.

Una delle variazioni più frequenti consiste nel recitare ad alta voce le parti che secondo le rubriche vanno dette secreto, trasformando così la Messa in una specie di rappresentazione teatrale, nella quale il pubblico deve udire tutto, e dimenticando i motivi profondi che stanno alla base delle prescrizioni ecclesiastiche. Il tono di voce inintellegibile, infatti, si usa sia per distinguere le parti private (introdotte, cioè, soprattutto per la devozione del sacerdote) dalle parti pubbliche della Messa, sia per ragioni mistiche (come nel caso del Canone, in cui l’uso del tono di voce inintellegibile serve per sottolineare la sacralità e la grandezza dei misteri che in esso si compiono). Eliminarlo o ridurlo a seconda del proprio arbitrio significa alterare la natura del rito, ostacolandone, anziché agevolandone, la fruizione. Lo stesso dicasi per l’introduzione del volgare in parti diverse dalle letture e per altri abusi di minore o maggiore entità.

La conoscenza delle rubriche, naturalmente, è di competenza del sacerdote. Capita spesso, tuttavia, che egli, accostandosi per la prima volta al rito antico, non sappia dove cercare le rubriche che gli interessano o non sia in grado di coordinarle fra loro. Oggi, per fortuna, esistono numerosi sussidi che permettono di rimediare a questa difficoltà. È compito dei laici segnalarli o procurarli al sacerdote. Qui mi limito a indicare i principali.

Innanzi tutto, il video esplicativo della Messa, realizzato a cura della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” e pubblicato sul sito Maranatha. Poi, sempre sullo stesso sito, la traduzione italiana delle Rubriche generali, delle Rubriche generali del Messale Romano e del Ritus servandus: quest’ultimo contiene le istruzioni dettagliate su come celebrare la Messa in forma straordinaria. Ulteriori informazioni si trovano sugli altri siti internet dedicati alla liturgia tradizionale. I più esperti possono ricorrere a un manuale del 1963 recentemente ristampato: L. Trimeloni, Compendio di Liturgia pratica, Milano, Marietti, 2007. Infine, per ordinare le varie parti della Messa a seconda del giorno liturgico, senza dover ogni volta consultare le rubriche, si può ricorrere a un mio lavoro: Ordo Missae celebrandae et divini Officii persolvendi, Danielis Di Sorco cura et studio, Senae, Cantagalli, 2009, che offre anche, nella prima parte, un riassunto schematico delle principali norme.

Non è inopportuno che i laici dotati di una certa competenza rubricale facciano notare al sacerdote le sviste e gli errori che egli commette nel celebrare, purché ciò avvenga con la dovuta delicatezza e solo nel caso di errori ricorrenti. Si ricordi che, se da un lato bisogna evitare la sciattezza, dall’altro non bisogna spingere verso un eccessivo perfezionismo. Per imparare a celebrare bene la Messa tradizionale il sacerdote inesperto ha bisogno di tempo e di esperienza: non avere pazienza nei suoi confronti o pretendere subito una funzione perfetta in ogni dettaglio è semplicemente assurdo.

8. Il servizio all’altare.

Un altro aspetto che richiede la massima cura è il servizio all’altare. Per esso valgono, mutatis mutandis, le stesse considerazioni che abbiamo fatto a proposito del sacerdote: un servizio devoto, attento, rispettoso delle norme sarà motivo di decoro per la funzione e di edificazione per i fedeli; al contrario, un servizio lasciato al caso o affidato a persone impreparate sarà motivo di distrazione e di disordine. Si ricordi che, secondo la citata Instructio della S. Congregazione dei Riti, “i laici di sesso maschile, sia fanciulli che giovani o adulti, quando vengono deputati dalla competente autorità ecclesiastica al ministero dell’altare, […] se assolvono tale ufficio nel modo e nella forma voluta dalle rubriche, esercitano anch’essi un servizio ministeriale diretto, ma delegato” (n. 93 c).

È necessario, quindi, che questo importante incarico sia assunto da persone disposte a svolgerlo nel migliore dei modi. In genere si preferiscano gli adolescenti e i giovani, sia per coinvolgerli più direttamente nella celebrazione nel culto e favorire così eventuali vocazioni al sacerdozio, sia per la loro maggiore predisposizione ad imparare e a memorizzare. Ma non bisogna pensare, come fanno in molti, che il servizio all’altare sia cosa esclusivamente da giovani. Anzi, se i ragazzi che frequentano la Messa tradizionale si rivelassero meno adatti, per ragioni oggettive, a svolgere questo compito, è meglio che se ne faccia carico qualche adulto.

Per imparare a servire all’altare o per verificare se il servizio svolto sia effettivamente conforme alle rubriche, come stabilisce la Instructio testé citata, è possibile valersi di un gran numero di sussidi, disponibili sia su internet sia in formato cartaceo. Tra di essi mi permetto di segnalare un lavoro al quale ho collaborato e che si occupa ex professo dell’argomento: E. Cuneo – D. Di Sorco – R. Mameli, Introibo ad altare Dei. Il servizio all’altare nella liturgia romana tradizionale, Verona, Fede & Cultura, 2008. Per chi può, la soluzione più pratica ed efficace consiste nell’imparare da chi sa già servire.

Si tenga presente, inoltre, che il numero di persone che servono all’altare, secondo le disposizioni della Sacra Congregazione dei Riti, dev’essere regolato in base alla solennità. Esso normalmente è di uno per la Messa letta semplice, due per la Messa letta con qualche elemento di solennità (come, per esempio, la Messa domenicale, la Messa accompagnata, la Messa cum canticis e quando un chierichetto inesperto debba imparare a servire da un altro più esperto) e per la Messa cantata, tre o quattro (due assistenti e turiferaio) per la Messa cantata con incenso, salvo casi particolari. Questo per quanto riguarda il servizio vero e proprio. Ma, per ragioni di solennità o per svolgere mansioni di minor conto, nulla vieta di impiegare un numero maggiore di chierichetti, specialmente nei giorni festivi. In ogni caso, bisogna fare in modo che l’impiego di un servizio numeroso non si risolva in una cattiva suddivisione dei compiti: in certe cappelle non è raro vedere cinque o sei persone che servono una Messa letta e nessuno che si occupa, per esempio, del canto o di altri incarichi.

Della preparazione della chiesa e della manutenzione delle suppellettili potranno occuparsi, a seconda dei bisogni, sia i chierichetti sia qualche altra persona capace e disposta ad assumersi l’incarico. Certamente bisogna evitare che la celebrazione della Messa tradizionale avvenga con arredi non perfettamente puliti. Spetta al gruppo dei fedeli farsi carico, se necessario, di questa grave incombenza.

9. La musica sacra.

Fin qui ci siamo occupati degli elementi indispensabili a tutte le funzioni: il sacerdote celebrante, i ministranti, le suppellettili del culto. Curare attentamente questi tre aspetti comporta già una significativa elevazione delle celebrazioni in forma ordinaria rispetto al livello medio della liturgia attuale. Ad essi può aggiungersene un quarto, che, pur non essendo strettamente indispensabile, riveste un’importanza fondamentale sia in ordine alla solennità e al decoro del culto sia in ordine alla partecipazione attiva dei fedeli. Mi riferisco alla musica e al canto sacro.

È triste dover constatare che spesso le funzioni in forma straordinaria non sono migliori, sul piano musicale, delle funzioni in forma ordinaria. Ancor più triste è accorgersi che ciò avviene non per mancanza di mezzi, ma per negligenza o, quel che è peggio, per pregiudizio verso le funzioni in canto, ritenute addirittura responsabili di ostacolare la partecipazione popolare. Questo spiega perché in molte chiese, anche quando c’è la possibilità di realizzare una Messa in canto, si preferisca la forma cosiddetta dialogata. L’esperienza, tuttavia, dimostra che i fedeli che assistono per la prima volta al rito tradizionale rimangono più colpiti da una Messa in canto o almeno da una Messa cum canticis piuttosto che da una Messa completamente piana.

Del resto, la forma primitiva e originaria della Messa è quella in canto, che pertanto mantiene ancora oggi il massimo grado di coerenza, efficacia e solennità rituale. In antico tutte le celebrazioni erano in canto e tale consuetudine si manitene ancora oggi presso alcune Chiese orientali dissidenti. Soltanto in un secondo tempo, col diffondersi delle Messe private e la conseguente esigenza di semplificare la celebrazione, si addivenne alla forma “letta”. D’altra parte, la partecipazione attiva del popolo al santo Sacrificio è sempre avvenuta attraverso il canto: canto liturgico in latino alle funzioni solenni, canto popolare in latino e soprattutto in volgare alle funzioni lette. La Messa dialogata è relativamente recente (cominciò a diffondersi su larga scala solo a partire dagli anni Venti) e non esclude, ma integra, la partecipazione attraverso il canto.

Pertanto, se si vuole incrementare la solennità e la bellezza delle funzioni in forma straordinaria ed agevolare così la presenza dei fedeli, è necessario curarne di più l’aspetto musicale.

10. La Messa cantata.

L’ideale sarebbe celebrare la Messa cantata ogni domenica. Non si tratta di un obiettivo irraggiungibile neppure per quelle chiese che non possono disporre di un vero e proprio coro. L’Ordinario può essere sempre eseguito dal popolo su melodie semplici e note, come la Missa de Angelis o altre Messe in musica appositamente scelte. Per quanto riguarda il canto del Proprio, molti si lasciano scoraggiare dalle complicate melodie contenute nel Graduale o nel Liber usualis, dimenticando che esse possono essere legittimamente rimpiazzate da un semplice tono salmodico o addirittura dal tono retto (Instructio cit., n. 21 c).

Affinché l’esecuzione dei canti, specialmente di quelli del Proprio, avvenga in maniera decente e ordinata, è opportuno eseguire una piccola prova, anche subito prima dell’inizio della funzione, e costituire un gruppo di persone di buona voce e sicura intonazione che sia in grado di guidare il resto del popolo. Benché in genere sia piuttosto semplice procurarsi un organista, non bisogna vincolare alla sua presenza l’esecuzione dei canti.

A me pare che questo minimum possa essere raggiunto dappertutto. Il popolo non rimane estraneo alla sacra azione, ma vi partecipa nel modo più appropriato, cioè mediante l’esecuzione dei canti liturgici ad esso spettanti. Chi ha mezzi maggiori, naturalmente, può andare oltre e costituire un vero e proprio coro, capace di eseguire pezzi più difficili e più belli (per esempio, le melodie gregoriane del Proprio, canti polifonici, ecc.). Si badi però di lasciare sempre al popolo, salvo casi particolarissimi, l’esecuzione di almeno una parte dei canti della Messa. Una buona soluzione è affidare al coro il Proprio e i mottetti d’Offertorio e di Comunione, riservando al popolo l’Ordinario.

Laddove, per vari motivi, non è possibile celebrare la Messa cantata con frequenza regolare, si cerchi di utilizzare questa forma almeno nelle maggiori solennità. Nelle altre circostanze, la norma dovrebbe essere costituita da una Messa letta non solo dialogata, ma anche cum canticis o almeno accompagnata.

11. La Messa letta dialogata e cum canticis.

Che cosa sia la Messa dialogata tutti lo sanno. In Italia è ormai divenuta la forma normale di celebrazione della Messa letta. Non è quindi il caso di dilungarci troppo su di essa, se non per osservare che, dei quattro grado di partecipazione previsti dalla citata Instructio della S. Congregazione dei Riti (n. 31), il più adatto alle circostanze ordinarie è senza dubbio il terzo, che prevede la recita da parte del popolo delle risposte liturgiche e di alcune parti dell’Ordinario della Messa (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus-Benedictus, Agnus Dei), mentre il quarto, come precisa la stessa Instructio, è bene riservarlo a “gruppi scelti di persone colte e ben preparate”, quali le comunità religiose, poiché la recita comune delle parti del Proprio, se non è debitamente preparata in anticipo, si risolve in un confuso affastellamento di voci.

Meno nota e meno praticata della Messa dialogata, ma più tradizionale di questa per origine e per fisionomia, è la cosiddetta Messa cum canticis. Ho detto meno nota perché in genere le norme che regolano l’esecuzione dei canti alla Messa letta sono poco conosciute e spesso per paura di sbagliare si preferisce non fare nulla.

Cominciamo subito col dire che con l’espressione “Messa letta” si intende una Messa nella quale tutte le parti liturgiche, sia quelle dell’Ordinario che quelle del Proprio, sono dette senza canto, ad alta o bassa voce secondo quanto previsto dalle rubriche (Rubricae generales Missalis romani, 271). Ciò non esclude, tuttavia, che nei momenti di silenzio o quando il sacerdote prega prolungatamente sottovoce si eseguano canti religiosi non liturgici, il cui testo, cioè, non è tratto dall’Ordinario o dal Proprio della Messa del giorno. Anzi, i documenti della Santa Sede lo consentono esplicitamente: “Nelle Messe lette i fedeli possono cantare canti popolari religiosi, a condizione però che questi siano strettamente intonati alle singole parti della Messa” (Instructio cit., n. 33). Questi canti prendono il nome di mottetti e, non essendo strettamente liturgici, possono essere sia in latino che in volgare e abbracciare vari generi musicali.

La Messa cum canticis offre dunque l’opportunità di riscoprire ed eseguire nel cuore stesso della liturgia quell’inestimabile patrimonio di canti religiosi popolari tanto caro alla pietà popolare e altrimenti destinato all’oblio. Consente inoltre di temperare quei lunghi momenti di silenzio che per molti, almeno in un primo momento, costituiscono un serio ostacolo alla fruizione della Messa tradizionale. Del resto, se è vero che il silenzio è fondamentale per la meditazione e la preghiera personale, è anche vero che la Messa è specialmente destinata alla preghiera comunitaria e che la Messa in canto non prevede tanto silenzio quanto la Messa letta. Il canto non liturgico, inolte, può essere considerato in qualche modo una forma di silenzio meditato.

A chi oggi dimostra poca simpatia per la Messa cum canticis è opportuno ricordare che questa era tradizionalmente la forma normale della Messa letta nelle domeniche e nei giorni festivi. Nei paesi di lingua tedesca si era arrivati al punto di eseguire i canti popolari anche durante quelle parti che il sacerdote avrebbe dovuto dire ad alta voce. Ciò spiega la presenza di canti, non solo “all’ingresso” o “all’Offertorio”, ma anche “al Gloria“, “al Sanctus” e addirittura “al Vangelo” nella celebre Deutsche Messe di Michael Haydn. Una prassi del genere è certamente eccessiva, poiché sovrappone alla Messa vera e propria una specie di paraliturgia popolare in volgare, ma dimostra comunque la diffusione della Messa cum canticis e l’attaccamento che il popolo dimostrava verso di essa. Personalmente sono convinto che una maggior diffusione di questa forma, integrata e non sostituita alla Messa dialogata, renderebbe le funzioni in forma straordinaria più degne, più solenni, più fruibili anche da parte dei non esperti.

Vengo ora ad alcune indicazioni pratiche. Alla Messa letta i mottetti possono essere eseguiti in tutti o in alcuni dei seguenti momenti: 1) all’ingresso del sacerdote celebrante; 2) mentre il sacerdote recita il Munda cor meum prima del Vangelo; 3) all’Offertorio, da dopo la recita dell’antifona fino alla lavanda delle mani o alla Secreta; 4) dopo il Sanctus fino alla consacrazione esclusa; 5) dopo la consacrazione fino al termine del Canone; 6) dopo l’Agnus Dei fino alla Comunione del celebrante; 7) durante la Comunione dei fedeli; 8) all’uscita del celebrante, dopo l’ultimo Vangelo o le preci leonine.

Quanto al repertorio, la scelta è piuttosto vasta. Si va dai canti popolari o composti ad uso del popolo fino a pezzi più complessi, gregoriani o polifonici, la cui esecuzione può essere in certi casi affidata a un coro. Esistono anche serie di mottetti scritte appositamente per accompagnare la Messa letta. Tra tutte ricordiamo la versione italiana della Deutsche Messe di M. Haydn (Celebre Messa popolare: dieci canti per la messa piana a 4 voci dispari con o senza organo, nuova edizione curata dal M. Francesco Bagnoli. Firenze, Maurri, s.d.) e I canti del popolo alla Santa Messa di D. Bartolucci (Roma, A.I.S.C., 1954). Diverse serie di mottetti, in latino e in italiano, offre il Manuale diocesano pubblicato nel 1955 dell’arcidiocesi di Firenze.

Se si impiegano singoli mottetti, è necessario che essi siano adatti al momento della Messa in cui vengano eseguiti (Instructio cit., n. 30). A puro titolo esemplificativo, si possono menzionare i seguenti canti: Al tuo santo altar all’ingresso; Signor, di spighe indori all’Offertorio; una parafrasi del Sanctus (come È Santo dalla ricordata Messa popolare di Haydn) o un canto di giubilo dopo il Sanctus; un mottetto eucaristico, come Ave, verum o O salutaris, dopo la Consacrazione, dopo l’Agnus Dei e alla Comunione; un mottetto di ringraziamento alla fine. Le possibilità, come ho detto, sono molte; ma certamente non avrebbe senso eseguire un mottetto eucaristico all’Offertorio o un canto di mestizia dopo la Consacrazione. Per la preparazione dei canti, valgono gli stessi consigli dati a proposito della Messa in canto.

12. La Messa “accompagnata”.

Nelle celebrazioni occasionali è talvota difficile organizzare persino una Messa cum canticis. Conviene allora ricorrere ad una forma oggi poco usata ma un tempo molto diffusa, specialmente nei giorni feriali: la Messa cosiddetta accompagnata. Si tratta di una Messa letta durante la quale, negli stessi momenti in cui sono consentiti i mottetti, si suona l’organo (cfr. Instructio cit., n. 29). Se ciò avviene in modo conforme alle diverse parti della liturgia, il suono dello strumento costituisce non un semplice accompagnamento, ma un vero e proprio aiuto alla preghiera e alla meditazione. Naturalmente, è necessario che l’organista abbia le conoscenze liturgiche e musicali sufficienti per svolgere in modo adeguato il proprio compito.

13. Messa letta e Messa in canto.

Chi si occupa dell’organizzazione dei canti e della musica, tanto alla Messa in canto quanto alla Messa letta, deve conoscere dettagliatamente le norme ecclesiastiche in materia, ricavate dalla più volte menzionata Instructio della Sacra Congregazione dei Riti, il cui testo, in traduzione italiana, si trova sul sito Maranatha.

Qui mi preme soltanto ricordare una norma spesso disattesa. La Messa in canto e la Messa letta sono, nel rito tradizionale, due forme ben distinte. Pertanto non è consentito celebrare una Messa in parte letta e in parte cantata, ossia una Messa letta nella quale soltanto alcune parti dell’Ordinario e del Proprio sono eseguite in canto.

Le ragioni di tale proibizione sono varie. In primo luogo, si tratta di conservare la specificità della Messa in canto, che è la forma originaria della Messa, impedendo il diffondersi di forme ibride, le quali, come è avvenuto nella liturgia ordinaria, finirebbero per sostituirsi completamente ad essa. In secondo luogo, è necessario mantenere la differenza funzionale tra parti in canto e parti lette, differenza che rimanda alla loro diversa origine e alla loro diversa destinazione.

Dell’argomento mi sono occupato più specificamente nel mio libro Introibo ad altare Dei cit., pp. 171-186. Naturalmente la proibizione di eseguire canti liturgici alla Messa letta non si riflette sulla possibilità di cantare mottetti, i quali, come abbiamo visto, sono canti religiosi su testo non liturgico.

È necessario ribadire che un ibrido tra Messa in canto e Messa letta, alterando l’economia e l’equilibrio del rito, non ne agevola la fruizione da parte dei fedeli, ma la ostacola e la confonde.

14. La catechesi liturgica.

Fin qui ci siamo occupati di come realizzare la funzione. Fatto questo, occorre fornire ai fedeli, specialmente ai nuovi arrivati, i mezzi adeguati sia per comprenderla che per seguirla.

Al primo obiettivo si provvede con la catechesi liturgica. È vero che la forma straordinaria è assai espressiva sul piano spirituale e quindi, in un certo senso, parla da sola, ma è anche vero che il rito, come qualunque linguaggio simbolico, ha bisogno di essere spiegato. Tale esigenza diventa ineludibile in tempi come questi, quando i fedeli, specialmente i più giovani, hanno una nozione incompleta o inesatta non solo dei singoli gesti liturgici, ma anche del significato stesso della Messa. Come si può rimediare? I mezzi più indicati mi paiono due.

In primo luogo, un ciclo di brevi momenti di istruzione liturgica, della durata di non più di cinque minuti, da tenersi prima dell’inizio della funzione. Essi dovrebbero essere dedicati prima alla presentazione generale della liturgia antica e poi alla spiegazione delle singole parti del rito, con particolare attenzione alla loro valenza spirituale. Di tale incarico è bene che si occupi un sacerdote o, in sua mancanza, un laico esperto. Come modello possono essere usati i catechismi liturgici popolari in uso prima della riforma. Ricordo in particolare quello riportato nell’opuscolo del card. G. Lercaro A Messa, figlioli! (Bologna, 1955; di tale sussidio è raccomandabile la parte catechetica, non quella direttiva sulla Messa) e modellato sul catechismo di S. Pio X. Oltre a questo, non sarebbe inutile organizzare un ciclo di conferenze vere e proprie, seguite o meno dalla celebrazione della Messa, per illustrare più nel dettaglio le caratteristiche del rito.

Nella catechesi liturgica è particolarmente importante ricordare ai fedeli un principio che, per quanto ovvio, è da molti dimenticato: alla Messa si va non tanto per ascoltare, quanto per pregare. Il nuovo rito, con l’uso esclusivo del volgare e della voce intellegibile, ha fatto sì che molti concepiscano la Messa alla stregua di un’opera teatrale, in cui ciò che conta è vedere tutto, sentire tutto, capire tutto. Non si comprende più che nella Messa la dimensione esteriore è ordinata a quella interiore e che al momento dell’ascolto e della preghiera comunitaria deve fare riscontro il momento del raccoglimento e della preghiera personale. Nel rito antico questo aspetto è ben presente, soprattutto grazie ai lunghi momenti di silenzio. Bisogna fare in modo che i fedeli, specialmente quelli abituati alla forma ordinaria, ne abbiano coscienza, se si vuole evitare che, durante l’offertorio o il canone, restino confusi e disorientati sul da farsi.

Non sempre, tuttavia, la catechesi liturgica è possibile, specialmente in quei contesti in cui il sacerdote non sia disposto a farla e i fedeli si sentano inadeguati al compito. Inoltre essa, per la sua brevità, risulta utile solo a coloro che frequentano la Messa antica abitualmente, mentre dice poco a chi vi assiste una volta ogni tanto o decide di andarvi per semplice curiosità. Allora sarà opportuno, in sostituzione o in aggiunta a questi brevi momenti di istruzione, tenere a disposizione dei fedeli, su un tavolo collocato in fondo alla chiesa ma ben visibile, alcune pubblicazioni dedicate proprio alla spiegazione della Messa tradizionale nei suoi aspetti liturgici e spirituali.

Particolarmente adatti allo scopo sono due opuscoli recentemente ristampati dalle Suore Francescane dell’Immacolata di Città di Castello: La santa Messa di Dom Prosper Guéranger, capolavoro della divulgazione liturgica del XIX secolo e validissimo ancora oggi, e Questa è la Messa di Henri Daniel-Rops, più sintetico ma perfetto per approfondire la spiritualità del rito antico. Oltre all’indubbio pregio di essere accessibili a qualunque persona di media cultura, questi libretti hanno il vantaggio di essere venduti ad offerta libera. Qualunque coetus fidelium, quindi, può acquistare senza difficoltà un certo numero di copie e metterle a disposizione, sempre ad offerta libera, dei frequentatori della Messa. Naturalmente esistono molte altre ottime pubblicazioni sull’argomento. Si evitino, però, le opere troppo specialistiche o troppo polemiche. Una volta dotato degli strumenti necessari per comprendere la Messa nella sua essenza liturgica, il fedele sarà in grado da sé di fare il confronto tra l’antico e il nuovo rito.

15. Il messalino.

Il secondo mezzo per rendere familiare alle persone di oggi la liturgia in forma straordinaria è un sussidio da tutti riconosciuto utile ma da molti trascurato. Mi riferisco al messalino o al libretto che riporta il testo della Messa in latino e in traduzione italiana. L’uso di un libretto da leggere durante la funzione per seguirla con maggior profitto spirituale è antichissimo. Nel secolo scorso, grazie all’alfabetizzazione delle masse, ricevette una diffusione capillare. Si stampavano messalini di ogni genere e per ogni categoria di persone: dal semplice opuscolo devozionale con preghiere da recitare privatamente nei vari momenti della funzione (si ricordi, fra tutti, quello compilato da S. Alfonso Maria de’ Liguori), al messale bilingue vero e proprio. Qualunque cattolico “praticante” ne possedeva almeno uno, regalatogli, magari, al momento della prima Comunione o della Cresima.

Oggi la situazione è molto cambiata. I messalini sono caduti quasi dappertutto in disuso. Al contrario, il desiderio di seguire la Messa su un sussidio cartaceo non è affatto scomparso, neppure per il rito nuovo. Di qui la grande diffusione di foglietti che quasi ogni parrocchia mette a disposizione ogni domenica dei propri fedeli.

Ma se alla Messa in italiano si sente ancora l’esigenza di avere sotto gli occhi il testo della funzione, che dire, allora, della Messa in latino, in cui la lingua costituisce per molti un ostacolo? Senza nulla togliere all’importanza della preghiera, della meditazione, dell’adorazione, è evidente che alcune parti della Messa sono espressamente destinate all’istruzione del popolo e, come tali, devono poter essere seguite da tutti. Il messalino poi, oltre a permettere di seguire punto per punto la funzione, ha un’altra, ben più importante funzione. Consente di avere un’idea più chiara della Messa, di inquadrarne meglio la struttura, di ricordarne più efficacemente le preghiere: consente, in altre parole, di conoscere meglio il rito e di assistervi con maggior frutto spirituale. In questo senso, un buon messalino è il necessario complemento della catechesi e degli opuscoli di divulgazione liturgica.

Questa duplice valenza del messalino è sottolineata da Pio XII nella sua celebre enciclica Mediator Dei sulla sacra liturgia: “Sono degni di lode coloro i quali, allo scopo di rendere più agevole e fruttuosa al popolo cristiano la partecipazione al Sacrificio Eucaristico, si sforzano di porre opportunamente tra le mani del popolo il «Messale Romano», di modo che i fedeli, uniti insieme col sacerdote, preghino con lui con le sue stesse parole e con gli stessi sentimenti della Chiesa”.

16. Quali caratteristiche per il messalino?

Per riuscire veramente utile, tuttavia, il messalino (o il foglietto che lo sostituisce) deve avere caratteristiche ben precise.

Innanzi tutto, il testo della Messa e la sua traduzione volgare devono essere integrati da indicazioni di carattere liturgico e spirituale, non troppo prolisse ma neppure troppo scarne che spieghino con una certa chiarezza sia la natura dei singoli momenti liturgici, sia le loro caratteristiche rituali, sia l’atteggiamento esteriore ed interiore che i fedeli sono invitati ad osservare durante ciascuno di essi. Un messalino ben fatto, tanto per limitarci a qualche esempio, dice quali parti saranno dette ad alta voce e quali sottovoce; fa le debite distinzioni tra Messa in canto e Messa letta, laddove queste comportino modifiche allo svolgimento del rito (per esempio, non si può non specificare che alla Messa in canto le preghiere ai piedi dell’altare sono dette sottovoce dal sacerdote e dai suoi assistenti mentre il coro canta l’antifona all’Introito); invita al raccoglimento e all’adorazione quando il sacerdote prega a lungo sottovoce, in particolare durante il Canone; delinea per sommi capi la natura e lo scopo delle singole parti della Messa; fornisce, in poche parole, tutte le indicazioni necessarie per seguire con profitto la funzione.

Certo, bisogna trovare il giusto equilibrio tra completezza e concisione. Un messalino con note eccessivamente lunghe sarebbe illeggibile. D’altra parte, un messalino senza note sarebbe praticamente muto, specialmente per il fedele di oggi, che il rito antico non lo conosce. Inoltre, bisogna pensare al messalino come ad un sussidio che si consulta anche fuori dalla Messa, per conoscere, meditare, approfondire.

In secondo luogo il testo della Messa e la relativa traduzione devono essere completi, senza tagli od omissioni. Qualcuno obietterà che in questo modo si rischia di disorientare i fedeli alle prime armi, incapaci di districarsi tra le varie parti del rito. Meglio sarebbe, secondo costoro, riportare per intero soltanto le sezioni dette a voce alta o in canto e riassumere le altre in brevi note esplicative. Ora, non nego che una versione abbreviata del testo della Messa possa risultare, per certi versi, più pratica e maneggevole. Ma mi domando: che idea riesce farsi del rito tradizionale un fedele che sul messalino non trovi il testo di due preghiere così caratteristiche di questa forma liturgica, come l’Offertorio e il Canone, che sono dette sottovoce? E come può seguire con profitto la Messa servendosi di un sussidio del genere?

Si consideri che quasi tutti i messalini d’epoca riportano il testo liturgico per intero. Perfino l’opuscolo di S. Alfonso, espressamente destinato al popolo, contiene quasi la maggior parte dell’Ordinario in traduzione volgare, sia pur parafrasata e abbreviata in qualche punto. E ciò avveniva quando i fedeli, pur recitando talvolta il rosario od altre devozioni private durante la Messa, ne conosceva alla perfezione lo svolgimento, nella successione dei singoli momenti. A maggior ragione, oggi che i fedeli hanno pochissima familiarità col rito antico, la completezza del testo riportato dal messalino è una necessità ineludibile.

17. Stampa dei messalini.

Come provvedere ad un messalino per tutti? Chi frequenta assiduamente la Messa in forma straordinaria è opportuno che acquisti un messalino vero e proprio, meglio se quotidiano, da utilizzare sia per seguire la Messa sia per la meditazione o l’approfondimento del rito a casa propria. Se ne trovano ancora diverse copie presso le librerie antiquarie e i siti internet specializzati in libri usati; potendo scegliere, si preferiscano le edizioni dal 1960 al 1964, in quanto conformi nei testi e nelle rubriche al Messale romano del 1962. Recentemente alcune case editrici hanno ristampato un messalino latino-italiano per la forma straordinaria.

Tra tutti, il migliore è, a mio avviso, quello della Marietti (Dom Gaspare Lefebvre O.S.B., Messale romano quotidiano, a cura dell’Apostolato Liturgico di Genova, Torino, Marietti, 1963; ristampa anastatica: Milano, Marietti 1820, 2008), il cui costo, forse un po’ eccessivo, è ampiamente ripagato dalla completezza del testo (vi sono infatti riportate tutte le Messe dell’anno liturgico, le Messe votive, il rito dei sacramenti, di alcuni sacramentali e delle principali devozioni), dall’accuratezza della traduzione e del commento, e dalla bellezza tipografica dell’edizione.

Per coloro che seguono la Messa solo saltuariamente o non hanno intenzione di spendere molto denaro, si deve provvedere con libretti stampati in proprio dal coetus fidelium e distribuiti alla porta della chiesa. La soluzione più pratica e più economica consiste nel disporre di due sussidi distinti: un libretto (rilegato a punto metallico) con l’Ordinario e le indicazioni liturgico-pastorali, da usare a tutte le Messe, e un foglietto col Proprio del giorno, da sostituire di volta in volta.

Un sito internet mette a disposizione gratuitamente i testi, già impaginati e pronti per la stampa, di tutte le Messe dei giorni di precetto: lavoro senza dubbio meritorio, di cui tuttavia non possiamo non mettere in evidenza due limiti. In primo luogo, l’aspetto grafico lascia molto a desiderare, tanto da rendere difficile a molti l’identificazione delle varie parti della Messa. In secondo luogo, i libretti riportano il testo di tutta la Messa, Proprio e Ordinario insieme, costringendo, ogni volta, a stampare un gran numero di pagine. Infine, certi messalini non sono conformi all’edizione del Messale del 1962.

Sarebbe auspicabile, invece, che si mettesse a disposizione un Ordinario della Messa corredato da indicazioni (come quello pubblicato sul sito Maranatha, raccomandabile anche per la cura dell’aspetto grafico, anche se il grande formato delle pagine ne rende scomodo l’utilizzo) e una serie di foglietti riportanti solo il Proprio del giorno.

18. Il punto della questione.

Giunti a questo punto del mio articolo, alcuni osserveranno che ho tentato di affrontare un problema molto serio parlando di minuzie. Il che è senz’altro vero. Solo che, come si dice, è la somma che fa il totale. E in un ambito come quello liturgico, la cura delle minuzie riveste un’importanza che non esito a definire essenziale. Se oggi la liturgia è oggetto dei più gravi scempi, lo dobbiamo all’atteggiamento di chi, in un pericoloso gioco al ribasso, ostenta di curarsi soltanto dello stretto necessaro e di trascurare il superfluo. Spingendo questo ragionamento alle sue logiche conseguenze, alcuni sacerdoti considerano intangibile, nel rito della Messa, soltanto la formula della consacrazione: tutto il resto può variare a piacimento.

Dobbiamo evitare che questo errore, molto più diffuso di quanto si creda, si rifletta sulle funzioni in forma straordinaria, anche se in modalità meno estreme o meno riconoscibili. Ecco perché, a mio avviso, le minuzie di cui mi sono occupato in buona parte del mio articolo sono il punto di partenza indispensabile per fare della Messa tradizionale una funzione non solo bella ed edificante, ma anche fruibile da parte dei non iniziati.

Opposta a questa posizione è quella di chi, pur riconoscendo la fondatezza delle mie proproste, dubita della loro reale fattibilità, almeno nelle circostanze attuali. Com’è possibile, si chiedono costoro, realizzato una funzione che abbia tutte le caratteristiche delineate sopra, se i fedeli che vi partecipano sono pochi e, tra quei pochi, pochissimi sembrano disposti ad assumersi degli incarichi?

19. Dal coetus fidelium alla comunità.

Questa domanda ci conduce alla questione centrale di cui ho parlato all’inizio del mio contributo: trasformare il “centro di Messa” in una vera e propria comunità, capace non solo di far fronte alle necessità pratiche della funzione, ma anche di favorire la crescita spirituale dei suoi membri. Le difficoltà, come abbiamo visto, sono molte, ma hanno, a mio avviso, una radice comune: la mancanza di coesione. Se i fedeli che frequentano la Messa in forma straordinaria fossero più uniti, se tra loro ci fosse un po’ più di familiarità, individuare i problemi e prospettarne la soluzione non sarebbe poi così difficile. In genere, però, le cose vanno in modo del tutto diverso. Non tanto per diffidenza (poiché l’ambiente dei gruppi legati alla liturgia antica non è affatto, come qualcuno potrebbe immaginare, chiuso od elitario), quanto per ragioni oggettive, quali la scarsa frequenza della Messa e delle altre occasioni di ritrovo, l’imbarazzo di fare qualche parola subito prima o subito dopo l’inizio della funzione, la differenza di età e di ambiente sociale.

Quale rimedio? Non è semplice dare una risposta univoca, che vada bene per tutti i gruppi e sia adatta a tutte le circostanze. Qualunque proposta, poi, ha da essere modellata nel concreto della realtà locale. Mi limiterò pertanto ad esporre una soluzione che in Toscana è stata applicata in molte diocesi con discreto successo: quella dell’associazionismo. Si tratta, in poche parole, di raccogliere i fedeli più attivi ed interessati in un’associazione che abbia lo specifico compito di curare l’organizzazione e diffondere la conoscenza della liturgia in forma straordinaria.

Può sembrare, a prima vista, che questa idea abbia ben poco di originale. Associazioni con scopi analoghi a quelli da me delineati esistono già da tempo. Molti centri di Messa, in Italia e nel mondo, fanno capo ad esse. E questo non ha evitato che si verificassero gli inconvenienti denunciati nel presente contributo. A che scopo, allora, riproporre una soluzione che da questo punto di vista si è rivelata inefficace?

20. Il modello associativo.

È evidente che bisogna far riferimento ad un modello associativo diverso da quello attualmente più diffuso. Le grandi organizzazioni storiche hanno due caratteristiche fondamentali: la centralizzazione e le grandi dimensioni. Esse sono costituite da una miriade di sezioni locali, le quali, pur godendo di qualche autonomia, adottano uno statuto e un sistema di funzionamento uguale per tutte. Un modello del genere era di grandissima utilità prima del motu proprio, quando i singoli gruppi, per ottenere la Messa tradizionale dal proprio Vescovo, dovevano quasi necessariamente far capo ad una istituzione più grande e più prestigiosa che li sostenesse nella loro richiesta. Oggi molte cose sono cambiate. Se da un lato è più semplice avviare una celebrazione, dall’altro è più difficile gestirla. Non si tratta più di un rito concesso per indulto ad un gruppo ristretto, ma di una forma liturgica che ha riacquistato pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa.

In un contesto simile, è necessario, a mio avviso, privilegiare l’organizzazione locale: ogni gruppo costituisce la propria associazione, con uno statuto e un funzionamento adeguato alle proprie esigenze. Ci si domanderà quale debba essere la fisionomia propria dell’associazione locale e in che modo sia possibile realizzarla nel concreto. Mi limito ad alcune considerazioni di base, visto che le necessità particolari a cui far fronte variano molto da luogo a luogo.

In primo luogo, l’associazione locale dovrebbe tenersi alla larga sia da strutture troppo pesanti sia dalla trappola della destrutturazione. Istituire un numero eccessivo di cariche o complicare a dismisura il funzionamento degli organi equivale a paralizzare il funzionamento dell’associazione prima ancora di averlo avviato. Un risultato analogo, tuttavia, si consegue anche con l’atteggiamento diametralmente opposto, vale a dire facendo a meno di qualunque ruolo direttivo e rimettendo tutto alla decisione dell’assemblea. In quest’ultimo caso, costituire l’associazione sarebbe perfettamente inutile, poiché essa non avrebbe nulla di diverso dal gruppo non costituito.

La scelta migliore, come l’esperienza dimostra, è una via di mezzo tra i due estremi: una struttura leggera, in cui l’assemblea dei soci è affiancata da due o tre cariche direttive (presidente, segretario, tesoriere o simili) con incarichi ben determinati. Il potere decisionale, specialmente sulle questioni più importanti, resta all’assemblea, che però affida al consiglio direttivo gli incarichi esecutivi e di rappresentanza. In questo modo diventa molto più semplice far fronte alle necessità pratiche della Messa, organizzare iniziative per diffonderne la conoscenza ed anche confrontarsi col clero. Avere di fronte un’associazione costituita e compatta, infatti, è molto diverso dall’avere di fronte un gruppo sparso e dai confini evanescenti.

Altra caratteristica imprescindibile di qualunque associazione costituita è uno statuto nel quale, brevemente e chiaramente, siano delineate finalità del gruppo, funzionamento e competenze degli organi, modalità di ammissione (e di espulsione) dei membri. Ogni gruppo, come si è detto, provvede a seconda delle proprie esigenze, magari consultando, a titolo esemplificativo, lo statuto di associazioni simili già esistenti.

Non sarà inutile, tuttavia, spendere qualche parola sulle finalità. Più di una volta si è registrata la tendenza a sposare la causa della Messa tradizionale con ideologie politiche od opinioni teologiche che costituiscono ancora libera materia di discussione (come quella relativa al valore e alle implicazioni dei documenti del Concilio Vaticano II). Naturalmente qui non ci riferiamo al patrimonio dottrinale, storico, culturale che soggiace alla Messa in forma straordinaria e che sarebbe assurdo separare da essa, bensì a idee che con la liturgia antica hanno poco o nulla a che fare. In questo modo si corrono due grandi rischi: primo, allontanare tutte le persone che non condividono certe posizioni ideologiche; secondo, creare nell’immaginario collettivo un indebito collegamento tra queste posizioni e la Messa antica in quanto tale. Con presupposti del genere, al di là del giudizio di merito che si voglia dare su di essi, si finisce per inibire, anziché promuovere, la fruizione della liturgia tradizionale da parte dei non iniziati (e, a seconda delle idee in questione, anche da parte degli iniziati). Perciò lo statuto, nell’elencare le finalità dell’associazione, deve tenersi lontano, a mio avviso, da qualunque deriva ideologica. Limitarsi agli scopi pratici e ad un richiamo, conciso ma doveroso, alla dottrina e alla tradizione cattolica è quasi sempre la scelta migliore.

21. Suggerimenti su come costituire e far funzionare un’associazione.

Come si procede, nella pratica, a costituire e far funzionare l’associazione? Si comincia con un ristretto gruppo di persone che decide di prendere l’iniziativa. Può bastare anche una sola persona, purché motivata. Si prosegue col diffonderla presso amici e conoscenti che potrebbero essere interessanti e col mettere un avviso sui siti internet specializzati nella divulgazione della liturgia tradizionale: in questo modo è possibile entrare in contatto con un buon numero di persone, anche al di fuori della propria cerchia di conoscenze. Naturalmente, se nella propria zona si celebra già la Messa antica, l’idea dell’associazione andrà proposta anzitutto ai suoi frequentatori, senza però trascurare i due metodi sopra ricordati. Si organizza quindi una riunione di tutte le persone interessate allo scopo di decidere il da farsi, dotandosi possibilmente, fin dalla prima volta, di cariche provvisorie e di una bozza di statuto, che sarà poi definita e precisata negli incontri successivi.

È tutto: l’associazione è fatta. Ciò che ora conta è farla funzionare. Prima di tutto, alle cariche direttive dovrebbero essere elette persone che si distinguano non solo per competenza, ma anche per equilibrio e saggezza. Un’associazione con un direttivo troppo impulsivo o troppo inerte è destinata al fallimento. In secondo luogo è necessario programmare nel dovuto modo le diverse attività di cui l’associazione vuole farsi carico. Per ciò che riguarda gli aspetti pratici della funzione liturgica, bisogna provvedere a suddividere gli incarichi e ad assegnarli alle persone più adatte. Sarebbe opportuno, anzi, che in seno ad ogni associazione di questo tipo vi fossero due piccole “commissioni”, una per la liturgia (col compito di tenere la sacrestia, predisporre l’altare, assicurare il servizio) e una per la musica sacra (col compito di preparare ed eseguire i canti, suonare l’organo, approntare i libretti per i fedeli). Un altro gruppo potrebbe occuparsi dei messalini e dei foglietti. Un altro ancora avere l’incarico di organizzare attività extraliturgiche interne od esterne al gruppo. Si potrebbero fare molti altri esempi: ogni associazione saprà regolarsi in base alle proprie necessità. Tutto questo, però, ha come presupposto imprescindibile una struttura capace di coordinare gli sforzi e le capacità dei singoli.

Si tenga presente che per costituire un’associazione di questo tipo non è necessario alcun riconoscimento, né civile, né canonico. La legge italiana, infatti, contempla l’esistenza di associazioni private non ufficialmente riconosciute, mentre il codice di diritto canonico non richiede, per le associazioni private di fedeli, l’esplicita approvazione dell’autorità ecclesiastica, se non per l’acquisizione della personalità giuridica (cann. 321-325).

Bisogna evitare, inoltre, di identificare completamente l’associazione col gruppo di fedeli che frequenta la Messa in rito antico. È evidente che molti, per diverse ragioni, non vorranno farne parte. Del resto, per riprendere la figura evangelica utilizzata all’inizio del presente contributo, l’associazione deve configurarsi come lievito che fa gonfiare la pasta, non essere, essa stessa, la pasta. Infine, le associazioni locali sul modello qui proposto non soppiantano, ma integrano, l’opera delle associazioni storiche a struttura centralizzata.

22. I coordinamento di associazioni.

A molti un progetto del genere potrà sembrare utopico. L’esperienza della Toscana dimostra che, con un po’ di buona volontà, non è difficile realizzarlo. Resta il fatto che in alcuni casi, più che l’iniziativa, manca l’esperienza: non si sa in che modo cominciare. In altri, le associazioni locali sono prive delle competenze necessarie. In altri ancora non si sa dove trovare i mezzi per organizzare certe iniziative.

A questi inconvenienti, rifacendoci ancora una volta alla situazione toscana, si può in parte rimediare con un coordinamento regionale. Anche in questo caso, si tratta di una istituzione nuova non nell’idea ma nel modello. Il coordinamento non è una grande associazione che assorbe in sé quelle esistenti, ma una federazione, che, pur dotandosi di un proprio statuto e di proprie cariche, mantiene intatta l’autonomia delle associazioni che ne fanno parte. Queste conservano il loro statuto e il loro funzionamento, ma decidono, mediante il coordinamento, di collaborare con le associazioni di una certa area geografica. Gli scopi, essenzialmente, sono quattro: unire le forze, facendo in modo che i gruppi membri si prestino reciproco aiuto; organizzare iniziative comuni, tra cui, almeno una volta l’anno, un grande evento a livello regionale; rappresentare le associazioni e i loro interessi di fronte alla conferenza episcopale regionale e, nei casi più importanti, anche di fronte ai singoli Vescovi; aiutare la costituzione di nuovi coetus fidelium e collaborare con loro nell’avviare la celebrazione stabile della Messa. Per quanto riguarda la struttura del coordinamento, valgono le stesse indicazioni date a proposito dell’associazione. L’esperienza, ancora una volta, insegna che, quando i presupposti sono buoni, i risultati non si fanno attendere.

23. Azione e contemplazione.

Termino il mio lungo contributo con una nota di carattere spirituale. Quando si è di fronte al problema della frequenza dei fedeli alla Messa in forma straordinaria, così come quando si è di fronte a qualunque difficile problema, agire è importante, pregare lo è di più. L’episodio evangelico di Marta e Maria ce lo insegna. E lo stesso Salvatore lo ribadisce a chiare lettere: “Sine me nihil potestis facere” (Ioann. 15, 5). A volte sembra di riscontrare, anche negli ambienti legati all’antico rito, un residuo di quello stesso appiattimento immanentista che caratterizza tanta parte del mondo cattolico odierno. È un errore che bisogna fuggire ad ogni costo. Ben venga l’analisi dei problemi, la proposta di soluzioni, l’impegno nel metterle in pratica: vi abbiamo dedicato, con questo articolo, non piccola parte del nostro tempo. Ma non si dimentichi il primato della preghiera, delle buone azioni, dei sacrifici offerti per le nostre rette intenzioni: in una parola, il primato della contemplazione sull’azione. Senza questo, tutto il nostro impegno non serve a nulla.

Motu Proprio “LATINA LINGUA”

 

BENEDICTUS PP. XVI
LITTERAE APOSTOLICAE
MOTU PROPRIO DATAE
LATINA LINGUA
De Pontificia Academia Latinitatis condenda
1. La lingua latina è sempre stata tenuta in altissima considerazione dalla Chiesa Cattolica e dai Romani Pontefici, i quali ne hanno assiduamente promosso la conoscenza e la diffusione, avendone fatto la propria lingua, capace di trasmettere universalmente il messaggio del Vangelo, come già autorevolmente affermato dalla Costituzione Apostolica Veterum sapientia del Nostro Predecessore, il Beato Giovanni XXIII.
In realtà, sin dalla Pentecoste la Chiesa ha parlato e ha pregato in tutte le lingue degli uomini. Tuttavia, le Comunità cristiane dei primi secoli usarono ampiamente il greco ed il latino, lingue di comunicazione universale del mondo in cui vivevano, grazie alle quali la novità della Parola di Cristo incontrava l’eredità della cultura ellenistico-romana.
Dopo la scomparsa dell’Impero romano d’Occidente, la Chiesa di Roma non solo continuò ad avvalersi della lingua latina, ma se ne fece in certo modo custode e promotrice, sia in ambito teologico e liturgico, sia in quello della formazione e della trasmissione del sapere.
2. Anche ai nostri tempi, la conoscenza della lingua e della cultura latina risulta quanto mai necessaria per lo studio delle fonti a cui attingono, tra le altre, numerose discipline ecclesiastiche quali, ad esempio, la Teologia, la Liturgia, la Patristica ed il Diritto Canonico, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II (cfr Decr. Optatam totius, 13).
Inoltre, in tale lingua sono redatti, nella loro forma tipica, proprio per evidenziare l’indole universale della Chiesa, i libri liturgici del Rito romano, i più importanti Documenti del Magistero pontificio e gli Atti ufficiali più solenni dei Romani Pontefici.
3. Nella cultura contemporanea si nota tuttavia, nel contesto di un generalizzato affievolimento degli studi umanistici, il pericolo di una conoscenza sempre più superficiale della lingua latina, riscontrabile anche nell’ambito degli studi filosofici e teologici dei futuri sacerdoti. D’altro canto, proprio nel nostro mondo, nel quale tanta parte hanno la scienza e la tecnologia, si riscontra un rinnovato interesse per la cultura e la lingua latina, non solo in quei Continenti che hanno le proprie radici culturali nell’eredità greco-romana. Tale attenzione appare tanto più significativa in quanto non coinvolge solo ambienti accademici ed istituzionali, ma riguarda anche giovani e studiosi provenienti da Nazioni e tradizioni assai diverse.
4. Appare perciò urgente sostenere l’impegno per una maggiore conoscenza e un più competente uso della lingua latina, tanto nell’ambito ecclesiale, quanto nel più vasto mondo della cultura. Per dare rilievo e risonanza a tale sforzo, risultano quanto mai opportune l’adozione di metodi didattici adeguati alle nuove condizioni e la promozione di una rete di rapporti fra Istituzioni accademiche e fra studiosi, al fine di valorizzare il ricco e multiforme patrimonio della civiltà latina.
Per contribuire a raggiungere tali scopi, seguendo le orme dei Nostri venerati Predecessori, con il presente Motu Proprio oggi istituiamo la Pontificia Accademia di Latinità, dipendente dal Pontificio Consiglio della Cultura. Essa é retta da un Presidente, coadiuvato da un Segretario, da Noi nominati, e da un Consiglio Accademico.
La Fondazione Latinitas[qui in italiano, n,d,r] costituita dal Papa Paolo VI, con il Chirografo Romani Sermonis, del 30 giugno 1976, è estinta.
La presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio, con la quale approviamo ad experimentum, per un quinquennio, l’unito Statuto, ordiniamo che sia pubblicata su L’Osservatore Romano.Datum Romae, apud Sanctum Petrum, die X mensis Novembris, in memoria Sancti Leonis Magni Papae, anno MMXII, Pontificatus Nostri octavo.

BENEDICTUS PP XVI

Statuto della Pontificia Accademia di Latinità
Articolo 1

E’ istituita la Pontificia Accademia di Latinità, con sede nello Stato della Città del Vaticano, per la promozione e la valorizzazione della lingua e della cultura latina. L’Accademia è collegata con il Pontificio Consiglio della Cultura, dal quale dipende.

Articolo 2

§ 1. Scopi dell’Accademia sono:

a) favorire la conoscenza e lo studio della lingua e della letteratura latina, sia classica sia patristica, medievale ed umanistica, in particolare presso le Istituzioni formative cattoliche, nelle quali sia i seminaristi che i sacerdoti sono formati ed istruiti;
b) promuovere nei diversi ambiti l’uso del latino, sia come lingua scritta, sia parlata.
§ 2. Per raggiungere detti fini l’Accademia si propone di:
a) curare pubblicazioni, incontri, convegni di studio e rappresentazioni artistiche;
b) dare vita e sostenere corsi, seminari ed altre iniziative formative anche in collegamento con il Pontificio Istituto Superiore di Latinità;
c) educare le giovani generazioni alla conoscenza del latino, anche mediante i moderni mezzi di comunicazione;
d) organizzare attività espositive, mostre e concorsi;
e) sviluppare altre attività ed iniziative necessarie al raggiungimento dei fini istituzionali.
Articolo 3
La Pontificia Accademia di Latinità si compone del Presidente, del Segretario, del Consiglio Accademico e dei Membri, detti anche Accademici.
Articolo 4
§ 1. Il Presidente dell’Accademia è nominato dal Sommo Pontefice, per un quinquennio. Il Presidente può essere rinnovato per un secondo quinquennio.
§ 2. Spetta al Presidente:
a) rappresentare legalmente l’Accademia, anche di fronte a qualsiasi autorità giudiziaria ed amministrativa, tanto canonica quanto civile;
b) convocare e presiedere il Consiglio Accademico e l’Assemblea dei Membri;
c) partecipare, in qualità di Membro, alle riunioni del Consiglio di Coordinamento delle Accademie pontificie e mantenere i rapporti con il Pontificio Consiglio della Cultura;
d) sovrintendere all’attività dell’Accademia;
e) provvedere in materia di ordinaria amministrazione, con la collaborazione del Segretario, e in materia di straordinaria amministrazione, in accordo con il Consiglio Accademico e con il Pontificio Consiglio della Cultura.
Articolo 5
§ 1. Il Segretario è nominato dal Sommo Pontefice, per un quinquennio. Può essere rinnovato per un secondo quinquennio.
§ 2. Il Presidente, in caso di assenza o impedimento, delega il Segretario a sostituirlo.
Articolo 6
§ 1. Il Consiglio Accademico è composto dal Presidente, dal Segretario e da cinque Consiglieri. I Consiglieri sono eletti dall’Assemblea degli Accademici, per un quinquennio, e possono essere rinnovati.
§ 2. Il Consiglio Accademico, che è presieduto dal Presidente dell’Accademia, delibera circa le questioni di maggiore importanza che riguardano l’Accademia. Esso approva l’ordine del giorno in vista dell’Assemblea dei Membri, da tenersi almeno una volta l’anno. Il Consiglio è convocato dal Presidente almeno una volta l’anno e, inoltre, ogni volta che lo richiedano almeno tre Consiglieri.
Articolo 7
Il Presidente, con il parere favorevole del Consiglio, può nominare un Archivista, con funzioni di bibliotecario, ed un Tesoriere.
Articolo 8
§ 1. L’Accademia consta di Membri Ordinari, in numero non superiore a cinquanta, detti Accademici, studiosi e cultori della lingua e della letteratura latina. Essi sono nominati dal Segretario di Stato. Raggiunto l’ottantesimo anno di età, i Membri Ordinari diventano Emeriti.
§ 2. Gli Accademici Ordinari partecipano all’Assemblea dell’Accademia convocata dal Presidente. Gli Accademici Emeriti possono partecipare all’Assemblea, senza diritto di voto.
§ 3. Oltre agli Accademici Ordinari, il Presidente dell’Accademia, sentito il Consiglio, può nominare altri Membri, detti corrispondenti.
Articolo 9
Il patrimonio della estinta Fondazione Latinitas e le sue attività, inclusa la redazione e pubblicazione della Rivista Latinitas, sono trasferite alla Pontificia Accademia di Latinità.
Articolo 10
Per quanto non previsto espressamente si fa riferimento alle norme del vigente Codice di Diritto Canonico ed alle leggi dello Stato della Città del Vaticano.

Ordinate in chiesa il cessate le parole!!! Il castigo della “Preghiera dei Fedeli”

di Antonio Margheriti Mastino

QUELLA CHIESA POSTCONCILIARE CHE HA ABOLITO IL SILENZIO

Ero partito con l’intenzione di scrivere un articolo sui generis sul come si prega, per smentire l’idea che la preghiera sia fatta solo di parole, di un fiume di parole, spesso fuoriluogo; e di lì sarei passato a spiegare che c’è un modo “alternativo” di adorare il Sacramento. Ma mentre scrivevo, però, sono stato fulminato da una parola che mi è rimbombata nella memoria: “Preghiera dei Fedeli”, che durante la messa sempre più va degenerando, nei più casi, in veri e propri proclami ideologici, partitici spesso, arroganti e pretenziosi molte volte, demenziali e interminabili quasi sempre. È di questo che voglio parlare adesso.

Se c’è una cosa della quale più d’altre la Chiesa postconciliare, con le manie di protagonismo, presenzialismo, personalismo dei suoi membri s’è scordata, è il silenzio. E, di riflesso, il guardarsi dalle vane parole.

L’ho sempre detto: preferisco frequentare a Roma le messe in rito antico per tante ragioni, una della quali è proprio il silenzio; quella messa lì ha conservato la consapevolezza delle virtù balsamiche per lo spirito del “cessate le parole”. Quelle inutili, almeno. La certezza che non solo la lingua, le parole, il vociare, il clamore possono esprimere la lode a Dio. Ma che anzi, talora possono indurre al contrario: all’esibizione, allo sfoggio, a perdere di vista l’essenziale. In una parola: ad autocelebrarsi, mentre Dio diventa solo il pretesto, l’introduzione al nostro peccato di vanità, e orgoglio poi. O possono diventare un rito sociale: il culto di una comunità che si parla addosso, celebrando se stessa. E il passo verso il comizio è breve assai. Non è un caso che l’allora cardinale Ratzinger parlò delle odierne liturgie come “danze vuote intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”.

LA PREGHIERA DEI FEDELI: LA “MADRE DI TUTTI GLI ECCESSI”

Prendi la preghiera dei fedeli: voluta dalla riforma liturgica, è diventata la “madre di tutti gli eccessi”, il luogo di ogni abuso; nei casi migliori uno sfogatoio, nei peggiori la latrina di ogni verbosità para-ideologica; l’introito, l’allusione neppure troppo velata verso l’opinionismo politico legato alla cronaca, la terra di nessuno dei comitati parrocchiali che hanno fatto di sacrestie proprietà privata e sezione partitica, e che talvolta sembrano fermi psicologicamente all’assetto da guerriglia verbale sindacalizzata anni ’70, con tutti i loro proclami da ambone. Anzi: se negli anni ’60 viravano sul sociologismo, negli anni ’70 al puro ideologismo, negli anni ’80 allo psicologismo, nei ’90 all’umanitarismo, all’inizio del 2000 al buonismo un tantino sincretista, da qualche tempo a questa parte puntano sull’economicismo… che è sempre l’introduzione più nobile verso l’antiberlusconismo tout-court. E ve lo dimostro fra poco.

Vane parole, nelle quali Dio è interpellato per assecondare e ratificare d’ufficio schemi tutti umani, orizzontali. E dove, proprio per ciò, cancellata la spinta verticale, Dio è scomparso dalla loro prospettiva. Tutto è consumato sull’altare pagano del plurale sociologico, dell’astrattezza della “società”. Fateci caso: la maggior parte delle interminabili e soporifere “pregherie dei fedeli” (ossia dei magnaccia di sacrestia) iniziano in due modi: “In questa società”; “in questo mondo”… di ladri! Eppure, se tu vai a guardare le parole del Nazareno, ti rendi conto di una cosa: non sembra mai interessato ai gruppi sociali, non parla mai in astratto, non si rivolge ad entità collettive e anonime, non v’è nella sua predicazione ombra di “peccato sociale” se non come riflesso unico del peccato individuale, che a sua volta è il prezzo di quello originale che tutti ci accomuna. E appunto, il Cristo, nei vangeli si rivolge unicamente al cuore dell’uomo. Cioè del singolo. Perché è il cuore di ogni singolo uomo che gli interessa: per lui tutto da lì parte. Dall’individuo uti singuli. Ossia io, tu. Separatamente. Solo così resta chiara alla nostra coscienza la colpa, il nostro peccato, la responsabilità di ciascuno dunque: senza scaricarla su una entità collettiva indefinita, quasi quasi autoassolvendosi, e compiendo così un doppio e triplo peccato. Resta emblematica quella dichiarazione di Andrè Frossard, il grande convertito francese: “Il bello del cristianesimo è che ognuno si sente figlio unico dinanzia a Dio”. Mi sentirei di correggerlo: per un disegno misterioso e incomprensibile alla mente umana, noi in un certo senso non ci “sentiamo”, ma siamo “figli unici” di Dio.

SE SI DIMENTICA CHE IL PECCATO SOCIALE ALTRO NON È CHE LA SOMMA DEI PECCATI INDIVIDUALI

Talvolta mi domando se negli sproloqui logorroici e socialmente “utili” delle Preghiere dei fedeli durante la liturgia, non vi sia traccia non solo di vane parole, non solo di paganesimo, ma proprio di idolatria; idolatria dell’immanente, delle strutture e sovrastrutture, del solo umano, delle cose di questa terra. In una parola: del “sociale”. Tutte cose che è lo stesso Cristo a definire passeggere, e nel Libro Antico, è il Dio di Mosè, attraverso l’Ecclesiaste, a marchiarle in modo efficacissimo come “vanitas vanitatis… vanità delle vanità, tutto è vanità”. Ma a sentire questi declamatori liturgici, sembrano eterne, le sole che contino. Idolatria del “sociale” appunto, ossia culto di una comunità verso se stessa e le sue dinamiche, autocelebrazione, autocompiacimento, autoesaltazione, autoadorazione. Gridano contro la “parzialità” e l’ingiustizia di un mondo che proprio questi ragionamenti hanno contribuito in modo determinante a creare; e dimenticano la cosa fondamentale: che alla base dell’ingiustizia sociale non c’è un governo sbagliato o una errata dottrina economica. Alla base di quella e di questi c’è solo una cosa: il peccato. Individuale. Che, propalandosi attraverso i suoi untori, infettivo com’è, diventa anche “sociale”. Il peccato sociale, non è la tara di un gruppo dominante, il capriccio di un destino cinico e baro: è la somma dei peccati individuali.

SE L’OSSESSIONE DEL “SOCIALE” CHE TUONA DAGLI AMBONI DIVENTA IDOLATRIA

Eppure, come si diceva, è proprio l’Antico Testamento a metterci a chiare lettere sempre in guardia da questo pericolo, il pericolo delle vane parole e dalla sopravvalutazione delle cose di questo mondo e dei suoi idoli, che siano strutture, sovrastrutture, istituzioni, ideologie.

Siccome ho un debole per i Libri Sapienziali, li apro a caso e l’occhio mi cade sul Libro della Sapienza. Al capitolo 13 si spiega come materialmente l’idolatra costruisce il suo idolo: sembra quasi una lezione di falegnameria per fai-da-te. Così inizia: “Infelici sono coloro le cui speranze sono in cose morte e che chiamano dèi i lavori di mano d’uomo”. E dopo averci edotti tecnicamente su come fare di un pezzo di legno un idolo, conclude: “Esso è solo un’immagine [l’idolo]… Eppure quando [l’idolatra] prega per i suoi beni, per le sue nozze e per i suoi figli, non si vergogna di parlare a quell’oggetto inanimato; per la sua salute invoca un essere debole, per la sua vita prega un morto; per un aiuto supplica un essere inetto, per il suo viaggio chi non può neppure camminare; per acquisti, lavoro e successo negli affari, chiede abilità ad uno che è il più inabile di mani”.

Come non farsi venire in mente tutti questi declamatori sindacalizzati di “preghiere dei fedeli”, che ultimamente si son fatti venire la passionaccia dell’economia, secondo il vangelo dei banchieri, dopo che hanno smaltito la sbornia di operaismo immaginario?

Vado oltre, e nello stesso Libro attribuito miticamente a Salomone, si racconta di come Dio si serve degli elementi della terra per punire gli idolatri e aiutare i suoi figli. E in questo capitolo 16 c’è un grave monito per chi crede davvero che ogni male stia nella stultizia delle cose terrestri e che mondana sia l’unica giustizia possibile; grave monito agli appassionati foss’anche liturgici di cose “sociali” e conseguenti “ricette economiche” toccasana, di panacee di tutti i mali elaborate in laboratorio; che parlano come se la Chiesa esistesse non per salvare le anime ma per guidare le sorti dell’economia, come se invece dei mali dell’anima debba occuparsi dei presunti “mali” sociali, che ignorano essere proprio la conseguenza dei primi e non il contrario. Leggo, infatti, in questo capitolo sapienziale: “Gli egiziani [idolatri] infatti furono uccisi dai morsi di cavallette e mosche, né si trovò un rimedio per la loro vita, meritando di essere puniti con tali mezzi. Invece contro i tuoi figli neppure i denti dei serpenti velenosi prevalsero, perché intervenne la tua misericordia a guarirli. Perché ricordassero le tue parole, feriti dai morsi, erano subito guariti, per timore che, caduti in un profondo oblio, fossero esclusi dai tuoi benefici. Non li guarì né un’erba né un emolliente, ma la tua parola, o Signore, la quale tutto risana. Tu infatti hai potere sulla vita e la morte: conduci alle porte degli inferi e fai risalire”.

QUANDO SI SCAMBIA IL “FATTO” PER ECCELLENZA COL FATTO QUOTIDIANO

Dicevo che assisto (e dico: assisto, non “partecipo”) spesso alle messe antiche: sono un’altra cosa, rimbombano dentro, esplodendo silenziosamente nell’anima, è un precipitare improvviso e al contempo un ascendere vertiginoso dentro un Mistero, antichissimo e nuovo, che travalica il tempo. Ma siccome il papa ha scritto nel Motu Proprio che il fedele deve “completarsi” assistendo all’uno e all’altro rito, a quello straordinario ma anche a quello ordinario, che poi sono due forme dello stesso canone romano, allora, spesso facendo violenza su me stesso, mi obbligo ad andare alla messa nuova nella chiesa sotto casa. Certe volte lo faccio pure per pigrizia, ché non mi va di prendere il bus per arrivare sino al centro di Roma, verso Campo de’ Fiori, dove sta la parrocchia che celebra esclusivamente secondo il messale di Giovanni XXIII: la Santissima Trinità dei Pellegrini.

Ci vado con tutte le migliori intenzioni. Ma poi arriva, arriva sempre, il momento della predica e, ahimé, delle maledette “preghiere dei fedeli”, ossia dei bollettini dei tre sindacati congiunti: iniziano col tono moroteo della Cisl, giungono al linguaggio nenniano della Uil, degenerano in finale col proclama cofferatiano della Cgil. Pronunciate ora con un certo risentimento sociale, ora con moralismo civile allarmistico, ma più spesso in modo cantilenato, atono, non sentito, monocorde, come di chi neppure sta capendo cosa diavolo sta leggendo. E neppure io lo capisco: il linguaggio è fumoso, farraginoso, una moralistica verbosità dorotea nei casi migliori, insolente da ciclostilato di gruppuscoli politicizzati marxisti d’altri tempi nel peggiore dei casi; ma dove nell’uno nell’altro caso si scaricano sulle parole, sul proclama, il valore che dovrebbero avere i fatti. Anzi, il Fatto, il solo che conta: il Nazareno, figlio di Dio incarnato nell’umanità, morto in croce per redimerci dai peccati, al terzo giorno resuscitato dai morti, come avevano annunciato i profeti. Ebbene, ho l’impressione che spesso, questa strana fauna di sacrestia, questi laici clericalizzati, abbiano scambiato il Fatto per eccellenza, per Il Fatto Quotidiano delle edicole.

L’ULTIMA MODA CLERICALE: IL PRETE CHE NON SI INGINOCCHIA MAI NELLA MESSA

Vi porto un esempio tipico, uno solo di centinaia che potrei raccontare. Entro in Santa Maria Goretti in Roma. Quartiere Africano. Che è anche una parrocchia che, nelle altre ore, è assolutamente gestita dai neocatecumenali, suppongo con maggiore beneficio morale e religioso per i credenti. Ma che nelle ore “canoniche” è in mano al clero secolare, sempre più internazionale, e anzi sempre più mulatto. Uno pensa: almeno questi sono stranieri, di recente cristanizzazione, capace siano più ferventi e scrupolosi dei preti italiani, troppo devastati da anni di democristianismo. È un’illusione: i professori, i libri di teologia degli uni e degli altri, sempre gli stessi sono. Come ne è corrotto quello di antica cristianizzazione a maggior ragione lo è quello di recente.

Messa appena iniziata. Ripetitori di microfoni al massimo da sfondarti i timpani, tanto da far vibrare il pavimento sotto i piedi. Pochi fedeli si inginocchiano nei momenti previsti anche dal messale di Paolo VI: poco male dico, nel Sud della Puglia l’inginocchiarsi dei fedeli è caduto sistematicamente in disuso. Per la verità -l’ultima moda clericale è questa- neppure il sacerdote si inginocchia mai: manco dove sarebbe d’obbligo, come durante il canone di consacrazione: si limita a un laico frigido inchino, non sia mai si dica che ecceda in cupidigia di servilismo verso l’Altissimo: ti verrebbe una voglia di infilargli un calcione nel sedere da farlo prostrare faccia a terra direttamente. Mi domando, mentre vedo quanto è stitica la pietà di questi preti sempre aggiornati a ogni ultima moda liturgica, se davvero credono alla Presenza Reale nell’ostia e nel vino… e mi rispondo anche che se davvero ci credessero scoppierebbero in lacrime, faccia a terra si prostrerebbero da soli, senza calcioni negli stinchi. A un pezzo di pane che vuoi fare, invece? Un inchino basta e avanza: andare oltre, ha osato dire più di qualche prete aggiornato, potrebbe rasentare l’idolatria: poche idee, ma belle confuse. Durata in tutto 2 minuti e 20 secondi. Poi rifletti che mentre dinanzi al Cristo Eucaristico si vergognano di inginocchiarsi, solo poco prima si sono prostrati in corpo e anima dinanzi a tutti i feticci imposti dal politicamente corretto dominante, ai suoi santuari posticci, ai suoi martirologi fasulli. Ma non è su questo che voglio soffermarmi, quanto sulla predica.

I RAGIONAMENTI TORTUOSI ALLONTANANO DA DIO”

Tralascio per pietà cristiana (e anche perché ve lo immaginate da voi) cosa s’è detto nel mezzo, un mezzo interminabile, pieno di vuote parole in libertà, una fiumana, uno straripamento che ci ha inondati tutti per 35 minuti abbondanti. Un discorso senza un centro, una meta, una logica: “amore” di qua “ricchezza” di là, “povertà” qua e là: la solita spaghettata alla sacrestana. Ma che vuole questo? Ma di cosa vuole parlare? Mi chiedo perché si sforzi di blaterare, teorizzare, complicare tutto quando potrebbe risolvere ogni cosa in 5 minuti, lasciando la parola al Cristo del Vangelo: il quale sapeva quel che diceva e come dirlo, e dicendolo usava la sintesi, seppure immaginifica. Mi chiedevo anche se non avesse ragione il Messori di Ipotesi su Gesù quando diceva che ogni problema nasce dal fatto che si sia voluto sostituire il Cristo della storia con quello della filosofia, sino a sfigurarlo, renderlo irriconoscibile, farne “tanti cristi in maschera”. Alla fine constato che non puoi spiegare una cosa che non hai capito manco tu. Non puoi giustificare agli occhi dei fedeli quello nel quale non credi, che a te per primo sembra gratuito, carente di senso, e dove lo scandalo del Cristo, diluito sino a tal punto in mille solventi diversi, ha perso ogni sapore e forma, ogni utilità: tant’è che si cercano nel mondo, nella politica le cose che possano giustificare in qualche modo ancora la sussistenza di Cristo. Come se il Nazareno fosse un’idea e non un fatto: appunto, ha ragione Messori, si è sacrificato tutto al Nazareno dei filosofi che mai avrebbe dovuto esserci a quello della fede e della storia, che è molto più semplice, e perciò molto più scandaloso. Questi preti, penso, nel loro conformismo senza più vita tentano di ripetere dal pulpito la vuota, inutilmente complicata astrattezza delle teorizzazioni dei libri di teologia ultima generazione in uso nei seminari. Che sembrano spiegare tutto lo scibile umano ma non spiegano niente, ingarbugliano tutto anzi, talora tutto demoliscono. Che vorrebbero su ogni cosa intrattenersi meno che sull’Essenziale. Una volta che ti sei deformato su queli libri, che hai da spiegare più? Non c’è più nulla da dire, da capire, tanta è ormai la confusione. Hai perso il filo, che si diparte da Cristo, e lungo la ininterrotta successione apostolica, passando di mano in mano, a lui ci lega. Ecco perché è un parlarsi addosso. Apro il Libro della Sapienza, che inizia in un modo che più significativo non potrebbe essere: “I ragionamenti tortuosi allontanano da Dio” (Sap. 1,3).

QUELLE PREGHIERE DEI FEDELI RIPRESE DALLA SCALETTA DEL TG DI MEZZOGIORNO

Ma mi sono dilungato. Piuttosto volevo riportarvi l’incipit e il finale dell’omelia sindacalizzata. Inizio: “In questa società…”; finale: “… per via della crisi economica che attanaglia l’Europa, l’Italia in particolare”. Manco a dire che non abbiamo capito le idee politiche del prete mulatto. Semmai serbassimo ancora dubbi, gli immancabili “laici” impegnati a comandare in sacrestia giungono a proposito a schiarirci le idee, e ci indicano il come pensarla, con la (ci risiamo!) “Preghiere dei fedeli”, che sembrano piuttosto un rosario che non finisci mai di sgranare, e, ti rendi conto subito, sono riprese dalla scaletta delle notizie del tg di mezzogiorno, e soprattutto dai titoloni e dagli articoli di fondo di Repubblica della mattinata.

Per la crisi economica…”, ascoltaci Signore!;

Per questo momento di sbandamento morale che coinvolge i vertici di quelle istituzioni che dovrebbero esserci d’esempio” [come se quei “vertici” non fossero composti di peccatori come tutti, come se la Bibbia non mettesse in guardia chi “confida negli uomini”… “ciechi che guidano altri ciechi”] , ascoltaci Signore!!;

Per la famiglia della povera Yara, affinchè siano trovati i colpevoli e assicurati alla giustizia” [va da sé: umana, non divina… figurarsi poi se qualcuno ha pensato alla conversione degli assassini], assassinata o da un pedofilo o da un rumeno, magari pure, hai visto mai, da un prete rumeno e pedofilo, o da Berlusconi notorio bazzicatore di minorenni… ad ogni modo… ariascoltaci Signore!!!;

Perché i governanti”, ossia sempre Berlusconi, “siano promotori di giustizia ed equità soprattutto fra i lavoratori”, [perché, tutti gli altri che ci hanno la rogna? Cristo non ha mai parlato di “lavoratori” e disoccupati, ma di uomini] per non dire classe operaia: la quale che ci sia ciascun lo dice dove sia nessun lo sa, e chi lo sa, sa pure che è ormai non solo un privilegio sociale avere un posto da operaio ma persino da netturbino… ma Signore, “ascoltaci!” pure per questi altri.

Per la vergogna del nostro tempo di nostri fratelli dell’Africa che giungono in questa nostra terra come la terra promessa a bordo di un gommone: che trovino, questi nuovi cittadini di domani, accoglienza nella nostra comunità resa indifferente dall’opulenza [un momento prima, pur di dare addosso a Berlusconi, il precedente fedele sindacalizzato aveva definito questa “comunità” in agonia da “crisi economica”, 30 secondi dopo è già diventata “opulenta”… l’ideologia, che gran prostituta!]. Ascoltaci, Signore pure per i musulmani!

Fa, o Signore, che i governanti”, ancora una volta Berlusconi, “comprendano l’importanza della cooperazione solidale con le istituzioni dell’Europa, per il riconoscimento dei nuovi e antichi diritti dei cittadini”. A questo punto non ce la faccio più: qui si è passati dal bollettino del ministero dello sviluppo economico a guida Bersani, a Radio Radicale direttamente. Senza imbarazzo alcuno e ad alta voce ripeto: “Non dargli retta, Signore!”. Ché non sanno quel che dicono.

Che c’è da aggiungere? Quante anime saranno convertite, salvate, da questo clericalismo parolaio? Manca il silenzio, la concentrazione sull’Essenziale, in queste messe che sono diventate prima riverbero di piovaschi temporaleschi ideologici che tuonavano fuori, poi culto di una comunità, culto di una personalità, alla fine sono degenerate in declamazioni contro qualcuno; null’altro che riproposizione su scala ridotta dei tg e dell’opinion-makerismo da columnist Repubblichino (e non quelli di una volta: i nipotini di Scalfari).

Sentendo questi blateratori para-liturgici, questi feticisti del “sociale” (quando non del socialismo), questi che scambiano i talk-show e i tg per cattedre di omiletica, fonti della sapienza alle quali ubriacarsi, viene da ripensare a Paolo di Tarso, il Saulo dalla lingua come spada di fuoco. Il quale Paolo rivolgendosi ai romani (Let. Rom. 1,18-32), gli spiega come -guardacaso- l’iniquità, le perversioni sessuali, la depravazione morale dell’umanità altro non sono che il segno dell’abbandono da parte di Dio, a sua volta e per primo ripudiato (uuuhhh quante immagini contemporanee mi vengono in mente!) dagli uomini. E scrive in modo inequivocabile: “… Essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile (…) hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore. Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami (…) E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata…”.

dal sito papalepapale.it

Papa Giovanni XXIII: VETERUM SAPIENTIA

COSTITUZIONE APOSTOLICA

VETERUM SAPIENTIA

di S.S. Papa Giovanni XXIII

(SULLO STUDIO E L’USO DEL LATINO)

L’antica sapienza, racchiusa nelle opere letterarie romane e greche, e parimenti i piú illustri insegnamenti dei popoli antichi devono essere ritenuti quasi aurora annunziatrice del Vangelo, che il Figlio di Dio, «arbitro e maestro della grazia e della scienza, luce e guida del genere umano» (1) ha annunciato su questa terra
Infatti i Padri e Dottori della Chiesa riconobbero in questi antichissimi e importantissimi monumenti letterari una certa preparazione degli animi a ricevere la celeste ricchezza, che Gesú Cristo «nel verificarsi della pienezza dei tempi» (2), comunicò ai mortali; da ciò appare chiaramente che, con l’avvento del Cristianesimo, non è andato perduto quanto di vero, di giusto, di nobile e anche di bello i secoli trascorsi avevano prodotto.
Per la qual cosa la Santa Chiesa ebbe sempre in grande onore i documenti di quella sapienza e prima di tutto le lingue Latina e Greca, quasi veste aurea della stessa sapienza; accettò anche l’uso di altre venerabili lingue, che fiorirono nelle regioni orientali, che non poco contribuirono al progresso del genere umano e alla civiltà; le stesse, usate nelle cerimonie religiose o nell’interpretazione delle Sacre Scritture, hanno vigore anche oggi in alcune regioni, quasi non mai interrotte voci di un uso antico ancora vigoroso.
Nella varietà di queste lingue certamente si distingue quella che, nata nel Lazio, in seguito giovò mirabilmente alla diffusione del Cristianesimo nelle regioni occidentali. Giacché, non senza disposizione della Divina Provvidenza accadde che la lingua, la quale per moltissimi secoli aveva unito tante genti sotto l’Impero Romano, diventasse propria della Sede Apostolica (3) e, custodita per la posterità, congiungesse in uno stretto vincolo, gli uni con gli altri, i popoli cristiani dell’Europa.
Infatti, di sua propria natura la lingua latina è atta a promuovere presso qualsiasi popolo ogni forma di cultura; poiché non suscita gelosie, si presenta imparziale per tutte le genti, non è privilegio di nessuno, infine è a tutti accetta ed amica. Né bisogna dimenticare che la lingua latina ha nobiltà di struttura e di lessico, dato che offre la possibilità di «uno stile conciso, ricco, armonioso, pieno di maestà e di dignità» (4), che singolarmente giova alla chiarezza ed alla gravità.
Per questi motivi la Santa Sede ha gelosamente vegliato sulla conservazione e il progresso della lingua latina e la ritenne degna di usarla essa stessa, «come magnifica veste della dottrina celeste e delle santissime leggi» (5), nell’esercizio del suo magistero, e volle che l’usassero anche i suoi ministri. Infatti questi uomini della Chiesa, ovunque si trovino, usando la lingua di Roma, possono piú rapidamente venire a sapere quanto riguarda la Santa Sede ed avere con questa e fra loro piú agevole comunicazione.
«La piena conoscenza e l’uso di questa lingua, cosí legata alla vita della Chiesa, non interessa tanto la cultura e le lettere quanto la Religione» (6), come il nostro Predecessore di immortale memoria Pio XI ebbe ad ammonire; egli, essendosi occupato scientificamente dell’argomento, additò chiaramente tre doti di questa lingua, in modo mirabile conformi alla natura della Chiesa: «Infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli… richiede per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare» (7).
Poiché è necessario, invero, che «ogni Chiesa si unisca nella Chiesa Romana» (8) e, dal momento che i Sommi Pontefici hanno «autorità episcopale, ordinaria e immediata su tutte le Chiese e su ogni Chiesa in particolare, su tutti i pastori e su ogni pastore e sui fedeli» (9) di qualunque rito, di qualunque nazione, di qualunque lingua essi siano, sembra del tutto conseguente che il mezzo di comunicazione sia universale ed uguale per tutti, particolarmente tra la Sede Apostolica e le Chiese che seguono lo stesso rito latino. Pertanto, sia i Pontefici Romani, quando vogliono impartire qualche insegnamento alle genti cattoliche, sia i Dicasteri della Curia Romana, quando trattano di affari, quando stendono dei decreti, che riguardano tutti i fedeli, sempre usano la lingua latina, che è accolta da innumerevoli genti, quasi voce della madre comune.
Ed è necessario che la Chiesa usi una lingua non solo universale, ma anche immutabile. Se, infatti, le verità della Chiesa Cattolica fossero affidate ad alcune o a molte delle lingue moderne che sono sottomesse a continuo mutamento, e delle quali nessuna ha sulle altre maggior autorità e prestigio, ne deriverebbe senza dubbio che, a causa della loro varietà, non sarebbe a molti manifesto con sufficiente precisione e chiarezza il senso di tali verità, né, d’altra parte si disporrebbe di alcuna lingua comune e stabile, con cui confrontare il significato delle altre. Invece, la lingua latina, già da tempo immune da quelle variazioni che l’uso quotidiano del popolo suole introdurre nei vocaboli, deve essere considerata stabile ed immobile, dato che il significato di alcune nuove parole che il progresso, l’interpretazione e la difesa delle verità cristiane richiesero, già da tempo è stato definitivamente acquisito e precisato.
Infine, poiché la Chiesa Cattolica, perché fondata da Cristo Nostro Signore, eccelle di gran lunga in dignità su tutte le società umane, è sommamente conveniente che essa usi una lingua non popolare, ma ricca di maestà e di nobiltà.
Inoltre, la lingua latina, che «a buon diritto possiamo dire cattolica» (10), poiché è propria della Sede Apostolica, madre e maestra di tutte le Chiese, e consacrata dall’uso perenne, deve essere ritenuta «tesoro di incomparabile valore» (11) e quasi porta attraverso la quale si apre a tutti l’accesso alle stesse verità cristiane, tramandate dagli antichi tempi, per interpretare le testimonianze della dottrina della Chiesa (12) e, infine, vincolo quanto mai idoneo, mediante il quale l’epoca attuale della Chiesa si mantiene unita con le età passate e con quelle future in modo mirabile.
Invero, nessuno può dubitare che la lingua latina e la cultura umanistica siano fornite di quella forza che è ritenuta quanto mai adatta a istruire e a formare le tenere menti dei giovani. Per suo mezzo, infatti,  si educano, maturano, si perfezionano le migliori facoltà dello spirito; la finezza della mente e la capacità di giudizio si acuiscono; inoltre, l’intelligenza del fanciullo viene piú convenientemente formata a comprendere e a giudicare nel giusto senso ogni cosa; infine, si impara a pensare e a parlare con sommo ordine.
Se si riflette su tutti questi meriti, si comprende perché i Pontefici Romani cosí frequentemente hanno sommamente lodato non solo l’importanza e l’eccellenza della lingua latina, ma ne hanno prescritto lo studio e la pratica ai sacri ministri dell’uno e dell’altro clero, senza omettere di denunciare i pericoli derivanti dal suo abbandono.
Spinti anche Noi da questi gravissimi motivi, come i nostri Predecessori e i Sinodi Provinciali (13), con ferma volontà intendiamo adoperarci perché lo studio e l’uso di questa lingua, restituita alla sua dignità, faccia sempre maggiori progressi. Poiché in questo nostro tempo si è cominciato a contestare in molti luoghi l’uso della lingua Romana e moltissimi chiedono il parere della Sede Apostolica su tale argomento, abbiamo deciso, con opportune norme, enunciate in questo documento, di fare in modo che l’antica e mai interrotta consuetudine della lingua latina sia conservata e, se in qualche caso sia andata in disuso, sia completamente ripristinata.
Del resto, quale sia il nostro pensiero su tale argomento, crediamo di averlo abbastanza chiaramente dichiarato quando rivolgemmo queste parole ad illustri studiosi del Latino: «Purtroppo vi sono parecchi che, esageratamente sedotti dallo straordinario progresso delle scienze hanno la presunzione di respingere o limitare lo studio del Latino e di altre discipline di tal genere… Precisamente mossi da questa necessità, Noi riteniamo che si debba intraprendere il cammino opposto. Poiché l’animo si nutre e compenetra di tutto ciò che maggiormente onora la natura e la dignità dell’uomo, con maggiore ardore si deve acquisire ciò che arricchisce ed abbellisce lo spirito, affinché i miseri mortali non siano freddi, aridi e privi di amore, come le macchine che fabbricano» (14).

Dopo aver esaminato queste cose e dopo averle valutate attentamente, con sicura coscienza del Nostro ufficio e nell’esercizio della Nostra autorità, stabiliamo e ordiniamo quanto segue:
1. Sia i Vescovi che i Superiori Generali degli Ordini religiosi si adoperino efficacemente perché nei loro Seminari e nelle loro Scuole, nelle quali i giovani vengono preparati al sacerdozio, tutti si conformino con impegno alla volontà della Sede Apostolica e obbediscano con la maggiore diligenza a queste Nostre prescrizioni.
2. I medesimi Vescovi e Superiori Generali degli Ordini religiosi, mossi da paterna sollecitudine, vigileranno affinché nessuno dei loro soggetti, smanioso di novità, scriva contro l’uso della lingua latina nell’insegnamento delle sacre discipline e nei sacri riti della Liturgia e, con opinioni preconcette, si permetta di estenuare la volontà della Sede Apostolica in materia e di interpretarla erroneamente.
3. Come è stabilito nelle disposizioni sia del Codice di Diritto Canonico sia dei Nostri Predecessori, gli aspiranti al Sacerdozio, prima di intraprendere gli studi ecclesiastici veri e propri, siano istruiti nella lingua latina con somma cura e con metodo razionale da maestri assai esperti, per un conveniente periodo di tempo, «anche per il motivo che, in seguito, avvicinatisi a discipline di maggior impegno… non accada che, ignorando la lingua, non possano giungere alla completa comprensione delle dottrine e nemmeno esercitarsi nelle dispute scolastiche, per mezzo delle quali le menti dei giovani si affinano alla difesa della verità» (15). E vogliamo che questa norma sia estesa anche a coloro che, chiamati per volontà divina a ricevere i sacri ordini in età avanzata, si applicarono poco o nulla agli studi umanistici. Nessuno, invero, deve essere introdotto allo studio delle discipline filosofiche o teologiche se non sia stato pienamente e perfettamente istruito in questa lingua e sappia bene usarla.
4. Se in qualche paese, poi, per aver adottato un programma di studio proprio delle scuole pubbliche dello Stato, lo studio della lingua latina abbia subito delle diminuzioni, con danno di un insegnamento solido ed efficace, decretiamo che in tal caso sia completamente ripristinato l’ordine tradizionale dell’insegnamento di tale lingua per la formazione dei sacerdoti: poiché tutti devono persuadersi che, anche in questo campo, il metodo di istruzione dei futuri sacerdoti deve essere difeso scrupolosamente, non solo circa il numero ed i generi delle materie, ma anche relativamente ai periodi di tempo necessari per insegnarle. E se, qualora lo richiedano circostanze di tempo e di luogo, si debbano per necessità aggiungere delle discipline a quelle comuni, in tal caso o si prolunghi il corso degli studi o se ne compendi la trattazione, o, infine, se ne rinvii lo studio ad altro momento.
5. Le piú importanti discipline sacre, come è stato assai spesso ordinato, devono essere insegnate in lingua latina, la quale, come lo dimostra l’esperienza di parecchi secoli, «è stimata la piú adatta a spiegare l’intima e profonda natura delle nozioni e delle forme con assoluta chiarezza e lucidità» (16); tanto piú che essa si è venuta arricchendo di vocaboli appropriati e precisi, adatti a difendere l’integrità della fede cattolica, e non poco adatta recidere ogni vuota verbosità. Per la qual cosa, coloro che nelle Università o nei Seminari insegnano tali discipline sono obbligati e a parlare in latino e ad usare testi scritti in latino. Se alcuni, ignorando la lingua latina, non sono nella possibilità di obbedire a queste prescrizioni della S. Sede, siano gradatamente sostituiti da docenti a ciò preparati. Se poi alunni e professori addurranno delle difficoltà, è necessario che queste siano vinte dalla fermezza dei Vescovi e dei Superiori religiosi e dalla buona disposizione dei docenti.
6. Poiché la lingua latina è lingua viva della Chiesa, che dev’essere continuamente adattata alle crescenti necessità del linguaggio e arricchita con nuovi e appropriati e convenienti vocaboli, secondo una regola costante, universale e conforme allo spirito dell’antica lingua latina – regola che già seguirono i Santi Padri e i migliori scrittori «scolastici» – affidiamo l’incarico alla Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi di fondare un’Accademia di Studi Latini. A tale Accademia, nella quale occorre sia costituito un Collegio di Professori espertissimi in Latino e in Greco, chiamati dalle diverse parti del mondo, sarà soprattutto ordinato che, non diversamente da quanto accade per le Accademie nazionali costituite per l’incremento della lingua nazionale dei rispettivi paesi, provveda contemporaneamente ad un ordinato sviluppo dello studio della lingua latina e ad accrescere, se necessario, il lessico con parole adatte alla sua natura ed al suo carattere, e tenga, nello stesso tempo dei corsi sul latino di ogni epoca, ma soprattutto di quella Cristiana. In queste scuole saranno altresí istruiti ad una piú profonda conoscenza del latino, al suo uso, ad un modo di scrivere appropriato ed elegante quanti sono destinati o ad insegnarlo nei Seminari e nei Collegi ecclesiastici, o a scrivere decreti e sentenze, o a curare la corrispondenza nelle Congregazioni della Santa Sede, nelle Curie, nelle Diocesi, negli uffici degli Ordini religiosi.
7. Poiché la lingua latina è strettamente connessa con quella greca, e per l’insieme della sua struttura e per l’importanza dei testi tramandati, è necessario che anche in questa siano istruiti, come molte volte i Nostri Predecessori hanno ordinato,  i futuri ministri dell’arte fin dalle scuole inferiori e medie, affinché, quando si applicheranno alle discipline superiori e soprattutto se raggiungeranno i corsi accademici sulle Sacre Scritture e sulla Sacra Teologia, essi abbiano la possibilità di accostarsi e interpretare giustamente non solo le fonti greche della filosofia «scolastica», ma anche i testi originali delle Sacre Scritture, della Liturgia e dei Padri greci.
8. Alla medesima Sacra Congregazione ordiniamo di predisporre un ordinamento degli studi sulla lingua latina, che tutti dovranno applicare con estrema diligenza, in modo che, quanti lo seguiranno, acquistino appropriata conoscenza e pratica della lingua stessa. Se il caso lo richiederà, le Commissioni degli Ordinari potranno regolare diversamente il programma, ma giammai mutarne o diminuirne la natura e il fine. Nondimeno, gli stessi Vescovi non si permettano di attuare le loro decisioni, se prima la Sacra Congregazione non le avrà esaminate ed approvate.
Infine, in virtú della Nostra Apostolica Autorità vogliamo ed ordiniamo che quanto abbiamo stabilito, decretato, ordinato ed ingiunto con questa Nostra Costituzione resti definitivamente fermo e sancito non ostante qualsiasi prescrizione in contrario, pur degna di speciale menzione.

Dato in Roma, presso San Pietro, il giorno 22 febbraio, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo, nell’anno 1962, quarto del Nostro Pontificato. Ioannes PP. XXIII

NOTE

1 – TERTULL., Apol., 21: Migne, P. L., 1, 394.
2 – S. PAOLO, Epist. agli Efesini, 1, 10.
3 – Epist. S. Congr. Stud. Vehementer sane ad Ep. universos, 1-7-1908: Enchirid. Cler. n° 830. Cfr. anche Epist. Ap. Pio XI Unigenitus Dei Filius, 19-3-1924: A.A.S. 16 (1924), 141.
4 – Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452-453.
5 – Pio XI, Motu Proprio Litterarum Latinarum, 20-10-24: A.A.S.
6 – Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452
7 – Ibidem.
8 – S. IRENEo, Adv. Hær, 3, 3, 2: Migne, P. G., 7, 848
9 – Cfr. C.I.C., can. 218, par. 2.
10 – Cfr. Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 453.
11 – Pio XII, Alloc. Magis quam, 23-11-1951: A.A.S. 43 (1951), 737.
12 – Leone XIII, Epist. Encicl. Depuis le Jour, 8-9-1899: Acta Leonis XIII 19 (1899), 166.
13 – Cfr. Collectio Lacensis, soprattutto vol. III, 1018 s. (Conc. Prov. Wesmonasteriense, a. 1859); vol. IV, 29 (Conc. Prov. Parisiense, a. 1849); vol. IV, 149, 153 (Conc. Prov Rhemense, a. 1849); vol. IV, 359, 361 (Conc. Prov. Amenionense, a. 1849); vol. IV, 394, 396 (Conc. Prov. Burdigalense, a. 1850); vol. V, 61 (Conc. Prov. Strigoniense, a. 1858); vol. V, 664 (Conc. Prov. Colocense, a. 1863); vol. VI, 619 (Synod. Vicariatus Sutchenensis, a. 1803).
14 – Al Congresso Internazionale Ciceronianis Studiis provehendis, 7-9-1959: in Discorsi, Messaggi, Colloqui del S. Padre Giovanni XXIII, I, pp. 334-335; cfr. anche Alloc. ad cives diocesis Placentinæ Roman peregrinantes habita, 15-4-1959: su L’Osservatore Romano, 16-4-1959; Epist. Pater misericordiarum, 22-8-1961: A.A.S. 53 (1961); Alloc. in solemni auspicatione Insularum Philippinarum de Urbe Habita, 7-10-1961: su L’Osservatore Romano, 9-10 ottobre 1961; Epist. Iucunda laudatio, 8-12-1961: A.A.S. 53 (1961), 812.
15 – Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 453
16 – Epist. S. Congr. Stud. Vehementer sane ad Ep. universos, 1-7-1908: Enchirid. Cler. n° 821.

Il linguaggio della Celebrazione liturgica

di Mons. Guido Marini

MAESTRO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE PONTIFICIE

Conferenza tenuta il 24 febbraio 2011, nell’Università Pontificia della Santa Croce – Roma, durante il corso:
“Ars celebrandi. Premessa per una fruttuosa partecipazione alla celebrazione eucaristica”.

La necessità della teologia liturgica 

Iniziare un corso sulla “ars celebrandi”, trattando il tema del linguaggio della celebrazione liturgica, non è possibile farlo senza richiamare alla memoria il noto passaggio dell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis di Benedetto XVI: “Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l’artificiosità di aggiunte inopportune. L’attenzione e l’obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell’Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono” (n. 40).
Fatta questa premessa, che certamente accompagnerà la nostra riflessione, è necessario affermare che parlare di linguaggio, nel senso più ampio del termine, significa per ciò stesso fare riferimento a una realtà che lo precede. Il linguaggio, da questo punto di vista, non può mai essere svincolato da tale realtà, della quale è chiamato a essere espressione. Quel linguaggio lo si potrà considerare vero, in quanto pienamente corrispondente a quella realtà, o lo si potrà considerare falso, ovvero non in sintonia con essa. Ma, sempre e comunque, lo si dovrà valutare in relazione a quella realtà.
In tal modo, proprio la considerazione del rapporto tra linguaggio e realtà sarà in grado di aiutarci a rilevarne la verità.
Quanto detto ci consente di entrare nel tema di cui si deve trattare: ovvero “Il linguaggio della celebrazione liturgica”. Parlare di linguaggio della celebrazione liturgica sottende che si abbia ben presente che cosa è la celebrazione liturgica o, in termini ancora più generali, che cosa è la liturgia. Altrimenti si corre il rischio di perdersi in un discorso superficiale e disancorato dalle ragioni profonde di un linguaggio che, solo a partire da quelle ragioni, può essere compreso e correttamente praticato.
E’ per questo motivo che intendo sviluppare il discorso sul linguaggio liturgico a partire dall’essenza della liturgia, così da ritrovare la radice da cui scaturisce il suo ricco patrimonio espressivo. Solo una ben corredata teologia liturgica è in grado di avviare un discorso corretto sulla liturgia, in quanto celebrata e dotata di un suo proprio linguaggio. Ritorna sempre pertinente, al di là di ogni sua possibile interpretazione e contestualizzazione storica, l’antico adagio di Prospero di Aquitania: “Lex orandi – lex credendi”. La liturgia è la fede celebrata. 

Un ritratto sintetico dell’essenza della liturgia

Diventa così necessario illustrare in sequenza alcuni tratti distintivi che caratterizzano l’essenza della liturgia, considerandone poi le conseguenze per quanto attiene l’espressività linguistica. La qual cosa intendo fare riferendomi al Catechismo della Chiesa Cattolica, quale sintesi attualmente più autorevole, anche per quanto attiene alla liturgia, dell’insegnamento del Concilio Vaticano II e del magistero successivo, presentato e interpretato in un rapporto di sviluppo nella continuità con la grande tradizione ecclesiale dei secoli precedenti.
Vale la pena, al riguardo, citare i numeri con i quali il testo del Catechismo riassume quanto fin lì affermato in merito alla liturgia, intesa come opera della Santa Trinità.
1110. Nella Liturgia della Chiesa Dio Padre è benedetto e adorato come la sorgente di tutte le benedizioni della creazione e della salvezza, con le quali ci ha benedetti nel suo Figlio, per donarci lo Spirito dell’adozione filiale.
1111. L’opera di Cristo nella Liturgia è sacramentale perché il suo Mistero di salvezza vi è reso presente mediante la potenza del suo Santo Spirito; perché il suo Corpo, che è la Chiesa, è come il sacramento (segno e strumento) nel quale lo Spirito Santo dispensa il Mistero della salvezza; perché, attraverso le sue azioni liturgiche, la Chiesa pellegrina nel tempo partecipa già, pregustandola, alla Liturgia celeste.
1112. La missione dello Spirito Santo nella Liturgia della Chiesa è di preparare l’assemblea a incontrare Cristo; di ricordare e manifestare Cristo alla fede dell’assemblea; di rendere presente e attualizzare, con la sua potenza trasformatrice, l’opera salvifica di Cristo, e di far fruttificare il dono della comunione nella Chiesa.
Tenendo presente questa bella sintesi formulata dal Catechismo e senza perdere di vista quanto affermato nello stesso Catechismo nelle sue altre parti riguardanti la celebrazione del mistero cristiano, intendo di illustrare quei tratti distintivi di cui parlavo poc’anzi e che caratterizzano l’essenza della liturgia della Chiesa. A partire da ogni tratto distintivo circa l’essenza, cercherò poi di illustrarne alcune conseguenze sotto il profilo del linguaggio celebrativo. 

La liturgia è opera di Cristo

Alcuni anni fa, nel 2009, è stata pubblicata una raccolta di contributi sulla liturgia del Cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo: “Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia”.
Si tratta semplicemente di un titolo, non c’è dubbio. Eppure è particolarmente indicativo di ciò che troviamo alle radici del discorso sulla liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il Protagonista, il vero e più importante Protagonista della liturgia.
Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua nella sua Chiesa l’opera della nostra Redenzione (cf. Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza, si rende oggi presente nella celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è il Vivente che continua la sua azione salvifica nella Chiesa, comunicando la sua vita, che è grazia e anticipo di eternità. […]
Non è pensabile andare all’essenza della liturgia senza riaffermare che il suo primo Protagonista è Gesù Cristo. Si ricordi ciò che afferma la Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II: “Per realizzare un’opera così grande (la comunicazione della sua opera di salvezza) Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. E’ presente nel Sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, «egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti», sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. E’ presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. E’ presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. E’ presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18, 20)” (n. 7).

Lo splendore della nobile semplicità

La presenza misteriosa e reale di Cristo nella liturgia e il suo essere protagonista nel rito celebrato richiede al linguaggio liturgico lo splendore della nobile semplicità, secondo la celebre dizione del Concilio Vaticano II (cf. Sacrosanctum concilium, n. 34). Ho parlato di “splendore della nobile semplicità”, perché questa è l’espressione completa usata dai Padri Conciliari. In essa è dato riscontrare l’intrinseca relazione tra bellezza, nobiltà, semplicità.
Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve essere letta e compresa nel contesto più ampio del tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo armonico con l’intero insegnamento della Chiesa. In tal modo, ma non è possibile dilungarsi, si vede con chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle marcate insistenze nel richiamare una certa semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il rito liturgico sciatto, banale, noioso, insignificante. Si tratta di un modo di intendere la semplicità non fondato sull’insegnamento della Chiesa e la sua grande tradizione liturgica. Per non dire che, in alcune occasioni, un tale modo di considerare la nobile semplicità si traduce in quella che potremmo definire una poco nobile nuova complessità. Non si tratta di questo quando la liturgia diventa teatro di trovate soggettive ed estemporanee, con l’inserimento di simboli privi di autentico significato o talmente complessi da dover essere a lungo spiegati?
Torniamo all’autentica nobile semplicità ascoltando Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).
Le parole del Papa, come sempre, hanno il grande dono della chiarezza. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di minimalismo e di pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo, certo, non per fare spettacolo o per un vuoto estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere semplici, in quanto chiari nel loro svolgimento, nobili e belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: “Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra.  Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008). 

La liturgia è azione della Chiesa

“La bellezza intrinseca della liturgia ha come soggetto proprio il Cristo risorto e glorificato nello Spirito Santo, che include la Chiesa nel suo agire” (Sacramentum caritatis, n. 36). E’ Benedetto XVI, con queste parole, a ricordarci che la liturgia è azione del Cristo totale e, dunque, anche della Chiesa.
Dall’affermazione che la liturgia è azione della Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca importanza per quell’essenza della liturgia che vado illustrando. In effetti, quando si dice che la Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che attraversa il tempo, che si realizza nella comunione gerarchica, che è insieme realtà ancora pellegrinante sulla terra e realtà già approdata sulle rive della Gerusalemme celeste.
Nell’agosto del 2006, a Castelgandolfo, Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel corso di un incontro con il clero della diocesi di Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo tipico di un colloquio: “La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell’adorazione e dell’annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel «noi» della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro «io» entrando nel «noi» della Chiesa, arricchendo, allargando questo «io», pregando con la Chiesa,con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio”.
Entrare nel “noi” della Chiesa che prega. Questo “noi” ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di là dei singoli ministri ordinati e dei singoli fedeli, delle singole comunità e dei singoli gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende presente nella misura in cui si vive la comunione con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica, universale, di una universalità che raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall’eternità.
Ne consegue che fa parte dell’essenza della liturgia il fatto che questa abbia anzitutto il tratto della cattolicità, dove unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria, pur nella legittima diversità delle forme. E poi il tratto della non arbitrarietà, che evita di consegnare alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro ricevuto, da custodire e trasmettere. E ancora il tratto della continuità storica, in virtù della quale l’auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, infine, il tratto della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al passaggio della Preghiera eucaristica I, nella quale chiediamo: “…fa’ che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare del cielo…”.
Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come azione della Chiesa non sarebbe sufficiente se non si aggiungesse il tema della partecipazione. Infatti è proprio la liturgia, intesa come azione della Chiesa, che esige una partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cf. Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni considerazione in merito rischia di essere senza costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è l’azione di Cristo e della Chiesa. E’ proprio questa azione quella che chiede di essere partecipata in modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è possibile se si realizza un’autentica comunione del fedele con l’agire della Chiesa e l’agire di Cristo.
Ma qual è l’agire della Chiesa? E’ l’agire della Sposa che tende a diventare un’unica realtà con Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l’agire di Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo l’azione della Chiesa che tende allo Sposo e, dunque, ci lasciamo coinvolgere dall’azione dello Sposo che è donazione d’amore al Padre per la salvezza del mondo.
In quanto della Chiesa, poi, una tale azione dovrà realizzare e manifestare la Chiesa stessa, segno visibile della comunione di Dio e degli uomini, in Cristo. E avere, dunque, anche una sua rilevanza esterna, fatta di altre azioni che, esprimendo la compartecipazione di tutti nel modo proprio di ciascuno, troveranno sempre la loro motivazione nell’essere vie di partecipazione all’agire di Cristo. Non si potrebbe parlare, pertanto, di partecipazione autenticamente attiva se, ad esempio, colui che proclama le letture, presenta le offerte, serve all’altare, anima il canto, svolge qualunque altro ministero liturgico non trovasse in questa sua particolare modalità di presenza al rito la via per entrare in comunione con l’agire della Chiesa e di Cristo.

Il canto e la musica

Considerando la liturgia come azione della Chiesa intera, nel significato sopra indicato, mi piace al riguardo spendere una parola su quel fondamentale linguaggio liturgico che è il canto, considerato insieme alla musica.
Dice il salmista: “Un canto di lode mi onora, ed esso è la via per la quale mostrerò la salvezza di Dio” (Sal 49, 23). E così commenta san Gregorio Magno: “Ciò che in latino suona salutare, salvezza, in ebraico si dice Gesù. Nel canto di lode perciò viene creata una via di accesso, per la quale Gesù può rivelarsi, poiché quando mediante il canto dei Salmi viene riversata in noi la vera contrizione, si apre in noi una strada che conduce nel profondo del cuore, alla fine della quale si giunge a Gesù…” (In Ez I hom. I, 15).
Così il canto e la musica in liturgia, quando si esprimono secondo la verità del loro essere, nascono dal cuore che ricerca il mistero di Dio e diventano un’esegesi dello stesso mistero, della Parola fatta carne per la nostra salvezza. Pertanto c’è un legame intrinseco tra la parola, la musica e il canto nella celebrazione liturgica. Musica e canto, infatti, non possono essere slegati dalla parola, quella di Dio, della quale invece devono essere interpretazione fedele, svelamento comprensibile all’animo credente. Il canto e la musica in liturgia sgorgano dalle profondità del cuore, e dunque da Cristo che lo abita, e riconducono al cuore, vale a dire a Cristo che della domanda del cuore è risposta vera e definitiva. Questa è l’oggettività del canto e della musica liturgica, che non dovrebbe mai essere consegnata all’estemporaneità di sentimenti superficiali e di emozioni passeggere non rispondenti alla grandezza del mistero celebrato. Questa è la grande dignità del canto e della musica in liturgia, dove la semplicità non può in alcun modo fare rima con banalità o solo con mera utilità.
E’ giusto, quindi affermare che il canto e la musica in liturgia nascono dalla preghiera e portano alla preghiera, permettendo a noi di esprimerci con il linguaggio autentico della liturgia. In tal modo il canto diventa una via privilegiata di legame tra cielo e terra, di esperienza di comunione tra la Chiesa pellegrina e la Gerusalemme celeste, tra il mondo degli uomini e il mondo di Dio.
Mi sia consentito qui, parlando del canto e della musica, di accennare brevemente alla lingua latina. Non è il caso di fare ora riferimento ai numerosi testi del magistero, anche recente e contemporaneo, che auspicano un significativo uso del latino in liturgia. Basti qui ricordare quale straordinario tesoro di canto e musica per la liturgia ci hanno consegnato i secoli passati.
Qualcosa di quel tesoro la Chiesa lo ha definito perennemente valido, in sé e quale criterio per stabilire ciò che può essere davvero liturgico nelle nuove forme musicali che si vanno sviluppando nel tempo. Mi riferisco al gregoriano e alla polifonia sacra classica, forme di canto liturgico che consentono di valutare, oggi come ieri, ciò che attiene alla liturgia e ciò che, pur di valore artistico e di contenuto religioso, non può avere spazio nella celebrazione liturgica. Il valore perenne del gregoriano e della polifonia classica consiste nella loro capacità di farsi esegesi della parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di essere al servizio della liturgia senza fare della liturgia uno spazio al servizio della musica e del canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di attingere ancora oggi a quel patrimonio di spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile dare corpo a un più ampio e degno repertorio di canto e di musica per la liturgia se non ci saremo lasciati educare da ciò che lo deve ispirare? E’ in gioco, anche in questo caso, l’elemento essenziale dello sviluppo e della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa.
Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il latino. Senza dimenticare anche altre componenti di questa lingua liturgica, quale la sua capacità di dare espressione a quella universalità e cattolicità della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare. Come non provare, al riguardo, una straordinaria esperienza di cattolicità quando, nella basilica di San Pietro come in altri luoghi di raduno internazionale, uomini e donne di tutti i continenti, di nazionalità e lingue diverse pregano e cantano insieme nella stessa lingua? Chi non percepisce la calda accoglienza della casa comune quando, entrando in una chiesa di un paese straniero può, almeno in alcune parti, unirsi ai fratelli nella fede in virtù dell’uso della stessa lingua?
Perché questo continui a essere concretamente possibile è necessario che nelle nostre chiese e comunità l’uso del latino sia conservato, in via ordinaria, con sano equilibrio e con la dovuta saggezza pastorale. 

La liturgia è preghiera adorante

Il tema della partecipazione, che è stato prima accennato, offre ora l’opportunità di ampliare quanto già detto in merito all’agire di Cristo nella liturgia.
Lo facciamo lasciandoci condurre per mano da una fondamentale argomentazione del teologo Ratzinger: “Con il termine ‘actio’ riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla Liturgia cristiana […] Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, ‘il canone’ – … è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana … passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio” (Introduzione allo spirito della Liturgia, pp.167-168).
Nella oratio, di conseguenza, si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana. Ci domandiamo: “Che cosa è questo essenziale che si svolge?” Rispondiamo, seguendo il testo di Ratzinger: “L’agire di Dio”. Ora si tratta di approfondire in che cosa consista l’agire di Dio.
Si tratta dell’agire di Dio in Cristo, ovvero di quell’atto pregato mediante il quale il Signore offre la vita al Padre per la salvezza del mondo. Che si tratti di un atto pregato lo ricorda Benedetto XVI in un passo dell’omelia per la Messa “in Coena Domini” del 2009, a commento del Canone Romano: “Come prima cosa – affermava il Santo Padre – ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: qui pridie [La vigilia della sua passione…]. Questo “qui” aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, “… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo”. In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a sé stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo”.
Ma che cosa avviene in quell’atto pregato del Signore, in quel suo atto che è preghiera? In quell’agire gli elementi della terra vengono accolti e trasformati nel suo corpo e nel suo sangue, così che il nuovo cielo e la nuova terra vengono anticipati. In quell’agire si compie il gesto di adorazione supremo che riconduce alla verità del proprio essere l’umanità tutta e la creazione intera: ogni realtà ritrova la sua ragione d’essere in Dio e nella dipendenza da lui.
Così la liturgia è adorazione in quanto rende presente in modo sacramentale il sacrificio della croce nel quale Gesù ha reso gloria al Padre con il suo sì, segno di un amore condotto “fino alla fine”, adorazione radicale di Dio e della sua volontà. Così la liturgia è preghiera in quanto preghiera di Cristo rivolta al Padre nello Spirito, perché accolga il suo sacrificio.
Ecco perché la liturgia cristiana è atto che conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo.
E tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. In effetti, ciò che ancora risulta essenziale per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con lui, vero corpo di Cristo. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l’agire di Cristo e il nostro agire, che vi sia una progressiva armonizzazione tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, ad un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l’indicazione di ciò che è essenziale conseguire in virtù della celebrazione liturgica: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 19-20).
Ascoltiamo, al riguardo, Divo Barsotti, in una sua celebre opera sulla liturgia: “E l’Avvenimento, l’Atto del Cristo, è prima di tutto Sacrificio, Sacrificio di adorazione. Il Verbo, nella natura umana che Egli ha assunto, riconosce con la sua Morte l’infinita santità di Dio e la sua sovranità. In Lui la creazione finalmente adora […] Una partecipazione nostra al Sacrificio di Gesù importa che noi si viva lo stesso annientamento suo… La condizione terrestre della nostra vita, nella sua accettazione volontaria, diviene il segno di una nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù, alla sua adorazione” (Il mistero della Chiesa nella Liturgia, edizioni San Paolo, pp. 174-175).

Il sacro silenzio

Se la liturgia è preghiera adorante, ciò significa che quando è ben celebrata, con il linguaggio che le è proprio, in diverse sue parti, deve prevedere una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare in felice sintonia con il cuore, mantiene ogni espressione vocale e gestuale nel giusto clima del raccoglimento.
Laddove vi fosse un predominio unilaterale della parola, non risuonerebbe l’autentico linguaggio della liturgia. Urge, pertanto, il coraggio di educare all’interiorizzazione, la disponibilità a imparare nuovamente l’arte del silenzio, di quel silenzio in cui apprendiamo quell’unica Parola che può salvare dall’accumularsi delle parole vane e dei gesti vuoti e teatrali.[…]
Il silenzio liturgico, allora, è davvero sacro perché è il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere. Non è forse questo il significato stupendo dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine della preghiera eucaristica, nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante?

L’adorazione

Quanto si è detto in merito alla preghiera adorante, impone che tutto, nel linguaggio dell’azione liturgica, conduca all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Mi soffermo un istante su un gesto tipico e centrale dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45, 23) sulla signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa compie la verità; essa si inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte del vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell’atteggiamento di Colui che «era uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso fino alla morte»” (Rivista Communio, 35/1977).
Verrebbe da chiedersi se il ridursi sensibile dei segni del culto e dell’adorazione non siano motivati in profondità da un vacillare della fede in Gesù Figlio di Dio, unico e universale Salvatore di tutti, da un venir meno della certezza che senza conversione a Cristo e senza la grazia della croce non c’è salvezza per nessuno.
E’ anche per questo che è da ritenersi del tutto appropriata la pratica di inginocchiarsi per ricevere la santa Comunione. A ulteriore conferma ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio di Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).
Qualcuno potrebbe riscontrare una contraddizione tra il gesto del mettersi in ginocchio e quello dell’incedere processionalmente. In verità non vi sono motivi per riscontrare alcuna contraddizione. Infatti la Chiesa che, nel segno esteriore, si dirige in processione verso il Signore è la stessa Chiesa che, sempre nel segno esteriore, alla sua presenza, si inginocchia e adora. 

La liturgia è cosmica

Nel suo celebre testo “Introduzione allo spirito della liturgia”, il Card. Ratzinger si dilunga per un intero capitolo, i cui contenuti vengono ripresi anche altrove all’interno del volume, sul rapporto tra liturgia, cosmo e storia. Quelle pagine terminano con un brano che, di seguito, desidero citare: “Il circolo cosmico e quello storico sono ora distinti: l’elemento storico riceve il suo peculiare e definitivo significato dal dono della libertà come centro dell’essere divino e di quello creato, ma non viene per questo separato da quello cosmico. Malgrado la loro differenza, ambedue i circoli restano in definitiva all’interno dell’unico circolo dell’essere: la liturgia storica del cristianesimo è e rimane – inseparabilmente e inconfondibilmente – cosmica, e solo così essa sussiste in tutta la sua grandezza. C’è la novità unica della realtà cristiana, e tuttavia essa non ripudia la ricerca della storia delle religioni, ma accoglie in sé tutti gli elementi portanti delle religioni naturali, mantenendo in tal modo un legame con loro” (p. 31).
Con queste parole, che sono a suggello di una lunga e articolata riflessione, il teologo Ratzinger intende sottolineare il legame inscindibile tra creazione e alleanza, ordine cosmico e ordine storico di rivelazione. L’alleanza, che è rivelazione storica di Dio all’uomo, non annulla la creazione, che è richiamo cosmico della presenza di Dio nella vicenda umana. Anzi, la creazione è il luogo nel quale si realizza l’alleanza e che trova il suo pieno e definitivo significato nell’alleanza. Mentre la stessa alleanza trova proprio nella creazione e nel cosmo il suo fondamento e la sua possibilità espressiva.
Così, la liturgia cristiana, che porta in sé tutta la novità della salvezza in Cristo, conserva e raccoglie ogni espressione di quella liturgia cosmica che ha caratterizzato la vita dei popoli alla ricerca di Dio per il tramite della creazione. E’ quanto mai significativa e istruttiva, anche da questo punto di vista, la Preghiera eucaristica I o Canone romano, là dove ci si riferisce ai “doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote”.
Come non ritrovare in questo passaggio della grande preghiera della Chiesa un riferimento ai sacrifici antichi, al culto cosmico e legato alla creazione che ora, nella liturgia cristiana, non solo non è rinnegato, ma anzi è assunto nel nuovo ed eterno sacrificio di Cristo Salvatore?
D’altra parte, in questa stessa prospettiva, non si può che guardare ai molteplici segni e simboli cosmici dei quali la liturgia della Chiesa, insieme ai segni e ai simboli tipici dell’alleanza, fa uso al fine di dare forma al nuovo culto cristiano. Si pensi alla luce e alla notte, al vento e al fuoco, all’acqua e alla terra, all’albero e ai frutti. Si tratta di quell’universo materiale nel quale l’uomo è chiamato a rilevare le tracce di Dio. E si pensi ugualmente ai segni e ai simboli della vita sociale: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice.
Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica “le grandi religioni dell’umanità testimoniano, spesso in modo impressionante, tale senso cosmico e simbolico dei riti religiosi. La liturgia della Chiesa presuppone, integra e santifica elementi della creazione e della cultura umana conferendo loro la dignità di segni della grazia, della nuova creazione in Cristo Gesù” (n. 1149).
Scriveva il Servo di Dio Giovanni Paolo II. “…l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo. Essa unisce cielo e terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla […] Davvero è questo il mysterium fidei che si realizza nell’Eucaristia: il mondo uscito dalle mani di Dio creatore torna a Lui redento da Cristo” (Ecclesia de Eucharistia, n. 8).
Questo, della dimensione cosmica della liturgia, è un altro dei suoi elementi essenziali. Che, tra l’altro, introduce al grande tema dell’orientamento della preghiera liturgica. La preghiera rivolta a oriente, infatti, è una tradizione che ci conduce alle origini del cristianesimo e si presenta come sintesi tipicamente cristiana di cosmo e storia, di assunzione di un simbolo cosmico, quale è il sole, a espressione dell’universalità della salvezza in Cristo, al quale la comunità radunata si orienta con gioia e speranza.
Nel momento in cui, per diversi motivi che non è qui il caso di ricordare, si è andata perdendo la consapevolezza della preghiera orientata a est, in direzione del sole che sorge, si rende quanto mai urgente recuperare questa dimensione liturgica che non si configura come una fuga romantica nel passato, ma come riscoperta dell’essenziale, di quell’essenziale nel quale la liturgia della Chiesa esprime il suo orientamento permanente.

La centralità del crocifisso

Così, anche dal punto di vista del corretto linguaggio liturgico, si comprende ora meglio il motivo della collocazione del crocifisso al centro dell’altare.
Ma ascoltiamo direttamente prima le argomentazioni del teologo Ratzinger, in un brano del suo testo “La festa della fede”, e poi il pensiero di Benedetto XVI, espresso nella prefazione al volume della Sua Opera Omnia – Teologia della liturgia -, dedicato alla liturgia.
Ecco le argomentazioni del teologo. “Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo. Questa dimensione cosmica dell’Eucaristia si faceva presente nell’azione liturgica mediante l’inorientamento [ndr. il corretto orientamento verso…]. L’Oriente – oriens – era anche notoriamente, dal segno del sole nascente, il simbolo della risurrezione (e pertanto non solo espressione cristologica, ma indice pure della potenza del Padre e dell’opera dello Spirito Santo), nonché richiamo alla speranza nella parusìa […] La croce dell’altare si può qualificare come un residuo dell’inorientamento rimasto fino ai giorni nostri. In essa fu conservata la vecchia tradizione, che era a suo tempo strettamente collegata al simbolo cosmico dell’Oriente, di pregare nel segno della croce il Signore veniente, volgendovi lo sguardo […] Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme a lui, il trafitto […] La croce sull’altare non è… un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento… Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione «versus populum». Diverrebbe così ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell’annunzio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione – «conversi ad Dominum» -: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore” (La festa della fede, pp. 131-135).

Ed ecco il pensiero del Papa. “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo” (Teologia della liturgia, pp. 7-8).

Un rinnovato amore per ciò che è “oggettivo”

Avviandomi alla conclusione, ritengo importante sottolineare quella che mi pare essere una grave urgenza del nostro tempo, ovvero la necessità della formazione alla liturgia e al suo linguaggio, a tutti i livelli. Nulla, lo sappiamo, è ormai possibile dare per scontato. In un tale processo formativo ritengo vi siano quattro priorità. Anzitutto, è necessario far approfondire e assimilare i temi portanti della teologia della liturgia come fondamento della prassi celebrativa. In secondo luogo è importante aiutare a capire il linguaggio liturgico in quanto radicato in una tradizione secolare, soggetto al discernimento ecclesiale, sempre in una logica di sviluppo armonico che sa valorizzare insieme antico e nuovo. Inoltre è fondamentale introdurre al senso autentico della celebrazione che, in quanto culto spirituale, deve plasmare la vita in ogni suo aspetto, fornendo un nuovo linguaggio – quello di Cristo – alla quotidianità. Infine è indispensabile suscitare un rinnovato amore per ciò che è oggettivo, una convinta e ministeriale adesione al rito, da intendere non come aspetto coercitivo dell’espressività, ma piuttosto come condizione indispensabile per un’espressività autentica e davvero comunicativa del mistero di Cristo celebrato nella Chiesa.
Quasi a coronamento di quanto ora affermato e a richiamo di ciò che non può mai essere dimenticato quando si tratta di linguaggio liturgico, anche quando ci si dovesse addentrare ulteriormente nel dettaglio di tale linguaggio, ritengo utile e significativo richiamare alla memoria alcuni brani di Romano Guardini. Sono tratti dal suo volume “Formazione liturgica” e risultano inseriti nel capitolo dedicato a “L’elemento oggettivo”.
Le parole del grande teologo hanno la capacità di condurci con autorevolezza a ritrovare la grazia e la vera bellezza in ciò che è oggettivo, ovvero in quel linguaggio liturgico che precede la nostra personale, variabile e troppo angusta sensibilità soggettiva.
“La liturgia rigorosa è quella forma del comportamento religioso nel quale l’oggettivo si manifesta nel modo più intenso […]
La liturgia è auto espressione dell’uomo, ma dell’uomo come deve essere, ed è per questo che essa diviene severa disciplina. L’uomo superficiale può facilmente sentire la preghiera liturgica come ‘non verace’, poiché l’uomo che parla nella liturgia è quello profondo, essenziale. Esso però giace sepolto. Perciò la preghiera liturgica deve essere per lungo tempo un esercizio consapevole, finché il profondo, il più vero non si risvegli, l’immagine dell’essere si rettifichi e ora parli realmente quanto è conforme all’essenza […] La liturgia è auto espressione dell’uomo. Ma essa gli dice: di un uomo quale tu non sei ancora. Perciò devi venire alla mia scuola […]
Ciò che essa esprime è conforme all’essenza; l’espressione è servizio all’essenza del dialogo tra Dio e l’anima.
Calibrato sull’essenza è anche il suo modo di rivelarlo, e così parimenti servizio all’essenza del corpo, dei gesti, del linguaggio […]
La Chiesa ha regolato moltissimo… Tutto ciò è una dura prova per lo spirito ribelle del singolo che amerebbe rendere se stesso misura di tutte le cose; che, partendo dal proprio frammento strettamente limitato di realtà posseduta e dal presente della propria breve vita, vuole giudicare sull’infinito e sull’eterno; che vuole giudicare sulle profondità e sulle essenze.
E’ una dura prova che l’urgenza del presente debba tacere davanti al retaggio del passato, così come l’estrosità del singolo di fronte a quanto è positivamente fissato dall’autorità. Storia e legge, tradizione e autorità: in questo deve incarnarsi l’oggettivo con tutto il suo peso che pone all’atteggiamento personale del singolo le più elevate esigenze.
Tutto viene portato alla Chiesa attraverso la fiducia, che vede in essa l’umanità rinata, il compendio oggettivo della creazione messa in rapporto con Dio in Cristo… Questa fiducia dà la forza di mettere all’ultimo posto la perplessità del giudicare e sentire individuale, e dà la ferma speranza che in tale perdita l’anima troverà il meglio di se stessa.
La Spirito Santo ha impresso il suo sigillo nella nostra anima e ha fatto del nostro corpo il suo tempio (1 Cor 6, 19); Egli conosce il nostro essere meglio di noi stessi. Le forme dell’espressione che Egli ci indica, sono nel loro più profondo educanti. Noi dovremmo immedesimarci, crescendo, con esse, anche quando non rispondono senz’altro alla nostra sensibilità e non vengono percepite nel senso più preciso come ‘veritiere’. Esse sono veritiere perché hanno carattere essenziale, in uno strato di significato più profondo […]… noi dobbiamo passare dall’angustia e dall’arbitrio soggettivi, uscire per approdare all’ampiezza e all’ordine oggettivi; dobbiamo giungere a trovar gioia per quella forte obbedienza e quella disciplina che portano a tale atteggiamento. Ma è solo la Chiesa a condurre a tale meta; pertanto dobbiamo superare ogni diffidenza verso di essa e acquisire una grande fiducia.
Non possiamo addentrarci qui in proposte pratiche; si tratta soprattutto di un orientamento, d’un modo di pensare”.
E proprio volgendo la mente e il cuore a questo orientamento e a questo modo di pensare desideriamo educarci ed educare al linguaggio della celebrazione liturgica.

Don Bux sulla questione della S. Comunione in bocca o in mano

L’uso di dare la Comunione in bocca può risalire a Gesù?

di don Nicola Bux,

da Scuola Ecclesia Mater, del 29.07.2012 

Il Santo Padre, non solo pronunziò il noto discorso del 22 dicembre sull’interpretazione del concilio ecumenico Vaticano II, che invitava a compiere nel senso della riforma in continuità con la tradizione della Chiesa (Ecclesia semper reformanda), ma lo ha pure messo in pratica nella liturgia. In primis, facendo ricollocare il Crocifisso dinanzi a sè sull’altare, in modo che la preghiera del sacerdote e dei fedeli sia “rivolta al Signore”.
Qui però, mi soffermo sulla seconda ‘innovazione’ di Benedetto XVI: l’amministrazione della S.Comunione ai fedeli, in ginocchio e in bocca. Dico ‘innovazione’, rispetto al noto indulto che in diverse nazioni consente di riceverla sulla mano.Infatti, si ritiene da non pochi, che solo nella tarda antichità-alto medioevo, la Chiesa d’Oriente e d’Occidente abbia preferito amministrarla in tal modo. Allora, Gesù ha dato la Comunione agli Apostoli sulla mano o chiedendo di prenderla con le proprie mani?
Visitando la mostra del Tintoretto a Roma, ho osservato alcune ‘Ultime Cene’ in cui Gesù dà la Comunione in bocca agli Apostoli: si potrebbe pensare che si tratti di una interpretazione del pittore ex post, un po’ come la postura di Gesù e degli apostoli a tavola nel Cenacolo di Leonardo, che ‘aggiorna’ alla maniera occidentale l’uso giudaico dello stare invece reclinati a mensa. Però, riflettendo ulteriormente, l’uso di dare la S.Comunione direttamente in bocca al fedele, può essere ritenuto non solo di tradizione giudaica e quindi apostolica, ma anche risalente al Signore Gesù. Gli ebrei e gli orientali in genere, avevano ed hanno ancor oggi l’usanza di prendere il cibo con le mani e di metterlo direttamente in bocca all’amata o all’amico. Anche in occidente lo si fa tra innamorati e da parte della mamma verso il piccolo ancora inesperto.Si capisce così il testo di Giovanni 13,26-27: “Gesù allora gli (a Giovanni) rispose: ‘E’ quello a cui darò un pezzetto di pane intinto’. Poi, intinto un pezzetto di pane, lo diede a Giuda di Simone Iscariota. E appena preso il boccone il satana entrò da lui”.
Mons.Athanasius Schneider ha compiuto ottimi approfondimenti nel suo libro Dominus est, Lev 2009.
Che dire però dell’invito di Gesù: “Prendete e mangiate”…”Prendete e bevete” ? Prendete (in greco: lavete; in latino: accipite), significa anche “ricevete”. Se il boccone è intinto, non lo si può prendere con le mani, ma ricevere direttamente in bocca. Vero è che Gesù ha consacrato separatamente pane e vino, ma, se durante il Mistico Convito – come lo chiama l’Oriente – ossia l’Ultima Cena, i due gesti consacratori avvennero, come sembra, in tempi diversi della Cena pasquale – quando gli Apostoli, forse aiutati dai sacerdoti giudaici che si erano convertiti (Atti 6,7) quali esperti diremmo così nel culto, li unirono all’interno della grande preghiera eucaristica – la distribuzione del pane e del vino consacrati fu collocata dopo l’anafora, dando origine al rito di Comunione. Agli inizi, le comunità cristiane erano piccole e i fedeli facilmente identificabili. Con l’estendersi della cristianità, nacquero le esigenze di precauzione: affinchè le sacre specie fossero amministrate con riverenza e evitando la dispersione dei frammenti, che contengono il Signore realmente e interamente. Pian piano prende forma la Comunione sotto le due specie, date consecutivamente o per intinzione. Infine in occidente, ordinariamente sotto la sola specie del pane, perchè la dottrina cattolica, garante san Tommaso, insegna che il Signore Gesù è tutto intero in ciascuna specie (Catechismo della Chiesa Cattolica 1377).
Però, dai sostenitori della Comunione sulla mano, si fa appello a san Cirillo di Gerusalemme, il quale, chiedendo ai fedeli di fare della mano un trono al momento di ricevere la Comunione, vuol dire che consegnava la specie del pane sulla mano. Ritengo sommessamente che l’invito a disporre le mani in tal modo, possa essere inteso non al fine di riceverla in esse, ma a protenderle, anche inchinando il capo, in un unico atto di adorazione, oltre che per prevenire la caduta di frammenti. Infatti, per l’innato senso del sacro, molto forte in Oriente, si affermava sempre più la riverenza verso il Sacramento con le precauzioni nell’assumere la Comunione in bocca, per molteplici ragioni, tra cui quella di non poter garantire mani pure e in specie la salvaguardia dei frammenti. Questo nella Catechesi Mistagogica 21. Ciò rende più comprensibile la sentenza di sant’Agostino: “nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando”. Non si deve mangiare il Corpo del Signore senza averlo prima adorato. Benedetto XVI l’ha richiamata significativamente proprio nel suaccennato discorso sull’interpretazione del Vaticano II e poi nell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis 67.
Ancora Cirillo o i suoi successori, nella Catechesi Mistagogica 5,22, invita a “Non stendere le mani, ma in un gesto di adorazione e venerazione (tropo proskyniseos ke sevasmatos) accostati al calice del sangue di Cristo”. Di modo che, l’apostolo fa proskinesis, la prostrazione o inchino fino a terra – simile alla nostra genuflessione – protendendo allo stesso tempo le mani come un trono, mentre dalla mano del Signore riceve in bocca la Comunione. Così sembra efficacemente raffigurato dal Codice purpureo di Rossano, risalente tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C., un Evangelario greco miniato composto sicuramente in ambiente siriaco. Dunque, non deve meravigliare il fatto che la tradizione pittorica orientale e occidentale,dal V al XVI secolo abbia raffigurato Cristo che fala Comunione agli apostoli direttamente sulla bocca. Il Santo Padre, in continuità con la tradizione universale della Chiesa, ha ripreso il gesto. Perchè non imitarlo? Ne guadagnerà la fede e la devozione di molti verso il Sacramento della Presenza, specialmente in un tempo dissacratorio come quello odierno.

Questa bellezza che ferisce. Ragioni del bello nel culto divino e ideologia pauperista

di Antonio Margheriti Mastino

LA CHIESA “PIENA DI SOLDI E TESORI”

Potrei farvi un pippone da paura, buttandoci dentro persino von Balthasar, il teologo della bellezza, ma per principio cerco di bandire i teologi (così, per non perdere la fede) da ogni luogo dove poso la mia penna e faccio sibilare la mia lingua. E bandisco pure tutti gli altri. Parlo io solo, come semplice inquilino della chiesa, concentrandomi sull’essenziale, per dirla con Jean Guitton (filosofo che non bandisco e privatamente leggo). Molti pupazzi discettando di chiesa iniziano con la solita storia: “La chiesa pieni di soldi…i vescovi e i papi pieni d’oro…”. Questi sono troppo inferiori: non meritano risposta. Andassero a lavorare in fabbrica, si mangiassero la loro spesa proletaria, meditassero andando a giocare a scopone scientifico nella casa del popolo, tornassero a dormire promiscuamente nella loro comune in edificio abusivamente occupato. E tacessero. Mi preoccupo invece di altri personaggi più sottili, interni alla chiesa, serpentelli che fanno vibrare nell’aria la loro linguetta velenosa spennellata veltronianamente di miele: i prodi pauperisti impregnati di culturame catto-democratico, i populisti del giorno dopo, da Azione Cattolica, da cattolico socialmente utile, quelli così buoni da essere dei buonisti appunto… laticlavio di ogni ipocrita nemico che si traveste mellifluamente da amico dell’universo mondo. Questi sono pericolosi. Ebbero persino la meglio negli anni ’70-’80, e da allora ancora ce ne portiamo le loro pezze al culo. In genere, semplificando, iniziano i loro discorsi con:

1 I bambini che muoiono di fame… in una non meglio identificata Africaaaa

2 Cristo era povero e magari pure socialista: falsa l’una e l’altra cosa che si inventò in un best-seller mondiale un miserabile scrittore romantico -e massone- francese a fine ’800;

3 La chiesa deve essere semplice, come era semplice la chiesa dei primi tempi, altrimenti la gente si allontana. Bugia: a parte il fatto che come lo stesso cardinale simil-anglicano Carlo Maria Martini ha già detto, badiamo che una chiesa primitiva non è mai esistita, detto questo non ci resta che aggiungere che la gente si allontana invece dalla bruttezza non dalla bellezza: è già tanto brutta e grigia la loro vita, figurarsi se vogliono ritrovarsi una chiesa domestica

4 Eccetera eccetera: avete capito l’andazzo…

SI INIZIA CON LA “SEMPLICITÀ” E SI FINISCE AL SILENZIO

Ora, premesso che questi lupi travestiti da agnelli, per chiesa semplice intendono ridotta alla fame, dalla richiesta di semplicità materiale, è sicuro poi passeranno alla pretesa di puro spiritualismo, e quindi a: la chiesa non si deve impicciare di politica, dunque delle cose del mondo ché siamo cattolici adulti, e allora anche di cosa la gente fa a letto, e non deve comparire troppo sulle tv pubbliche sennò… ingerisce, e in nome della povertà sua e degli altri non deve ricevere soldi pubblici, e non deve esibire pubblicamente se stessa, e nessuno può portare in pubblico simboli che si richiamino alla fede per non offendere i talebani annidati a Parigi, e se parla del suo Cristo nei luoghi pubblici questo è lavaggio del cervello: la chiesa vuole pregare? Pregasse! Chiusa in chiesa. O possibilmente i cattolici si ritirassero dentro le case private, da soli. Questo è: così nasce e cresce e muore la teoria della semplicità. Fame e silenzio per la chiesa. Il suicidio sociale. In nome della sensibilità non si è capito di chi: dei comunisti? Ma se il sogno di sempre dei comunisti è fare dei propri figli esponenti dell’aristocrazia delle professioni: quelle dove non fai niente e guadagni tantissimo. Dei liberal-radicali, allora? Ma se sono tutti esponenti della borghesia benestante. Mandateli in galera questi qui, in nome di Allah!

MA PER CASO IL “POVEROOO” È QUELLO CHE NON HA SOLDI?

Veniamo a noi. Abbiamo visto le cattedrali gotiche, abbiamo visto le cupole rinascimentali, gli straordinari altari maggiori barocchi, i supremi geni della bellezza al servizio della chiesa, abbiamo visto paramenti spettacolari… Tutto abbiamo visto, perchè tutta la bellezza dell’Occidente è stata costruita con il gusto per la crezione e il recupero della cultura e delle culture, il mecenatismo, i sacrifici della chiesa cattolica, della chiesa insieme ai suoi fedeli più devoti, fossero principi o contadini; tutti partecipavano all’impresa, tutti volevano fare meglio di quelli del comune accanto, chi donando qualcosa chi offrendo il suo lavoro e la sua specializzazione o il suo senso estetico. Ad maiorem Dei gloriam. Le cattedrali infatti erano colossali imprese collettive che occupavano intere generazioni di volontari di una comunità. L’anima si alimenta anche con le opere buone, questo il cattolico lo sa, non solo con le parole buone e buoniste, come vorrebbero i cattolici pauperisti. E sa, il cattolico fedele, lo ha sempre saputo (poi se ne è scordato per ideologismo a partire dal 1968) che le opere buone devono prima essere indirizzate alla gloria di Dio, poi al bene degli uomini poveri. “Date agli uomini pane e paradiso” diceva don Guanella. E anche qui: il soccorso al bisognoso deve essere finalizzato a santificarsi prestandogli aiuto, onorare Dio occupandosi di questo suo figlio sfortunato, curare dopo i bisogni materiali i bisogni spirituali dell’indigente, fargli capire che quanto tu per lui fai lo fai in nome del comune Padre, Dio. Altrimenti non hai fatto altro che prolungare di un po’ la vita a un futuro cadavere senza immortalarne l’anima. Salute del corpo e dell’anima, è il binomio inscindibile del cattolico, del seguace di Cristo: che ve lo devo ricordare io quanto Gesù rispose al Tentatore? “Non di solo pane…”. Manco a dire una cosa del solo Nuovo Testamento, dove magari gli ebrei potrebbero eccepire: il Messia cita ciò che già stava scritto, per mano dei profeti, nell’Antico Testamento. Giusto per dire che in materia non c’è novatore che possa darci lezione.

INIZIANO COL CONDANNARE LA “NON-POVERTÀ”, FINISCONO PER DIVINIZZARE IL DENARO. COME FRA’ DOLCINO

C’è questo particolare, nei pazzi furiosi dei cattolici pauperisti e umanitaristi un tanto al chilo, che rivela discretamente la natura ignorante (dottrinalmente) e ideologica (materialistica) della loro posizione: parlando del poverooo si riferiscono solo e solamente a colui che non ha soldi. Travisando oltretutto, e in malafede, l’insegnamento del Cristo che invita al distacco dai beni materiali non alla miseria. Ora, proprio loro che condannano il capitalismooo, paradossalmente vanno a divinizzare quel che poi è il marchio di fabbrica del capitalismo, il denaro, quale panacea di tutti i mali e portatore di ogni sollievo. Ma questa è l’apocalisse! Poi ti accusano, tremenda contraddizione, la chiesa di avere tesori: a parte che questo è ipocrita moralismo luterano, quando sappiamo poi che il calvinismo giunge alla fine ad aizzare alla produzione di ricchezza quale segno di grazia, detto ciò allora tutti per loro dovrebbero essere (è sottinteso) non-poveri, tranne la chiesa; si deve combattere la fame nel mondo ma la chiesa invece per dare l’esempio deve ridursi alla fame: dare esempio di cosa? Di invitare a perorare ciò che invece si vorrebbe annientare: la fame? Non date perle ai porci, per piacere meh! Non mi è sfuggita una cosa sul Vangelo: che Gesù dice che i poveri ci accompagneranno sempre, fino alla fine dei tempi. Guardacaso. Suppongo parlasse prima di tutto dei poveri di spirito. Aveva fatto i conti bene: a giudicare dai molti tromboni che volendo aiutare i poveri, con tutta la tonaca addosso, in America Latina imbracciarono il mitra e portarono marxismo e guerriglia, dandosi il nome di Teologia della Liberazione. Liberazione da chi? Ancora l’unica liberazione auspicabile sarebbe stata quella dal Demone, con tutti i suoi inganni e le sue tentazioni.

Mi sembrano tanti frati Dolcino, l’eretico medievale, che non aveva capito che la povertà è una scelta personale, va rivendicata per sé non per gli altri. Allora iniziò con l’ammazzare i religiosi e i principi ricchi; finì con l’impossessarsi dei loro beni diventando un porcellone folle che si diede a ogni sfarzo e piacere, sperperando tutto in orge e crimini (la ricchezza la sa gestire con criterio solo chi se la è guadagnata e chi l’ha ereditata venendo educato ad amministrarla come parte di se stesso, con responsabilità, dai propri genitori, dopo la dipartita di questi). Questi ipocriti invece, da cattolici dovrebbero pensare al povero come colui che non ha ricevuto la Grazia, al peccatore, all’uomo che non sa quel che fa e che dice, che si fa il male e lo fa agli altri, al povero di fede perchè senza il tesoro salvifico della fede in Dio. Altrimenti si cade nel materialismo da una parte e dall’altra (nella tendenza solo umanitaristica) si diventa solo recuperatori di corpi comunque destinati a invecchiare e morire, assistenti sociali, alla fine burocrati della beneficenza caduta dall’alto e del pietismo straccione. E per tutto questo non c’è bisogno della fede, delle scritture; non c’era bisogno neppure della crocifissione: un enorme spreco la croce se vista in questa prospettiva mondanissima più che ultramondana. Il verbo del cattolico è: soccorrere il bisognoso e salvarne prima il corpo e poi subito dopo l’anima: i cattolici devono rendere servizi completi.

L’UNICA COSA CHE PUÒ CREARE L’UOMO È LA BELLEZZA. L’ANTICIPO DELLA GLORIA CELESTE

Dopo questa roba qui inevitale, spiego in poche parole cos’è la bellezza, e perchè è lo sfondo necessario nel culto divino e nella chiesa in generale. I pagani immolavano alla divinità quanto di prezioso avevano, ciò che avevano di vivo: i sacrifici animali, animali però importanti per il gruppo, che davano latte, pelli, carni, stava qua il senso del loro sacrificio. Altri addirittura, come nell’America precolombiana e precristiana, facevano sacrifici umani (furono i cristiani a proibirgli simili pratiche), migliaia di sacrifici, supremo sacrificio. Siccome il nostro Dio è un Dio civile (è Padre), perchè è il vero Dio, non gradisce gli siano innalzati, è scritto nei salmi, sacrifici di essere viventi. Allora come si può degnamente onorare Dio? Fra le altre cose, con la BELLEZZA! Perchè la Bellezza? A Dio non bisogna dare gli scarti, dopo che noi non ci priviamo di nulla: triplo cellulare, doppio pc, doppia casa, una macchina per ogni componente la famiglia: nulla ci facciamo mancare. Il trionfo del superfluo! Salvo poi lamentarci che il prete ha chiesto un’offerta per il tetto sfondato della chiesa o per mettere una banda alla processione o perchè si fa un pavimento di marmo nella navata. Bisogna rendere a Dio un parte delle nostre piccole fortune: anzitutto perchè è Dio e va adorato, secondo, perchè tutto ciò che abbiamo ci è stato concesso da Lui. E’ un ringraziamento. Non possimo uscircene con cose scadenti e brutte da utilizzare nel culto, mentre per le nostre persone e abitazioni scegliamo gli arredamenti, gli indumenti e i monili se non sempre preziosi almeno che appaiano tali, costosi in ogni caso. Ora è chiaro pure che non si richiedono calici di oro massiccio, ostensori con vere pietre preziose: non si può arrivare a tanto. Però si può esigere, avere cura di far preparare o acquistare una tovaglia da altare fatta a tombolo con magnifici ricami a mano; un calice ben cesellato; una pianeta di ottima e sofisticata fattura; un altare ben curato… gli esempi sono tanti. Cose belle. Perchè cosa può offrire di materiale l’uomo a Dio? Nulla! Non servono le cose materiali a Dio: le ha create per noi, affinchè possiamo goderne, viverci, lavorarci, dopodichè ringraziarlo di tutto il creato che ci ha donato. L’unica cosa che di materiale possiamo offrire, innalzare a Dio, come pegno di riconoscenza e omaggio, è il prodotto della nostra intelligenza, quindi del lavoro certosino e minuzioso che ne deriva: è la bellezza. L’unica cosa che l’uomo può produrre da sé che possa essere degnamente innalzata a Dio è solo la bellezza, le cose belle. Nelle cose belle si assiste al concentrarsi su un oggetto di tutte le nostre virtù migliori per produrlo: l’intelligenza, la sapienza, il lavoro, l’esperienza, la pazienza, lo zelo, la collaborazione, l’amore, il gusto, la voglia di fare meglio, la precisione, la generosità, il tempo: tutto! E tutto a maggiore gloria di Dio. Un calice o una pianeta, saranno magari fatti di materiali non fra i più preziosi, ma saranno comunque forgiati così bene da essere nobilitati dalla bellezza complessiva delle loro forme, dal lavoro magistrale compiuto. Con la bellezza innalziamo a Dio la nostra stessa intelligenza, i nostri sensi (e stimoliamo quelli degli altri nel culto) che hanno preso forma nell’arredo sacro, piccolo decimale simbolico ritorno al Creatore del Tutto che ci ha fornito. Un segno di riconoscenza da parte nostra: anche questa è preghiera. Allo stesso modo nella celebrazione il prete, il vescovo sarà vestito di paramenti preziosi: egli davanti all’altare del Sacrificio Supremo, non è più uno di noi, egli è il Sacerdos, cioè letteralmente l’addetto al Sacro, che in quanto tale si separa degli altri e dal mondo profano (come separati dagli oggetti profani saranno le suppellettili liturgiche, perciò sacre), dalle sue impurità, si riveste del sacerdozio regale, e non è più lui ma l’Alter Christus, e Cristo stesso.

Ecco le ragioni della bellezza. Ma vi è anche la ragione di fondo, spiegata da papa Benedetto, in Introduzione allo spirito delle Liturgia. Il fedele deve partecipare al Culto Divino con tutti i sensi, nella sua totalità: olfatto, vista, gusto, tatto, udito soprattutto. Perchè la Messa con le sue musiche trionfali (la Messa antica soprattutto… ahimè non si può quasi mai dirlo della Nuova), unita alla solennità delle formule nella lingua sacra usata solo per rivolgersi a Dio, alla maestà dell’edificio santo, fra incensi e salmodiare, in questa bellezza che ferisce, sia un anticipo terreno del soprannaturale che ci attende, del tripudio degli angeli e della gloria celeste. Che non avrà mai fine!

da papalepapale.it

Don Bux: la “deregulation” liturgica

Presentando a Roma, lo scorso 2 marzo, il suo libro “Come andare a Messa e non perdere la fede” (ediz. Piemme), Bux si scaglia contro la svolta antropologica della liturgia. Nelle pagine del volume, sorta di vademecum per la sopravvivenza alle Messe moderne, Bux replica a quanti hanno criticato Benedetto XVI, accusandolo di aver tradito lo spirito conciliare. Al contrario – argomenta il teologo – i documenti ufficiali del Concilio Vaticano II sono stati rinnegati proprio da queste persone, vescovi e sacerdoti in testa, che hanno stravolto la liturgia con «deformazioni al limite del sopportabile».
Assistere ad una celebrazione eucaristica può significare, infatti, anche trovarsi dinanzi a forme liturgiche le più bizzarre, con preti che discutono di economia, politica e sociologia, imbastendo omelie in cui scompare Dio. Proliferano i saggi di antropologia liturgica fino a ridurre a tale dimensione gli stessi segni sacramentali, «ormai chiamati – è la denucia di Bux – preferibilmente simboli». La questione non è da poco: affrontarla vuol dire essere tacciati come anticonciliari.
Tutti si sentono in diritto di insegnare e praticare una liturgia “fai da te”, tanto che oggi è possibile assistere, ad esempio, «all’affermarsi di politici cattolici che, ritenendosi “adulti”, propongono idee di Chiesa e di morale in contrasto con la dottrina». Tra coloro che hanno dato il via a questo cambiamento, don Bux ricorda Karl Rahner che, in seguito al Concilio, denunciò la riflessione teologica allora imperante che, a suo avviso, si mostrava disattenta o dimentica della realtà dell’uomo.
Il gesuita tedesco sostenne invece che ogni discorso su Dio scaturirebbe dalla domanda che l’uomo pone su di sè. Di conseguenza – è questa la sintesi – il compito della teologia dovrebbe essere di parlare dell’uomo e della sua salvezza, ponendo le domande su di lui e sul mondo. Un pensiero teologico che, con triste evidenza, è stato capace di generare errori, il più clamoroso dei quali è il modo di intendere il sacramento, oggi non più sentito come proveniente dall’Alto, da Dio, ma come la partecipazione a qualcosa che il cristiano possiede già.
«La conclusione che ne ha tratto Häuβling – ricorda Bux – è che l’uomo nei sacramenti finirebbe per partecipare ad un’azione che non corrisponde realmente alla sua esigenza d’essere salvato», poiché prescinde dall’intervento divino. Ad una simile tesi “sacramentaria”, e all’annessa deriva della liturgia, risponde Joseph Ratzinger che già sul dorso del volume XI “Teologia della liturgia” della sua Opera omnia scrive: «Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa».
La liturgia è sacra, infatti, se ha le sue regole. Ciò nonostante, se da un lato l’ethos, ossia la vita morale, è un elemento chiaro per tutti, dall’altro lato si ignora quasi totalmente che esiste anche uno “jus divinum”, un diritto di Dio a essere adorato. «Il Signore è geloso delle sue competenze – sostiene Bux -, e il culto è quanto di più gli è proprio. Invece proprio in campo liturgico siamo di fronte a una deregulation».
Per sottolineare, invece, che senza jus il culto diventa necessariamente idolatrico, nel suo libro il teologo cita un passo della “Introduzione allo spirito della liturgia” di Ratzinger, che scrive: «In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell’idolatria (…), si fa scendere Dio al proprio livello riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità».
E ancora: «Si tratta di un culto fatto di propria autorità (…) diventa una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa». Il risultato è irrimediabile: «Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira attorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi». E nella sua autobiografia (“La mia vita”, ediz. San Paolo) Ratzinger dichiara: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia».
In finale, un suggerimento ed un ammonimento. Il primo è quello di rilanciare la liturgia romana, «guardando al futuro della Chiesa- scrive Bux -, al cui centro sta la croce di Cristo, come sta al centro dell’altare: Lui, Sommo Sacerdote cui la Chiesa rivolge il suo sguardo oggi, come ieri e sempre». Il secondo è inequivocabile: «Se crediamo che il Papa ha ereditato le chiavi di Pietro – conclude -, chiunque non gli obbedisce, innanzitutto in materia liturgica e sacramentale, non entra in Paradiso».
da Zenit