Il valore del Rito Romano antico

 Sancta Missa 132

 

Omelia di Padre Konrad zu Loewenstein – Venezia, Domenica 22 Ottobre 2006

Per valutare i meriti di un rito di Messa bisogna prima considerare la natura della Messa. Ora, la Santa Messa è nient’altro che il Santo Sacrificio del Calvario: il sacerdote è lo stesso, ossia Gesù Cristo nella persona del celebrante; la vittima è la stessa, ossia Gesù Cristo sotto l’apparenza del pane e del vino. Lo stesso sacerdote, la stessa vittima: lo stesso sacrificio. Ogni rito di Messa della Chiesa Cattolica rende presente questo sacrificio; ci sono molti riti, tra i quali il rito bizantino, il rito ambrosiano, il rito siro-malabarese, il rito nuovo di Paolo VI, ma per valutare un rito particolare bisogna chiedersi quanto esso è adeguato al Sacrificio del Calvario.

Sacrificio, umiltà e riverenza
Quanto al rito romano antico dobbiamo subito constatare che esso è molto adeguato al sacrificio del Calvario e questo in tre modi generali, cioè il rito antico manifesta chiaramente la natura sacrificale della Messa, e la debita umiltà e riverenza di coloro che partecipano a questo Sacrificio. Il rito antico manifesta la natura sacrificale della Messa innanzitutto nel suo uso di un altare sacrificale (piuttosto di una tavola) che contiene le reliquie dei martiri, un altare sacrificale in posizione sopraelevata (come suggerisce l’etimologia del termine altare, ovvero alta ara) che rappresenta il monte Calvario; manifesta la natura sacrificale della Messa nel suo uso costante dei termini “sacrificio” e “oblazione”, e nei moltissimi segni di croce. Il rito antico manifesta l’umiltà in parecchi modi, tra cui i due Confiteor, con il loro ricorso agli angeli e ai santi, la preghiera Domine non sum dignus per tre volte prima della Santa Comunione, il battersi il petto tre volte nel Confiteor e nel Domine non sum dignus e la Comunione in ginocchio e sulla lingua – perché la Santa Comunione non è un oggetto qualsiasi di cui ci si appropria, ma Iddio Stesso che si riceve, in tutta indegnità, umiliazione e raccoglimento. Il rito antico manifesta anche la riverenza in tutti questi modi e, inoltre, nei moltissimi inchini e genuflessioni del celebrante; nella sua attenzione a non lasciar cadere alcun frammento, neppure il più piccolo del Santissimo Sacramento, a tenere chiuse le dita e a purificare scrupolosamente la patena, il corporale, le dita, e similmente anche il calice. Questi tre aspetti del rito antico: la sua chiara manifestazione del sacrificio, dell’umiltà, della riverenza vengono espressi in modo esemplare nella preghiera Placeat Tibi, recitata dal celebrante verso la fine della Santa Messa con un profondo inchino: «Sia a Voi gradito, o Santa Trinità, l’ossequio della mia servitù, e concedete che il Sacrificio da me indegno offerto agli occhi della Vostra maestà, sia accetto a Voi e fecondo di bene per Vostra bontà a me e a tutti coloro ai quali l’ho offerto, per Cristo Signore nostro. Così sia».

La posizione del celebrante, il latino, il silenzio

Consideriamo adesso tre modi particolari in cui il rito antico è adeguato al Santo Sacrificio del Calvario, cioè la posizione del celebrante, l’uso del latino, e il silenzio. Questi tre elementi sono stati oggetto di critica da parte di coloro che non amano questo rito.Il primo elemento viene criticato con frasi come: «Il prete dà le spalle ai fedeli». La risposta semplice a questo è: «Il prete dà la faccia a Dio». Abbiamo visto che la santa Messa è il Sacrificio del Calvario. Questo sacrificio, nelle parole di San Giovanni della Croce, è il Sacrificio di Dio, da Dio, a Dio: è il Sacrificio che nostro Signore Gesù Cristo fa di se stesso a Dio Padre. Durante la Santa Messa il celebrante (nella persona di Cristo) offre questo Sacrificio a Dio realmente presente nel tabernacolo e rappresentato in croce. Non offre il sacrificio al popolo, ma con il popolo e per il popolo, come significa anche la parola “liturgia”, che significa “l’opera (ergon) per il popolo (laos)” e questo spiega la posizione del celebrante che sta a capo del popolo rivolto come loro e con loro verso Iddio. Criticare questa posizione del celebrante è come criticare un avvocato che non sta di fronte ai suoi clienti nel tribunale. Sarebbe una critica assurda, perché l’avvocato deve presentare il suo caso al giudice per i suoi clienti, e dunque deve essere rivolto al giudice come i suoi clienti e con i suoi clienti che si trovano quindi dietro di lui. Il secondo elemento, l’uso del latino, viene criticato con frasi come: «Nessuno capisce il latino». La risposta a questo è che, in realtà, alcuni lo capiscono, e molti capiscono almeno qualche elemento, come le preghiere, Gloria in excelsis Deo, Agnus Dei; e tuttavia ci sono libretti con traduzioni per aiutarci a capire, e ci sono stati sempre. E’ pur vero che il latino esige un certo sforzo per i fedeli, ma ci sono buoni motivi per fare questo sforzo. Un primo motivo sarebbe che il latino è una lingua sacra, maggiormente adeguata al Santo sacrificio della Messa che è un’opera di Dio che trascende assolutamente tutte le cose di questo mondo; un secondo motivo è che il latino è una lingua immutabile, e perciò conviene al Santo Sacrificio che è anch’esso immutabile e reso presente nella sua forma identica con ogni celebrazione della Messa; un terzo motivo è che il latino è una lingua tradizionale che ci unisce con la Santa Messa come fu celebrata nel corso dei secoli; un quarto motivo è che il latino è una lingua universale per tutti coloro che pregano secondo il rito romano, proprio come il sacrificio del calvario è un sacrificio universale: per tutti gli uomini – almeno per tutti gli uomini che vogliono accettarlo. Fino a poco tempo fa un fedele poteva andare a Messa in qualsiasi paese del mondo: Polonia, Cina, Olanda, Germania ecc. e mediante questo rito essere unito agli altri cattolici presenti, ed essere accolto nel seno consolante della madre Chiesa. Infatti in quanto il latino è tradizionale e universale può unire tutti i cattolici di rito romano di tutte le nazioni e di tutte le epoche. Il latino è una lingua sacra, immutabile, tradizionale e universale, e per questo è più adeguato al Sacrificio della Messa, così come lo è alla Chiesa e al Cattolicesimo stesso.Si può aggiungere che rigettare il latino dalla Messa significa rigettare anche la più bella musica del mondo, la quale fu scritta per la Chiesa: il canto gregoriano e le opere di musica dei più grandi compositori classici, la qual musica è stata bandita dalla Chiesa e profanata, confinandola nelle sale da concerto e negli studi di registrazione. Ci si può chiedere se la critica della posizione del celebrante e del latino non contenga qualcosa di egocentrico: «Io voglio che il celebrante si indirizzi a me e voglio capire subito». Perché nella Santa Messa non si abbassa qualcosa a livello dell’uomo, ma ci si innalza a livello di Dio; non si rimane rinchiusi nella propria umanità, ma si esce da se stessi verso la Divinità; non ci si appropria, ma si dà di se stessi; non si domina, ma ci si umilia davanti alla Maestà infinita di Dio. E non si tratta tanto di conoscere, quanto di amare. Difatti la santa Messa, il Sacrificio del Calvario sono una cosa che non riusciremo mai a comprendere completamente. Se il latino è un modo eccellente per esprimere ciò che possiamo capire, il resto è silenzio. Ora, le persone che non apprezzano il silenzio, che dicono: «Non si dice niente, non si fa niente, non si partecipa», trascurano che il silenzio rende possibile ciò che è più grande delle parole o dei gesti, che permette una partecipazione più profonda nei santi misteri della Messa: ossia la contemplazione e l’adorazione di Dio, l’umiliazione di se stessi e l’offerta di se stessi a Dio. «Fa silenzio e sappi che sono Iddio».

Opera perfetta e mistero

Ci sono due ultimi aspetti del Santo Sacrificio della Messa che vengono ben espressi nel rito antico romano e questi sono la sua perfezione e il suo mistero. Il Santo Sacrificio della Messa è un’opera perfetta perché opera di Dio, Opus Dei nelle parole di San Bernardo, anzi la sua opera più grande: esige dunque una collaborazione corrispondente da parte degli uomini, infatti la Messa solenne secondo questo rito è stata definita il più grande compimento della civiltà occidentale. Tutti gli elementi devono contribuire a quest’opera sublime, divina e umana allo stesso tempo: i gesti, i movimenti, l’architettura della Chiesa, i paramenti, le candele, l’incenso, il canto, la musica, i fiori. Tutto deve essere perfetto (humano modo), bello e degno di Dio.In ultima analisi tutti questi elementi esprimono un mistero che, come abbiamo detto, non potremo mai comprendere: il mistero che Iddio viene chiamato sull’altare da un uomo, che il pane e il vino diventano Dio e rendono presente il Sacrificio del Calvario, che questo Sacrificio unico si ripete nel corso dei secoli, che Iddio sacrifica Dio a Iddio, che Iddio viene consumato dalle Sue creature, che così vengono unite con Lui e con tutti i membri della Chiesa, che tutta la Chiesa sulla terra, nel Purgatorio e nel Paradiso ne godono. Questi misteri esigono un quadro adeguato, un quadro che il rito antico fornisce in modo mirabile, nel quale i fedeli, almeno una volta alla settimana, possano uscire dal mondo moderno e dalla vita quotidiana, dura e talvolta anche brutta e dolorosa, per ritrovare un riflesso della bellezza e del mistero di Dio sublime e assolutamente trascendente, Colui che solo può dare un senso alla loro vita; un quadro, infine, dove possano abbassarsi davanti alla Sua divina Maestà, adorarLo e offrirsi completamente a Lui in unione con il Santo Sacrificio del Calvario.

Rito della Messa: Forma straordinaria e nuova evangelizzazione

di S. Ecc. Mons. Athanasius Schneider

 Mons. Schneider 5
L’articolo che segue, di Mons. Athanasius Schneider, il vescovo autore di “Dominus est“, è stato pubblicato sull’edizione dell’estate 2012 di “The Latin Mass“. Il vescovo Schneider esamina i punti di rottura tra la liturgia preconciliare e postconciliare considerandoli vere e proprie “piaghe liturgiche”, anche perché, per la maggior parte, non sono nemmeno previste dalla Sacrosanctum Concilium. Propone anche il ristabilimento di un minimo di continuità, che considera condizione imprescindibile per la nuova evangelizzazione, vista la corrispondenza tra lex orandi e lex credendi.

 

Volgendo lo sguardo verso Cristo

Per parlare correttamente di nuova evangelizzazione, è necessario in primo luogo a volgere lo sguardo verso Colui che è il vero evangelizzatore, cioè Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, il Verbo di Dio fatto Uomo. Il Figlio di Dio venne su questa terra per espiare e riparare il più grande peccato, il peccato per eccellenza. E questo peccato, il peccato per eccellenza dell’umanità, consiste nel rifiuto di adorare Dio e nel rifiuto di mantenere per lui il primo posto, il posto d’onore. Questo peccato da parte dell’uomo consiste nel non prestare attenzione a Dio, non avendo più il senso della convenienza delle cose, o anche il senso dei dettagli relativi a Dio e dell’adorazione che gli è dovuta, nel non voler vedere Dio, e nel non voler a inginocchiarsi davanti a Dio.

Per chi ha un tale atteggiamento, l’incarnazione di Dio è una fonte di imbarazzo e di conseguenza anche la presenza reale di Dio nel mistero eucaristico è motivo di imbarazzo, come lo è la centralità della presenza eucaristica di Dio nelle nostre chiese. Infatti l’uomo peccatore vuole il centro della scena per se stesso, sia all’interno della Chiesa che durante la celebrazione eucaristica. Vuole essere visto, per farsi notare.

Per questo motivo Gesù Eucaristia, Dio incarnato, presente nel tabernacolo sotto la forma eucaristica, viene messo da parte. Anche la rappresentazione del Crocifisso sulla croce in mezzo all’altare durante la celebrazione verso il popolo è un imbarazzo, perché potrebbe nascondere il volto del sacerdote. Pertanto, l’immagine del Crocifisso al centro dell’altare, così come Gesù Eucaristia nel tabernacolo nel centro dell’altare, è un imbarazzo. Di conseguenza, la croce e il tabernacolo sono spostati a lato. Durante la messa, l’assemblea deve essere in grado di vedere il volto del sacerdote in ogni momento, e lui si diverte a mettersi letteralmente al centro della casa di Dio… E se per caso Gesù, realmente presente a noi nella Santissima Eucaristia, è ancora lasciato nel suo tabernacolo al centro dell’altare perché il Ministero di monumenti storici, anche in un regime ateo, ha proibito il suo spostamento per la conservazione del patrimonio artistico, il prete, spesso, durante tutta la celebrazione eucaristica, non si fa scrupolo di voltargli le spalle.

Quante volte gli adoratori di Cristo buoni e fedeli, piangendo, hanno gridato, nella loro semplicità e umiltà: “Dio ti benedica, Ministero dei monumenti storici! Almeno ci hanno lasciato Gesù al centro della nostra chiesa “.

La Messa è destinato a dare gloria a Dio, non agli uomini

Solo sulla base dell’adorazione e della glorificazione di Dio la Chiesa può adeguatamente proclamare la parola di verità, vale a dire evangelizzare. Prima che il mondo abbia mai sentito Gesù, il Verbo eterno fatto carne, predicare e annunciare il Regno, Egli ha adorato in silenzio per trenta anni. Questa rimane sempre la legge per la vita della Chiesa e la sua azione, nonché per tutti gli evangelizzatori. “Dal modo in cui viene trattata la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”, ha detto il cardinale Ratzinger, il nostro attuale Santo Padre Benedetto XVI. Il Concilio Vaticano II ha voluto ricordare alla Chiesa quale realtà e quali azioni sarebbero dovute essere al primo posto nella sua vita.

Per questa ragione la prima parte degli atti del Concilio è stata dedicata alla liturgia. Il Concilio ci dà i seguenti principi: nella Chiesa, e quindi nella liturgia, l’uomo deve essere orientato verso il divino ed essere subordinato ad esso, allo stesso modo il visibile in relazione l’invisibile, l’azione in relazione alla contemplazione, la città presente in relazione a quella futura, a cui aspiriamo (vedi Sacrosanctum Concilium, 2). Secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II nostra liturgia terrena partecipa in anticipo alla liturgia celeste della città santa di Gerusalemme (ibid., 2).

Tutto ciò che riguarda la liturgia della Santa Messa, vale a dire le preghiere di adorazione, di ringraziamento, di espiazione e di petizione che il sommo ed eterno Sacerdote ha presentato al Padre, deve quindi servire a esprimere chiaramente la realtà del sacrificio di Cristo.

La forma straordinaria e la nuova evangelizzazione

Il rito e ogni dettaglio del Santo Sacrificio della Messa deve incentrarsi sulla glorificazione e adorazione di Dio, insistendo sulla centralità della presenza di Cristo, sia nel segno e la rappresentazione del Crocifisso, sia nella sua presenza eucaristica nel tabernacolo, e in particolare al momento della Consacrazione e della Santa Comunione. Più questo è rispettato, meno l’uomo è protagonista nella celebrazione, e tanto meno la celebrazione appare come un cerchio chiuso in se stesso; piuttosto [è un cerchio] aperto a Cristo e avanza verso di lui come in un corteo, con il sacerdote alla sua testa; come una processione liturgica ha il pregio di rispecchiare il sacrificio di adorazione di Cristo crocifisso; i frutti derivanti dalla glorificazione di Dio e ricevuti nelle anime dei presenti saranno più ricchi; Dio li onorerà di più.

Quanto più il sacerdote e i fedeli, nelle celebrazioni eucaristiche, cercano sinceramente la gloria di Dio piuttosto che quella degli uomini e non cercano di ricevere la gloria gli uni dagli altri, più Dio li considererà, concedendo che le loro anime possano partecipare più intensamente e con frutto alla gloria e all’onore della sua vita divina.

Oggi, in vari luoghi della terra, ci sono molte celebrazioni della Santa Messa che, si potrebbe dire, rappresentano un inversione del Salmo 113:9: “Non a te, o Signore, ma al nostro nome dà gloria” [chissà che cosa ne direbbe il Card. Siri! n. d. t.]. A tali celebrazioni si riferiscono le parole di Gesù: “Come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?”(Gv 5:44).

I sei principi della riforma liturgica

Il Concilio Vaticano II stabilì i seguenti principi in merito a una riforma liturgica:

1. Durante la celebrazione liturgica, l’umano, il temporale, e l’azione devono essere diretti verso il divino, l’eterno, e la contemplazione, il ruolo dei primi deve essere subordinato a questi ultimi (Sacrosanctum Concilium, 2).

2. Durante la celebrazione liturgica, dovrà essere incoraggiata la consapevolezza che la liturgia terrena partecipa alla liturgia celeste (Sacrosanctum Concilium, 8).

3. Non ci deve essere assolutamente alcuna innovazione; quindi nessuna nuova creazione dei riti liturgici, in particolare nel rito della Messa, se non per un guadagno vero e certo per la Chiesa, e a condizione che tutto sia fatto con prudenza e, se ciò è garantito, che nuove forme sostituiscano organicamente quelle esistenti (Sacrosanctum Concilium, 23).

4. Il rito della Messa deve essere tale che il sacro sia affrontato in modo più esplicito (Sacrosanctum Concilium, 21).

5. Il latino deve essere conservato nella liturgia, soprattutto alla Santa Messa (Sacrosanctum Concilium, 36 e 54).

6. Il canto gregoriano ha un posto d’onore nella liturgia (Sacrosanctum Concilium, 116).

I Padri conciliari hanno visto le loro proposte di riforma come la continuazione della riforma di san Pio X (Sacrosanctum Concilium 112 e 117) e del servo di Dio Pio XII, anzi, nella Costituzione liturgica, l’Enciclica Mediator Dei di Pio XII è quella citata più spesso.

Tra le altre cose, il Papa Pio XII ha lasciato alla Chiesa un importante principio della dottrina riguardante la Santa Liturgia, vale a dire la condanna di quello che viene chiamato archeologismo liturgico, le cui proposte sono in gran parte sovrapponibili a quelle del sinodo giansenista e tendente al protestantesimo di Pistoia (vedi Mediator Dei, 63-64).

È un dato di fatto che richiamino alla mente il pensiero teologico di Martin Lutero.

Per questa ragione, il Concilio di Trento aveva già condannato le idee liturgiche protestanti, in particolare l’enfasi esagerata sulla nozione di banchetto nella celebrazione eucaristica a scapito del suo carattere sacrificale e la soppressione di segni univoci di sacralità come espressione del mistero della liturgia (Concilio di Trento, sessione 22).

Le dichiarazioni dottrinali del Magistero sulla liturgia, in questo caso quelle del Concilio di Trento e dell’ enciclica Mediator Dei e che si riflettono in una prassi liturgica secolare, o addirittura millenaria, queste dichiarazioni, dico, formano una parte di quell’elemento della Santa Tradizione che non si può abbandonare senza incorrere in gravi danni spirituali. Il Vaticano II ha confermato queste dichiarazioni dottrinali sulla liturgia, come si può vedere leggendo i principi generali del culto divino nella Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.

Come esempio di errore nel pensiero e nella prassi liturgica, Papa Pio XII cita la proposta di dare all’altare la forma di un tavolo (Mediator Dei 62).

Se già Papa Pio XII rifiutò l’altare a forma di tavolo , si può immaginare quanto più egli avrebbe rifiutato la proposta per una celebrazione attorno a un tavolo versus populum!

Quando la Sacrosanctum Concilium (n. 2) insegna che, nella liturgia, la contemplazione ha la priorità e che tutta la celebrazione deve essere orientata ai misteri celesti (ibid. 2 e 8), riecheggia fedelmente la seguente dichiarazione del Concilio di Trento: “E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.“(Sessione 25, capitolo 5).

Gli insegnamenti magisteriali della Chiesa citati sopra, in particolare la Mediator Dei, erano certamente riconosciuti come pienamente valida dai Padri del Concilio. Pertanto essi devono continuare ad essere pienamente validi per tutti i figli della Chiesa anche oggi.

Le cinque piaghe del Corpo mistico di Cristo liturgico

Nella lettera a tutti i vescovi della Chiesa cattolica che Benedetto XVI ha inviato il 7 luglio 2007 con il Motu Proprio Summorum Pontificum, il Papa ha fatto la seguente importante dichiarazione: “Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni precedenti era sacro, resta sacro e grande anche per noi.” Nel dire questo, il Papa ha espresso il principio fondamentale della liturgia che hanno insegnato il Concilio di Trento, Papa Pio XII e il Concilio Vaticano II.

Guardando senza pregiudizi e obiettivamente la prassi liturgica della stragrande maggioranza delle chiese di tutto il mondo cattolico in cui viene utilizzata la forma ordinaria del rito romano, nessuno può onestamente negare che i sei principi liturgici del Vaticano II siano costantemente violati, o quasi, nonostante l’affermazione erronea che questa sia la prassi liturgica voluta dal Vaticano II. Ci sono un certo numero di aspetti concreti della prassi liturgica attualmente prevalente nel rito ordinario che rappresentano una rottura vera e propria rispetto ad una pratica liturgica costante e millenaria. Con questo intendo le cinque pratiche liturgiche che citerò a breve, che possono essere definite le cinque piaghe del corpo mistico liturgico di Cristo. Si tratta di ferite, perché costituiscono una rottura violenta con il passato in quanto minimizzano il carattere sacrificale (che in realtà è il carattere centrale ed essenziale della Messa) e propongono l’idea del banchetto. Tutto questo riduce i segni esteriori di adorazione divina, perché mette in evidenza in misura molto minore la dimensione celeste ed eterna del mistero.

Ora le cinque ferite (tranne per le nuove preghiere dell’Offertorio) sono quelli che non sono previsti nella forma ordinaria del rito della Messa, ma sono stati portati in esso attraverso la pratica di una moda deplorevole.

A) La prima e più ovvia ferita è la celebrazione del Sacrificio della Messa in cui il sacerdote celebra con la faccia rivolta verso i fedeli, soprattutto durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro del culto che è dovuto a Dio. Questa forma esteriore corrisponde, per sua stessa natura, più che altro al modo in cui si insegna in una classe o si condivide un pasto. Siamo in un circolo chiuso. E questa forma assolutamente non è conforme al momento della preghiera, meno ancora a quella di adorazione. Eppure il Vaticano II non ha voluto affatto questa forma, né la stessa è mai stata raccomandata dal Magistero dei Papi dopo il Concilio.

Papa Benedetto XVI ha scritto nella prefazione al primo volume delle sue opere raccolte: “L’idea che il sacerdote e il popolo in preghiera devono guardarsi l’un l’altro reciprocamente è nata solo in età moderna ed è completamente estranea al cristianesimo antico. Infatti, il sacerdote e il popolo non affrontano la loro preghiera gli uni verso gli altri, ma insieme la rivolgono all’unico Signore. Per questo motivo, nella preghiera, guardano nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico del ritorno del Signore, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso l’alto“.

La forma di celebrazione in cui tutti volgono il loro sguardo nella stessa direzione (Conversi ad orientem, ad Crucem, ad Dominum) è anche menzionata nelle rubriche del nuovo rito della Messa (cfr. Ordo Missae, 25, 133, 134). La cosiddetta celebrazione versus populum non corrisponde certo all’idea della Santa Liturgia come indicato nella dichiarazione della Sacrosanctum Concilium, 2 e 8.

B) La seconda ferita è la comunione nella mano, che ora è diffusa in quasi tutto il mondo. Non solo questo modo di ricevere la comunione non è in alcun modo menzionato dai Padri del Concilio Vaticano II, ma è stato in realtà introdotto da un certo numero di vescovi in disobbedienza alla Santa Sede e nonostante il voto a maggioranza negativo dai vescovi nel 1968. Papa Paolo VI la legittimò solo più tardi, a malincuore, e in particolari condizioni.

Papa Benedetto XVI, dal Corpus Christi 2008, distribuisce la Comunione ai fedeli in ginocchio e sulla lingua, sia a Roma che in tutte le chiese locali che visita. E così sta mostrando a tutta la Chiesa un chiaro esempio di Magistero pratico in una questione liturgica. Poiché la maggioranza qualificata dei vescovi rifiutò la Comunione nella mano come qualcosa di nocivo tre anni dopo il Concilio, tanto più lo avrebbero fattoi Padri conciliari!

C) La ferita è rappresentata dalle nuove preghiere di Offertorio. Si tratta di una creazione del tutto nuova e non erano mai state utilizzate nella Chiesa. Esse non esprimono tanto il mistero del sacrificio della Croce quanto l’evento di un banchetto e in tal modo ricordano le preghiere del pasto del sabato ebraico. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa, in Oriente e in Occidente, le preghiere Offertorio sono sempre stati espressamente orientate al mistero del sacrificio della Croce (cfr. ad esempio Paul Tirot, Histoire des Prières d’Offertoire dans la liturgie romaine du VIIème XVIème au siècle [Roma, 1985]). Non vi è dubbio che una tale creazione, assolutamente nuova contraddice la chiara formulazione del Concilio Vaticano II che afferma: “novità ne fiant. . . novae formae ex Formis iam exstantibus organice crescant “(Sacrosanctum Concilium, 23).

D) La quarta ferita è la totale scomparsa del latino nella stragrande maggioranza delle celebrazioni eucaristiche nella forma ordinaria in tutti i paesi cattolici. Si tratta di una infrazione diretta contro le decisioni del Concilio Vaticano II.

E) La quinta ferita è l’esercizio da parte delle donne dei servizi liturgici di lettore e di accolito, come pure l’esercizio di questi stessi servizi in abiti laici, quando, durante la Santa Messa entrano nel coro direttamente dallo spazio riservato ai fedeli. Questa usanza non è mai esistita nella Chiesa, o almeno non è mai stato la benvenuta. Essa conferisce la celebrazione della Messa cattolica il carattere esterno di informalità, il carattere e lo stile di un gruppo piuttosto profano. Il Concilio di Nicea, già nel 787, proibiva tali pratiche quando ha stabilito il canone seguente: “Se qualcuno non è ordinato, non è consentito per lui a fare la lettura dall’ambone durante la santa liturgia” (can. 14 ). Questa norma è stata costantemente seguita nella Chiesa. Solo i suddiaconi e i lettori sono stati autorizzati a fare la lettura durante la liturgia della Messa. Se lettori e accoliti non sono presenti, uomini o ragazzi con i paramenti liturgici possono farlo, non le donne, dal momento che il sesso maschile rappresenta simbolicamente l’ultimo anello di ordini minori dal punto di vista dell’ordinazione non sacramentale di lettori e accoliti.

I testi del Vaticano II non parlano della soppressione degli ordini minori e del suddiaconato o dell’introduzione di nuovi ministeri. Nella Sacrosanctum Concilium, al n. 28, il Concilio distingue il ministro dal fedele durante la celebrazione liturgica, e stabilisce che ciascuno può fare solo ciò che gli compete per la natura della liturgia. Il numero 29 menziona i ministrantes, cioè i chierichetti che non sono stati ordinati. In contrasto con loro, ci sono, in linea con i termini giuridici in uso in quel tempo, i Ministri, vale a dire coloro che hanno ricevuto un ordine, sia esso maggiore o minore.

Il Motu Proprio: Come porre fine alla rottura nella Liturgia

Nel Motu Proprio Summorum Pontificum, Papa Benedetto XVI stabilisce che le due forme del rito romano devono essere considerate e trattate con lo stesso rispetto, perché la Chiesa rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Nella lettera di accompagnamento del Motu Proprio, il Papa vuole le che due forme si arricchiscano reciprocamente.

Inoltre egli auspica che la nuova forma “sia in grado di dimostrare, più chiaramente di quanto non sia avvenuto finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso“.

Quattro delle ferite liturgiche, o pratiche sfortunate (celebrazione versus populum, comunione nella mano, totale abbandono del latino e del canto gregoriano, e intervento delle donne per il servizio di lettore e di accolito), non hanno in sé e per sé nulla a che fare con la forma ordinaria della Messa ed inoltre sono in contraddizione con i principi liturgica del Vaticano II. Se fossero abolite queste pratiche si tornerebbe al vero insegnamento del Concilio Vaticano II. E poi, le due forme del rito romano, verrebbero ad essere considerate assai più vicine, e così la forma straordinaria e la nuova evangelizzazione poiché, almeno esternamente, non si parlerebbe di alcuna rottura né apparirebbe alcuna rottura nella Chiesa tra il pre e il postconcilio.

Per quanto riguarda le nuove preghiere dell’Offertorio, sarebbe auspicabile che la Santa Sede le sostituisse con le preghiere corrispondenti della forma straordinaria, o almeno consentisse l’uso di quest’ultimo ad libitum. In questo modo la rottura tra le due forme sarebbe evitata non solo esternamente ma anche internamente. La rottura nella liturgia è proprio ciò che i Padri conciliari non volevano. I verbali del Concilio attestano questo, perché nel corso dei duemila anni di storia della liturgia, non c’è mai stata una rottura liturgica e, di conseguenza, non ci può essere. D’altra parte deve esserci continuità, così come si conviene per il Magistero.

Le cinque piaghe del corpo liturgico della Chiesa che ho menzionato gridano per la guarigione. Esse rappresentano una rottura che si può confrontare con l’esilio ad Avignone.

La situazione di una rottura così forte in un’espressione della vita della Chiesa è ben lungi dall’essere irrilevante, allora con l’assenza dei papi da Roma, oggi lcon a rottura visibile tra la liturgia prima e dopo il Concilio. Questa situazione grida in effetti, per la guarigione. Per questo motivo abbiamo bisogno di nuovi santi oggi, di una o più Sante Caterina di Siena.

Abbiamo bisogno di vox populi fidelis che richiedano la soppressione di questa rottura liturgica. La tragedia in tutto questo è che, oggi come i nel tempo dell’esilio di Avignone, la grande maggioranza del clero, soprattutto nei suoi ranghi più alti, è contenta di questa rottura.

Prima che ci si possano aspettare frutti efficaci e duraturi dalla nuova evangelizzazione, deve avere corso all’interno della Chiesa un processo di conversione. Come possiamo chiamare gli altri alla conversione quando, tra coloro che hanno risposto alla vocazione, non si è ancora verificata una convincente conversione nei confronti di Dio, internamente o esternamente? Il sacrificio della Messa, il sacrificio di adorazione di Cristo, il più grande mistero della Fede, l’atto più sublime di adorazione si celebra in un circolo chiuso, in cui le persone si cercano a vicenda.

Quello che manca è la conversio ad Dominum. È necessaria, anche esternamente e fisicamente, dal momento che nella liturgia Cristo è trattata come se non fosse Dio, e non Gli sono rivolti chiari segni esteriori dell’adorazione che è dovuta a Dio solo, perché i fedeli ricevono la Santa Comunione in piedi e, per giunta, la prendono in mano come un qualsiasi altro alimento, l’afferrano con le dita e la portano in bocca. Vi è qui una sorta di arianesimo o semi-arianesimo eucaristico.

Una delle condizioni necessarie per una nuova e fruttuosa evangelizzazione sarebbe la testimonianza di tutta la Chiesa nel culto liturgico pubblico. Dovrebbero essere osservati almeno questi due aspetti del culto divino:

1) Che la Santa Messa sia celebrata in tutto il mondo, anche in forma ordinaria, in una conversio ad Dominum interna e quindi necessariamente anche esterna .

2) Che i fedeli si inginocchino davanti a Cristo al momento della Santa Comunione, come san Paolo chiede quando si fa menzione del nome o della persona di Cristo (Fil 2,10), e che lo ricevano con l’amore più grande e il più grande rispetto possibile, come si addice a Lui come Dio vero.

Grazie a Dio, Benedetto XVI ha preso due misure concrete per avviare il processo di un ritorno dall’esilio di Avignone della liturgia, cioè, il Motu Proprio Summorum Pontificum e la reintroduzione del tradizionale rito della Comunione.

Vi è ancora bisogno di molte preghiere e forse di una nuovo santa Caterina da Siena per le altre misure da adottare al fine di guarire le cinque piaghe sul corpo liturgico e mistico della Chiesa e perché Dio sia venerato nella liturgia con quell’amore, quel rispetto, quel senso del sublime che da sempre sono le caratteristiche della Chiesa e del suo insegnamento, in particolare nel Concilio di Trento, nell’enciclica Mediator Dei di Papa Pio XII, nella Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II e nella teologia della liturgia di Papa Benedetto XVI, nel suo magistero liturgico, e nel Motu proprio di cui sopra.

Nessuno può evangelizzare a meno che non abbia adorato, o meglio ancora a meno che non adori costantemente e doni Dio, Cristo nell’Eucaristia, vera priorità nel suo modo di celebrare e in tutta la sua vita. Infatti, per citare il cardinale Joseph Ratzinger: “E’ nel trattamento della liturgia che si decide il destino della fede e della Chiesa.

da “The Latin Mass Magazine” vol. 21 n. 2, estate 2012.

Le origini apostolico-patristiche della Messa tridentina

Sancta Missa

 
di Suor Maria Francesca Perillo F.I. 
Cari amici, quando ho ascoltato il testo che segue, letto in sintesi da una sorella F.I. durante il più recente Convegno Summorum Pontificum, ne sono rimasta edificata – e ve lo confesso – molto più che dalle relazioni di pastori (non esito a fare i nomi) come Aillet, Cañizares e Koch. Non ero finora riuscita a procurarmi il testo integrale, non disponibile – mi hanno detto – fino alla pubblicazione degli Atti del Convegno. Però questa finora – dal maggio 2011 – non è stata curata. E dunque, per vostra e mia ulteriore edificazione e soprattutto gioia spirituale, mi sono assunta la fatica di riprenderlo dai fascicoli del “Settimanale di Padre Pio“, che l’ha pubblicato a puntate solo nell’edizione cartacea. Ora sono lieta di metterlo a disposizione qui. È lungo; ma non potevo dividerlo in parti, per non fargli perdere l’efficacia e l’incanto che ha. Si tratta di un tesoro da non tenere nascosto.

La Messa “tridentina” non è stata inventata da san Pio V né dal Concilio di Trento, ma risale ai tempi apostolici. La Liturgia, infatti, non è l’espressione d’un sentimento del fedele, ma è “la” preghiera ufficiale della Chiesa; è Dogma pregato. Essa racchiude qualcosa di eterno non costruito da mano umana. «Ecce ego vobiscum sum», dice Cristo alla sua Chiesa (Mt 28,20).
Introduzione
Con l’espressione “Messa tridentina” o “Messa di san Pio V”, si suole indicare la celebrazione del rito secondo il cosiddetto Vetus Ordo, ossia anteriore alla riforma liturgica post-conciliare. Si tratta di due espressioni improprie, poiché, se è vero che il papa san Pio V promulgò un Messale a seguito del Concilio di Trento in realtà non fece altro che fissare e circoscrivere sapientemente un rito già in uso a Roma da secoli. Esso risaliva, nei suoi elementi essenziali, almeno a mille anni prima, precisamente al papa san Gregorio Magno. Da quest’ultimo pontefice viene anche il nome, più corretto ma non esauriente, di rito gregoriano. Non esauriente perché da san Gregorio Magno, come vedremo, il rito risale ai tempi apostolici per riannodarsi infine all’Ultima Cena e al Sacrificio cruento di Nostro Signore Gesù Cristo, di cui ogni Messa è costante ripresentazione ed incruenta attualizzazione.
È stato giustamente osservato che la Messa, come pure il Breviario antico, non ha autore poiché di gran parte dei suoi testi non si può dire quando abbiano avuto origine e quando abbiano trovato una collocazione definitiva. Ciascuno perciò «percepiva che essa era qualcosa di eterno e non costruito da mano umana» (M. Mosebach). È certo, infatti, che il Messale Romano –  come afferma il beato Ildefonso Schuster – rappresenta nel suo complesso «l’opera più elevata e importante della letteratura ecclesiastica, quella che riflette più fedelmente la vita della Chiesa, il poema sacro al quale han posto mano cielo e terra».
« Il nostro Canone – afferma  Adrien Fortescue – è intatto, come tutto lo schema della Messa. Il nostro Messale è ancora quello di san Pio V. Dobbiamo ringraziare che la sua commissione sia stata così scrupolosa da mantenere o restaurare l’antica tradizione romana. Essenzialmente il Messale di san Pio V è il Sacramentario Gregoriano, modellato sul libro gelasiano che a sua volta dipende dalla collezione leonina. Troviamo le preghiere del  nostro Canone nel trattato De Sacramentis e riferimenti al Canone stesso nel IV secolo. Così la nostra Messa va indietro, senza cambiamenti essenziali, all’epoca nella quale per la prima volta si sviluppò dalla Liturgia più antica. […] nonostante i problemi irrisolti, nonostante i cambiamenti successivi, non esiste nella Cristianità un altro rito così venerabile come il nostro».
Prima di addentrarci nello specifico del tema, ci par opportuno ricordare e riaffermare alcuni principi fondamentali della sacra Liturgia che sembrano esser caduti nell’oblio con conseguenze così aberranti da ridurre le sacre Sinassi a celebrazioni «etsi Deus non daretur». Il che significa de facto la morte della Liturgia.
Il primo principio è che la Liturgia non è, non è mai stata né potrà mai essere, l’espressione del sentimento del fedele nei confronti del suo Creatore. Essa è invece l’adempimento da parte del fedele di un suo dovere nei confronti di Dio, ch’egli deve esprimere conformemente agli stessi insegnamenti divini. È il cosiddetto ius divinum, ossia il diritto di Dio ad essere adorato come Egli ha stabilito. La Liturgia non è una qualsiasi preghiera che il fedele rivolge spontaneamente a Dio, bensì “la” preghiera ufficiale della Chiesa: non v’è in essa nulla da inventare, né da innovare, né da adattare. «La Liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità» (enciclica Ecclesia de Eucharistia n. 52). Essa non è «l’espressione della coscienza di una comunità, del resto sparsa e mutevole». In forza di ciò, la Liturgia cattolica non è e non può essere “creativa”. Non lo può essere per la semplice ragione che non è un prodotto umano, ma opera di Dio, come ha ribadito a più riprese il Santo Padre. È interessante evidenziare a questo riguardo come già nel I secolo la Liturgia – benché ancora allo stato primitivo – avesse un proprio ordine che i cristiani ritenevano risalente a Cristo stesso. Il Fortescue nota che fin dal suo nascere la preghiera dei primi cristiani non è mai consistita in incontri organizzati a proprio piacimento. Lo dimostra con evidenza solare la prima lettera di san Clemente ai Corinti in cui si legge: «1.Dobbiamo fare con ordine tutto quello che il Signore ci comanda di compiere nei tempi fissati. 2.Egli ci prescrisse di fare le offerte e le liturgie, e non a caso o senz’ordine, ma in circostanze ed ore stabilite. 3. Egli stesso con la sua sovrana volontà determina dove e da chi vuole siano compiute, perché ogni cosa fatta santamente con la sua santa approvazione sia gradita alla sua volontà. 4.Coloro che fanno le loro offerte nei tempi fissati sono graditi e amati. Seguono le leggi del Signore e non errano. 5. Al gran sacerdote sono conferiti particolari uffici liturgici, ai sacerdoti è stato assegnato un incarico specifico e ai leviti incombono propri servizi [Gli Ordini minori aboliti da Paolo VI, Ministeria quaedam -ndr]. Il laico è legato ai precetti laici» (cap. XL). Sin dal I secolo v’è dunque nel Culto Divino un ordine ben stabilito ed una gerarchia che si ritengono provenire dal Signore.
In secondo luogo la Liturgia si àncora nella Tradizione, che è fonte della Rivelazione al pari della Sacra Scrittura. «La Liturgia – afferma il grande liturgista dom Guéranger – è la medesima Tradizione al suo più alto grado di potenza e solennità»; è «il pensiero più santo della sapienza della Chiesa per il fatto di essere esercitata dalla Chiesa in unione diretta con Dio nella confessione (di fede), nella preghiera e nella lode». La Liturgia, in altri termini, è il Dogma pregato.
I nemici della Chiesa conoscono a fondo questo principio. Essi sanno bene che il popolo di Dio è istruito, anzitutto, dalle e nelle sacre Sinassi. Demolite quelle, è demolita la Fede.
Con sguardo profetico dom Guéranger aveva compreso che l’odio della Liturgia cattolica è un comune denominatore dei vari novatores succedutisi nel corso dei secoli, i quali per attaccare il Dogma cattolico iniziano la loro feroce opera di distruzione dalla Liturgia. «Il primo carattere dell’eresia antiliturgica – scrive – è l’odio della Tradizione nelle formule del culto divino. Non si può contestare la presenza di tale specifico carattere in tutti gli eretici, da Vigilanzio fino a Calvino, e il motivo è facile da spiegare. Ogni settario che vuole introdurre una nuova dottrina si trova necessariamente in presenza della Liturgia, che è la Tradizione alla sua più alta potenza, e non potrà trovare riposo prima di aver messo a tacere questa voce, prima di avere strappato queste pagine che danno ricetto alla fede dei secoli trascorsi. Infatti, in che modo si sono stabiliti e mantenuti nelle masse il luteranesimo, il calvinismo, l’anglicanesimo? Per ottenere questo non si è dovuto far altro che sostituire nuovi libri e nuove formule ai libri e alle formule antiche, e tutto è stato consumato».
La Tradizione è anteriore alla Sacra Scrittura e abbraccia un campo assai più vasto. Essa è una fonte della Rivelazione distinta dalle Sacre Scritture, fonte che merita la medesima fede (così il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I). San Vincenzo di Lérins (†450 ca) riteneva come genuina tradizione apostolica ciò che soddisfaceva contemporaneamente a tutte e tre le seguenti condizioni: Quod semper, quod ab omnibus, quod ubique, ossia ciò che è stato creduto in ogni tempo, da tutti i fedeli e in ogni luogo.
La Tradizione è presente nella Liturgia, che contiene le preghiere e i riti del culto pubblico e dei Sacramenti. Non a caso sin dai primi decenni del 400 si trova citata la massima “legem credendi lex statuat supplicandi“, e cioè la preghiera liturgica (lex supplicandi) sia fonte (statuat) di cognizione teologica (legem credendi).
Questa massima millenaria – sulla quale torneremo – indica la vitale importanza e la grandissima utilità di mantenere inalterata e in uso la Liturgia tradizionale, e in particolare quella della Santa Messa, a salvaguardia della Fede. Indica anche che, con buona pace della creatività e dei presbiteri e dei fedeli, la creazione di nuove liturgie può facilmente corrompere la Fede (e difatti la corrompe) insinuando riti e preghiere privi di quel rigore teologico che ne garantisce un’interpretazione univoca e ortodossa.
In questo senso l’ostracismo al Messale di san Pio V, sintesi ed espressione d’una tradizione millenaria che rimonta – attraverso diversi stadi – ai tempi apostolici. costituisce ancor oggi un evidente segno di quell’odio alla Tradizione che da sempre ha caratterizzato la mente dei novatores d’ogni epoca.
Origine divina della Liturgia
Nella sua celebre opera Le Istituzioni Liturgiche, il venerabile dom Prosper Guéranger, esimio liturgista e abate di Solesmes, afferma essere la Liturgia qualcosa di così eccellente che per trovarne l’origine bisogna risalire fino a Dio stesso: poiché Dio, nella contemplazione delle sue perfezioni infinite, si loda e si glorifica senza posa, amandosi d’un amore eterno. Ma questi medesimi atti, compiuti nell’Essenza divina, hanno avuto manifestazione visibile e propriamente liturgica solo quando una delle tre divine Persone, avendo preso la natura umana, ha potuto rendere i suoi doveri di religione alla gloriosa Trinità.
«Dio – afferma dom Guéranger – ha tanto amato il mondo da donargli il suo unico Figlio affinché Questi lo istruisse nel compimento dell’opera liturgica. Dopo essere stata annunziata e prefigurata per quaranta secoli, una preghiera divina è stata offerta, un sacrificio divino è stato compiuto, e, ancora adesso e per l’eternità, l’Agnello immolato sin dall’inizio del mondo si offre sull’altare sublime del cielo e rende in una maniera infinita all’ineffabile Trinità tutti i doveri di religione, a nome dei membri di cui egli è il Capo».
Bisogna però considerare che – anche prima dell’Incarnazione del Verbo – il mondo non è mai stato senza Liturgia: poiché, come la Chiesa risale al principio del mondo, secondo la dottrina di sant’Agostino, la Liturgia risale a questo medesimo principio.
Nell’Antico Testamento la Liturgia è esercitata dai primi uomini nel principale e più augusto dei suoi atti, il sacrificio. Basti pensare ai sacrifici di Caino ed Abele, a quello di Noè, che lo perpetua dopo il diluvio. Abramo, Isacco, Giacobbe, offrono sacrifici di animali e innalzano pietre per l’altare che adombrano l’altare e il Sacrificio futuro. Poi Melchisedech, avvolto nel mistero d’un Re-Pontefice, tenendo nelle sue mani il pane ed il vino offre un olocausto pacifico, anch’esso figura del Sacrificio di Cristo.
Durante tutta quest’epoca primitiva, le tradizioni liturgiche non sono fluttuanti ed arbitrarie, ma precise e determinate. È evidente che esse non sono invenzione d’uomo, ma imposte da Dio stesso; difatti il Signore loda Abramo poiché aveva osservato non solo le sue leggi e i suoi precetti, ma anche le sue cerimonie.
Quando venne la pienezza dei tempi, il Verbo si fece carne ed abitò in mezzo a noi: Egli venne non per distruggere, ma compiere e perfezionare anche le tradizioni liturgiche. «Dopo la sua nascita, fu circonciso, offerto al tempio, riscattato. Dall’età di dodici anni, adempì la visita al Tempio, e, più tardi, lo si vide frequentemente venire ad offrire la sua preghiera. Compì la sua missione con il digiuno di quaranta giorni; santificò il sabato; consacrò con il suo esempio la preghiera notturna. Nell’Ultima Cena, in cui celebrò la grande Azione liturgica, e provvide al suo compimento futuro fino alla fine dei secoli, iniziò con la lavanda dei piedi, che i Padri hanno chiamato un mistero, e finì con un inno solenne, prima di uscire per andare al monte degli Ulivi. Poche ore dopo, la sua vita mortale, la quale non era che un grande atto liturgico, si concluse nell’effusione del Sangue sull’altare della croce; il velo dell’antico tempio, squarciandosi, aprì come un passaggio ai nuovi misteri, proclamò un nuovo tabernacolo, un’arca d’alleanza eterna, e da allora in poi la Liturgia cominciò il suo periodo completo in quanto al culto della terra» (P. Guéranger).
L’opera di Gesù Cristo
È necessario e fondamentale – nell’ambito dello studio della sacra Liturgia – stabilire se il Signore Gesù abbia fissato – almeno implicitamente – le grandi linee del sistema liturgico che si riferiscono alla sostanza del Culto cristiano.
Sulle orme dell’Aquinate, il quale afferma che «per suam passionem Christus initiavit ritum christianæ religionis», si può subito osservare che fu Cristo ad inaugurare il Culto cristiano iniziandolo incruento nell’Ultima Cena per consumarlo nel sangue sul Calvario. «A Lui dobbiamo, non solo l’istituzione della grazia propria dei sette Sacramenti, come ebbe a definire il Tridentino, ma anche il rito esteriore dei tre più importanti di essi, il Battesimo, l’Eucaristia, la Penitenza. Del Battesimo precisò la materia e la forma […]. Dell’Eucaristia fissò pure la materia – il pane ed il vino – e la forma nelle parole consacratorie da lui pronunciate durante l’ultima Cena: “Hoc est corpus meum… hic est sanguis meus“. […] Inoltre, siccome l’Eucaristia doveva essere il sacrificio della nuova Legge e per conseguenza l’atto liturgico più importante, volle ancora stabilire le sostanziali modalità con le quali doveva esser celebrata». In base alla narrazione dei Sinottici si desume che il Signore Gesù:
  1. istituì l’Eucaristia gratia agens, cioè pronunciando un formula eucaristica o di ringraziamento, servendosi probabilmente delle consuete eulogie giudaiche proprie del rituale di Pasqua ma integrate per quell’eccezionale circostanza; e prescrisse che il suo atto fosse ripetuto.
  2. Impose agli Apostoli che, nel rinnovare quanto Egli aveva fatto, lo commemorassero: «Hoc facite in meam commemorationem», ovvero, come precisa meglio san Paolo, proclamassero la sua morte: «Mortem Domini annuntiabitis donec veniat» (1Cor, 11,26).
  3. Volle che l’oblazione sacrificale commemorativa che gli Apostoli dovevano perpetuare mantenesse, come Egli aveva fatto, la forma conviviale. Si trattava dunque d’un banchetto sacrificale al quale i credenti partecipavano con la manducazione della mistica Vittima.
È lecito chiedersi, a questo punto, se Gesù Cristo, durante la sua vita terrena, abbia dato altre norme liturgiche. Possiamo rispondere affermativamente, malgrado la difficoltà a stabilire con esattezza quali di esse effettivamente rimontino fino a Lui. Infatti:
  1. gli Atti osservano che Gesù, nel tempo intercorso fra la Risurrezione e l’Ascensione, si fece vedere molte volte agli Apostoli «loquens de regno Dei». Ora, una delle tradizioni più antiche della Chiesa vuole che in quei frequenti convegni, Egli, fra l’altro, abbia fissato anche molte particolarità del Culto. Non aveva Egli detto prima di morire: «Ho molte cose da dirvi che ora non potete sostenere?». Eusebio riferisce che sant’Elena edificò sul monte degli Olivi una piccola chiesa in una specie di caverna, dove, secondo un’antica tradizione, « discipuli et apostoli, [ ..] arcanis mysteriis initiati fuerunt». Il Testamentum Domini (V sec.), nel «giorno stesso della Risurrezione, induce gli Apostoli a chiedere al Signore «quoniam canone, ille (scil. qui Ecclesiæ præest) debeat constituere et ordinare Ecclesiam […], quomodo sint mysteria Ecclesiæ tractanda» (con quale regola colui che è a capo della Chiesa deve costituire ed ordinare la Chiesa […] in che modo debbano essere trattati i misteri della Chiesa); e Gesù risponde spiegando loro in dettaglio, le varie parti della Liturgia. Questa tradizione è pure accolta da san Leone il quale afferma che «quei giorni che vi furono tra la Risurrezione e l’Ascensione non passarono oziosamente, ma in essi furono confermati i Sacramenti e furono rivelati grandi misteri». E Sisto V la ricorda nella bolla Immensa: «Quella norma di credere e di pregare che Cristo ha insegnato ai suoi discepoli durante uno spazio di quaranta giorni, non c’è nessuno dei cattolici che ignori che Egli l’ha affidata per loro tramite alla sua Chiesa perché fosse custodita e sviluppata».
  2. San Clemente papa, discepolo degli Apostoli (†99), scrivendo alla Comunità di Corinto, accenna – come abbiamo già riportato – a positive prescrizioni del Signore circa l’ordine da seguirsi nelle offerte, nella gerarchia e nei tempi della Liturgia.
  3. San Giustino, dopo aver descritto tutto l’ordine della sinassi eucaristica, asserisce che questa viene celebrata in Domenica, perché in tal giorno Nostro Signore, « apostolis et discipulis visus, ea docuit, quae vobis quoque consideranda tradidimus». Vuol dire dunque che le parti principali della Messa si facevano allora rimontare al Magistero di Cristo nel giorno della sua Risurrezione. Concediamo volentieri che l’asserzione sia generica; ma tanto Giustino quanto l’Anonimo del Testamentum Domini riflettono evidentemente una tradizione diffusa, antica e nient’affatto inverosimile. Del resto, l’uniformità stessa che nel campo liturgico si riscontra presso le Comunità cristiane dei primi due secoli, suppone un principio d’autorità, un metodo d’azione, cioè una organizzazione primitiva che dovette far capo più che agli Apostoli a Cristo medesimo».

La Liturgia al tempo degli Apostoli

Se dunque il Signore ha tracciato le linee fondamentali del Culto liturgico cristiano, è da credere che, per quanto Egli non ha definito, abbia lasciato grande libertà all’iniziativa illuminata degli Apostoli, che aveva investito della sua stessa divina missione ed ai quali aveva impartito le necessarie facoltà costituendoli non solo propagatori della Parola evangelica, ma anche ministri e dispensatori dei Misteri. Il potere liturgico era fondato e dichiarato perpetuo per vigilare alla custodia del deposito dei Sacramenti e delle altre osservanze rituali che il Pontefice supremo aveva istituito.
Gli Apostoli continuano dunque a stabilire e promulgare un insieme di riti. Ecco perché il Concilio di Trento, trattando nella sua 22ma sessione delle cerimonie auguste del Santo Sacrificio della Messa, dichiara che bisogna rapportare all’istituzione apostolica le benedizioni mistiche, i ceri accesi, le incensazioni, gli abiti sacri, e generalmente tutti i particolari atti a rivelare la maestà di questo grande Atto, e a portare l’anima dei fedeli alla contemplazione delle cose sublimi nascoste in questo profondo Mistero, per mezzo di questi segni visibili di religione e di pietà.
«Questo sacro Concilio osserva dom Guéranger – non era arrivato a produrre quest’affermazione per qualche congiuntura incerta, dedotta da premesse vaghe: esso parlava come parlavano i primi secoli. Esso invocava la tradizione primitiva, ossia apostolica, così come l’aveva eloquentemente invocata Tertulliano, sin dal III secolo […]. Anche san Basilio segnala la tradizione apostolica come fonte delle stesse osservanze, alle quali aggiunge, come esempio, le seguenti: pregare verso l’oriente, consacrare l’Eucaristia nel mezzo di una formula di invocazione che non si trova registrata né in san Paolo, né nel Vangelo; benedire l’acqua battesimale e l’olio dell’unzione, ecc. E non solo san Basilio e Tertulliano, ma tutta l’antichità, senza eccezione, confessa espressamente questa grande regola di sant’Agostino, divenuta banale a forza d’essere ripetuta: “È molto ragionevole credere che una prassi conservata da tutta la Chiesa e non istituita dai Concili, ma sempre conservata, non può averla tramandata che l’autorità degli Apostoli“» (Guéranger).
Ma se gli Apostoli devono essere incontestabilmente considerati come i creatori di tutte le forme liturgiche universali, essi hanno pure dovuto adattare il rito, nelle sue parti mobili, ai costumi dei Paesi, al genio dei popoli, per facilitare la diffusione del Vangelo: da qui le differenze che regnano tra alcune Liturgie d’Oriente, che sono l’opera più o meno diretta di uno o più Apostoli, e la Liturgia d’Occidente, di cui una, quella di Roma, deve riconoscere san Pietro quale suo principale autore.
È certo che il Principe degli Apostoli, colui che aveva ricevuto da Cristo medesimo il “potere delle chiavi”, non ha potuto essere estraneo all’istituzione o regolamento delle forme generali di Liturgia che i suoi fratelli portavano in tutto il mondo. «Dal momento in cui noi ammettiamo il suo potere di capo, dobbiamo ammettere, di conseguenza, la sua influenza principale in ciò come in tutto il resto, e riconoscere, con sant’Isidoro, che si deve far risalire a san Pietro, come istitutore, ogni ordine liturgico che si osserva universalmente in tutta la Chiesa. In secondo luogo, quanto alla Liturgia particolare della Chiesa di Roma, il solo buon senso ci fa comprendere che questo Apostolo non ha potuto dimorare a Roma, in quei lunghi anni, senza preoccuparsi di una materia così importante, senza stabilire, nella lingua latina e per il servizio di questa Chiesa, che egli rendeva per libera scelta madre e maestra di tutte le altre, una forma che, in considerazione delle varianti che necessitava la differenza dei costumi, del genio e delle abitudini, si confacesse almeno a quelle che egli aveva istituite e praticate a Gerusalemme, ad Antiochia, nel Ponto e nella Galazia» (Guéranger).
Bisogna tuttavia tener conto che la formazione della Liturgia attraverso gli Apostoli si è compiuta progressivamente. San Paolo, nella sua prima Lettera ai Corinti, ci mostra questa nuova Chiesa già in possesso dei Misteri del Corpo e del Sangue del Signore; tuttavia – con le parole « Caetera cum venero disponam» – dimostra di voler dare disposizioni più precise quanto alle cose sacre. «Tale è il senso che i santi Dottori hanno costantemente dato a queste parole che terminano il passo di questa Lettera dove si parla dell’Eucaristia: san Girolamo, nel suo commento succinto su questo passo, si spiega così: “Caetera de ipsius Mysterii Sacramento“. Sant’Agostino sviluppa ulteriormente questo pensiero nella sua lettera ad Januarium: “Queste parole – dice – danno ad intendere che, allo stesso modo che egli aveva in questa lettera, fatto allusione agli usi della Chiesa universale (sulla materia e l’essenza del Sacrificio), egli istituì subito (a Corinto) questi riti in cui la diversità dei costumi non ha affatto ostacolato l’universalità“».
Attingendo dagli Atti e dalle Lettere degli Apostoli, come pure dalle testimonianze della tradizione dei primi cinque secoli, si possono – a grandi linee – ricostruire questi riti generali che, per la loro stessa generalità, devono essere ritenuti apostolici, secondo la regola di sant’Agostino sopra citata.
Il Sacrificio eucaristico nell’Evo apostolico
Dal racconto degli Atti degli Apostoli si desume l’esistenza di un rituale, semplice sì, ma fisso, e sostanzialmente completo, seguito uniformemente dagli Apostoli e dai loro collaboratori nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo, della Cresima, degli Ordini sacri, dell’Olio per gli infermi. Né si possono ignorare alcune antiche e preziose tradizioni, esistenti in talune chiese fondate dagli Apostoli, secondo le quali la Liturgia ivi vigente era un patrimonio ricevuto dagli stessi Apostoli. Tale la Liturgia di san Marco per la chiesa d’Alessandria; di san Giacomo per quella d’Antiochia, di san Pietro per la Romana. E sant’Ireneo, che per mezzo di san Policarpo si riannoda alla tradizione efesina di san Giovanni evangelista, accennando all’istituzione della Santissima Eucaristia, dichiara che la forma dell’oblazione del Santo Sacrificio, la Chiesa l’ebbe dagli Apostoli: « E parimenti… [Cristo] ha affermato che il calice è il suo sangue e ha insegnato il nuovo sacrificio [del nuovo Testamento] che la Chiesa, ricevendolo dagli Apostoli, offre a Dio in tutto il mondo» (citato da M. Righetti in Manuale di storia liturgica). Non diversamente si esprime san Giustino nella sua famosa Apologia (1,66): «Il Cristo ha prescritto di offrire; lo hanno prescritto a loro volta gli Apostoli, e noi facciamo a riguardo dell’Eucarestia ciò che abbiamo appreso dalla loro tradizione».
È evidente che, in campo liturgico, la prima preoccupazione degli Apostoli fu quella di regolare la celebrazione della divina Eucaristia. Non a caso la Frazione del Pane compare dalla prima pagina degli Atti degli Apostoli, e san Paolo, nella prima lettera ai Corinti, insegna il valore liturgico di quest’atto.
Ma il culto e l’amore che i santi Apostoli portavano a Colui con il quale questa Frazione del Pane li metteva in rapporto, li obbligava, secondo l’eloquente nota di san Proclo di Costantinopoli, di circondarlo di un insieme di riti e di preghiere sacre che non poteva compiersi che in un tempo abbastanza lungo: e questo santo Vescovo non fa che seguire in ciò il sentimento del suo glorioso predecessore, san Giovanni Crisostomo. Innanzitutto questa celebrazione, per quanto era possibile, aveva luogo in una sala dignitosa e ornata; poiché il Salvatore l’aveva celebrata così, nell’Ultima Cena, caenaculum grande, stratum» (Guéranger). Il luogo della celebrazione era costituito da un altare: già non era più una tavola. L’autore della Lettera agli Ebrei lo dice con enfasi: «Altare habemus», abbiamo un altare (Eb 13,10).
Ecco come dom Guéranger – sulla base delle Lettere degli Apostoli e delle testimonianze patristiche – ricostruisce una Sacra Sinassi al tempo degli Apostoli. Una volta riuniti i fedeli nel luogo del Sacrificio, il Pontefice, nell’epoca apostolica, presiedeva innanzitutto alla lettura delle Epistole degli Apostoli, alla recita di qualche passo del santo Vangelo, che ha formato sin dall’origine la Messa dei Catecumeni; e non bisogna cercare altri istitutori di questo uso che gli Apostoli stessi. San Paolo lo conferma in più di un’occasione. Questa ingiunzione apostolica ebbe autorità di legge subito, poiché nella prima metà del II secolo, il grande apologista san Giustino attesta la fedeltà con cui la si seguiva, nella descrizione che egli ha dato della Messa del suo tempo (cf Apologia II). Tertulliano e san Cipriano confermano la sua testimonianza.

Quanto alla lettura del Vangelo, Eusebio insegna che il racconto delle azioni del Salvatore, scritto da san Marco, fu approvato da san Pietro per essere letto nelle Chiese: e san Paolo fa allusione a questo stesso uso, quando, designando san Luca, fedele compagno dei suoi pellegrinaggi apostolici, lo definisce come «il fratello che ha lode in tutte le Chiese a motivo del vangelo» (2Cor 8,18).

Il saluto al popolo con queste parole: «Il Signore sia con voi», era in uso sin dall’antica legge. Booz lo rivolge ai suoi mietitori (cf Rt 2,4) ed un profeta ad Asa, re di Giuda (cf 2Cr 15,2). «Ecce ego vobiscum sum», dice Cristo alla sua Chiesa (Mt 28,20). Così la Chiesa mantiene questo uso degli Apostoli, come prova l’uniformità di questa pratica nelle antiche Liturgie d’Oriente e d’Occidente, secondo il chiaro insegnamento del primo concilio di Braga.
La Colletta, forma di preghiera che riassume i voti dell’assemblea, prima dell’oblazione stessa del Sacrificio, appartiene anch’essa all’istituzione primitiva, come dimostra la concordanza di tutte le Liturgie. La conclusione di questa orazione e di tutte le altre Liturgie con queste parole: «Nei secoli dei secoli», è universale, sin dai primi giorni della Chiesa. Quanto all’uso di rispondere Amen, non v’è dubbio che risalga ai tempi apostolici. San Paolo stesso ne fa allusione, nella sua prima epistola ai Corinti (cf 14,16).
Nella preparazione della materia del Sacrificio, ha luogo l’unione dell’acqua con il vino che deve essere consacrato. Quest’uso d’un così profondo simbolismo, secondo san Cipriano, risale fino alla tradizione stessa del Signore. Le incensazioni che accompagnano l’oblazione sono state riconosciute essere di istituzione apostolica dal Concilio di Trento.
Lo stesso san Cipriano ci dice che fin dalla nascita della Chiesa, l’Atto del Sacrificio era preceduto da un Prefazio; che il sacerdote gridava: Sursum corda, a cui il popolo rispondeva: Habemus ad Dominum. E san Cirillo, parlando ai catecumeni della Chiesa di Gerusalemme, Chiesa più d’ogni altra di fondazione apostolica, spiega loro l’altra acclamazione: «Gratias agamus Domino Deo nostro! Dignum et iustum est»!
Segue il Trisagio: «Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus»! Il profeta Isaia, nell’Antico Testamento, lo sentì cantare ai piedi del trono di Jahvè; nel Nuovo, il profeta di Pathmos lo ripete così come l’aveva sentito risuonare presso l’altare dell’Agnello. Questo grido d’amore e di ammirazione, rivelato alla terra, doveva trovare un’eco duratura nella Chiesa cristiana. Tutte le Liturgie lo riconoscono, e si può ben garantire che il Sacrificio eucaristico non è mai stato offerto senza che esso vi fosse proferito.
Quindi si apre il Canone. « E chi oserà non riconoscere la sua origine apostolica?», si chiede dom Guéranger. Gli Apostoli non potevano lasciare mutevole ed arbitraria questa parte principale della Liturgia sacra. Se hanno regolamentato molte cose secondarie, tanto più avranno determinato le parole e i riti del più temibile e fondamentale di tutti i misteri cristiani. « È dalla tradizione apostolica – dice il papa Vigilio nella sua lettera a Profuturo – che noi abbiamo ricevuto il testo della preghiera del Canone».
Dopo la consacrazione, mentre i doni santificati stanno sull’altare, trova la sua collocazione l’Orazione domenicale, poiché, dice san Girolamo: « È dopo l’insegnamento di Cristo stesso, che gli Apostoli hanno osato dire ogni giorno con fede, offrendo il sacrificio del suo corpo: Padre nostro che sei nei cieli».
Il Sacrificatore procede immediatamente alla Frazione dell’Ostia, facendosi in ciò imitatore non solo degli Apostoli, ma di Cristo stesso, che prese il pane, lo benedì e lo spezzò prima di distribuirlo.
Ma, prima di comunicarsi con la Vittima di carità, tutti devono salutarsi nel santo bacio. «L’invito dell’Apostolo – dice Origene – ha prodotto nelle Chiese l’uso che hanno i fratelli di scambiarsi il bacio quando la preghiera è arrivata alla fine».
Ecco quindi certificata l’origine apostolica dei riti principali del Sacrificio, così come si praticavano in tutte le Chiese.

Certificata quindi l’origine apostolica dei riti principali del Sacrificio, così come si praticavano in tutte le Chiese, da tale ricostruzione discendono alcune fondamentali conclusioni:

  1. la Liturgia istituita dagli Apostoli ha dovuto contenere necessariamente tutto quello che era essenziale alla celebrazione del Sacrificio cristiano e all’amministrazione dei Sacramenti, tanto sotto l’aspetto delle forme essenziali quanto sotto quello dei riti obbligatori per la decenza dei misteri, per l’esercizio del potere di Santificazione e di Benedizione che la Chiesa riceve da Cristo attraverso gli stessi Apostoli. Questo insieme liturgico ha dovuto comprendere tutto quello che si riconosce universale nelle forme del culto, nell’arco dei primi secoli, e di cui non si può designare l’autore o l’origine, secondo il su menzionato principio di sant’Agostino. Questo insieme primitivo di riti cristiani, già sufficientemente chiari e dettagliati, mostra come, sin dal suo sorgere, la Chiesa abbia avvertito la necessità di stabilire il culto con il quale doveva elevarsi il Sacrificio e la lode al Dio tre volte Santo.
  2. Eccezion fatta per un esiguo numero di allusioni negli Atti degli Apostoli e nelle loro Epistole, la Liturgia apostolica si trova interamente fuori dalla Scrittura, ed è di puro dominio della Tradizione. Sin dalle sue origini, dunque, la Liturgia è esistita più nella Tradizione che nella Scrittura. Ma ciò non deve meravigliare specie se si considera che la Liturgia si esercitava dagli Apostoli, e da coloro che essi avevano consacrato vescovi, sacerdoti o diaconi, molto tempo prima della redazione completa del Nuovo Testamento.
  3. I Padri del III e IV secolo assai di frequente, parlando di qualche rito o cerimonia in particolare, affermano che è d’origine o tradizione apostolica. Con tale espressione – che è scientificamente e storicamente inverificabile – i Padri volevano verosimilmente richiamarsi al periodo più antico della Chiesa dimostrando con ciò quanto fossero ancora vive, presso le varie Chiese, le memorie dell’attività liturgica degli Apostoli.
  4. In tutta l’antichità cristiana non si trova alcun indizio che accenni, come vogliono i Protestanti e certa corrente teologia, ad una diretta ingerenza delle Comunità nelle funzioni del Culto. La fissazione e la progressiva regolamentazione della Liturgia si mostra sempre compito esclusivo degli Apostoli e dei vescovi loro successori.
Alla fine del IV secolo si registrano queste pregnanti parole del papa san Siricio che rivelano tutta l’importanza dell’unità liturgica come fondamento dell’unità della Fede e del Dogma: «La regola apostolica – scrive – c’insegna che la confessione di fede dei vescovi cattolici deve essere una. Se v’è una sola fede, non vi sarà che una sola tradizione. Se v’è una sola tradizione, vi dovrà essere una sola disciplina in tutta la Chiesa». Di qui l’importanza dell’unità liturgica che è il dogma professato nelle formule sacre.
Risale proprio a questo periodo (430 ca.) il notissimo lemma, divenuto legge nella scienza liturgica: “lex orandi lex creclendi“. Se esso è a tutti noto – forse non a tutti è noto l’autore e il complesso della citazione. Sembra che risalga al papa san Celestino il quale così scriveva ai vescovi della Gallia contro l’errore dei pelagiani: «Oltre ai decreti inviolabili della Sede apostolica che ci hanno insegnato la vera dottrina, consideriamo anche i misteri racchiusi nelle formule di preghiere sacerdotali che, stabilite dagli apostoli, sono ripetute nel mondo intero in modo uniforme in tutta la Chiesa cattolica cosicché la regola della fede deriva dalla regola della preghiera: ut legem credendi lex statuat supplicandi».
In conclusione, durante i primi tre secoli del Cristianesimo, v’era una sostanziale unità di riti. Si trattava naturalmente d’un’uniformità di sostanza più che di accidenti. Gradualmente i dettagli variabili vengono fissati ed entrano nella Tradizione della Chiesa, benché il rito rimanga ancora fluido, entro però delle linee ben stabilite.
La riforma di san Gregorio Magno
Dal IV secolo in poi abbiamo informazioni molto particolareggiate sulle questioni liturgiche. Padri della Chiesa come san Cirillo da Gerusalemme (†386), sant’Atanasio (†373), san Basilio (†379), san Giovanni Crisostomo (†407) ci offrono elaborate descrizioni dei riti che si celebravano.
La libertà della Chiesa sotto Costantino e, approssimativamente, il primo concilio di Nicea nel 325 segnano il grande punto di svolta degli studi liturgici. All’incirca dal IV secolo si ebbe la compilazione di testi liturgici completi: furono compilati il primo Euchologion e i Sacramentari per l’uso in chiesa.
Nel V secolo Papi e vescovi lavorano intensamente per l’unità liturgica e il suo perfezionamento. Tale opera fu portata a compimento nel secolo seguente da quel Pontefice il cui nome sarebbe rimasto per sempre legato alla sacra Liturgia: san Gregorio Magno. Asceso al soglio pontificio nel 590, intraprese molte importanti riforme, tra le quali quella della Liturgia fu senza dubbio preminente. La nota dominante della sua riforma fu la fedeltà alla Tradizione.
Sono ben noti i criteri liturgici del Santo. Egli scrive ad Agostino di Canterbury di scegliere, pur liberamente dalle chiese franche, quegli usi rituali che avesse stimato più convenienti per i suoi neofiti angli, giacché: non pro locis res, sed pro rebus loca amanda sunt. E in un’altra lettera diretta al vescovo Giovanni di Siracusa, si dichiarò disposto ad applicare questo principio alla stessa Liturgia romana: e in ciò Gregorio seguiva perfettamente la tradizione dei suoi predecessori, tanto che la Liturgia di Roma entrò definitivamente nel suo periodo di stasi solo dopo la morte del grande Dottore. «Se essa stessa (la Chiesa di Costantinopoli) – scrive san Gregorio – o un’altra Chiesa ha qualcosa di buono, io sono pronto ad imitare nel bene anche coloro che sono più piccoli di me, che tengo lontani da ciò che non è lecito. Infatti è stolto colui che si ritiene primo tanto da non voler imparare ciò che ha visto di buono».
Ma il patrimonio liturgico della Sede apostolica non cedeva in splendore a quello di alcun’altra Chiesa; per cui san Gregorio ci attesta che le sue innovazioni nella Messa in realtà non furono altro che un ritorno alle più pure tradizioni romane. Non fu neppure una vera innovazione quella d’aver dato una maggior importanza a quell’estremo residuo della primitiva prece litanica (Kyrie, eleison), che originariamente seguiva l’ufficio vigiliare, prima d’incominciare l’anafora eucaristica. All’introito san Gregorio riattaccò il Kyrie, ottenendo così che la Colletta sacerdotale non mancasse totalmente d’una qualsiasi formula di preambolo.
Fu parimenti Gregorio quello che anticipò prima della frazione delle Sacre Specie consacrate il canto dell’Orazione Domenicale, perché servisse quasi di conclusione al Canone eucaristico, giacché originariamente, così ragionava il Santo, l’anafora consacratoria includeva in qualche modo l’Orazione che il Signore stesso aveva insegnato agli Apostoli, come vedremo tra breve.
Fin dai tempi di san Paolo, l’unità della famiglia cristiana, sotto il governo dei legittimi pastori, era simboleggiata dall’unità dell’altare, del pane e del calice eucaristico, del quale tutti insieme partecipavano. Ma perché il senso dell’unità dell’Ecclesia romana non venisse indebolito dalle successive divisioni di carattere puramente amministrativo, in ciascuna domenica il Pontefice inviava ai suoi presbiteri una particella consacrata della sua Eucharistia, perché, deposta nel loro calice a guisa di sacrum fermentum, simboleggiasse l’identità del Sacrificio e del Sacramento che riuniva in una sola Fede le pecore e il pastore. L’ultimo ricordo di questo rito è appunto il frammento eucaristico che anch’oggi si depone nel calice dopo la frazione dell’Ostia.
San Gregorio visse in un periodo storico caratterizzato non solo dal flagello della peste, ma anche dalla guerra e dal terremoto, onde il Pontefice s’offrì al Signore vittima d’espiazione per i peccati del popolo. Egli perciò affidò le sorti d’Italia ai disegni della Provvidenza e, nella preghiera eucaristica, poco prima della consacrazione dei divini Misteri, là dove la Liturgia romana era solita di enunciare “le intenzioni particolari giusta le quali veniva offerto il Sacrificio”, aggiunse il voto supremo del suo cuore di pastore: « diesque nostros in tua pace disponas», parole che il Canon Missæ conserva quale preziosa eredità di san Gregorio Magno.
Dopo di lui c’è poco da raccontare sulla natura dei cambiamenti dell’ordinario della Messa, divenuto un’eredità sacra ed inviolabile dalle origini immemorabili. Era popolare l’opinione secondo la quale l’ordinario era rimasto immodificato fin dal tempo degli Apostoli, se non addirittura dallo stesso Pietro.
Adrien Fortescue ritiene che il regno di san Gregorio Magno segni un’epoca nella storia della Messa, avendo lasciato la Liturgia, nei suoi elementi essenziali, del tutto simile a quella praticata oggi. Scrive: «C’è, inoltre, una tradizione costante secondo la quale san Gregorio fu l’ultimo a intervenire sulle parti essenziali della Messa, cioè sul Canone. Benedetto XIV (1740-1758) dice: “Nessun papa ha aggiunto o cambiato qualcosa nel Canone da san Gregorio in poi”».
Se ciò sia del tutto vero non è di grande rilievo; il dato fondamentale è che nella Chiesa Romana certamente è esistita una tradizione ultramillenaria secondo cui il Canone non si sarebbe mai dovuto cambiare. Secondo il cardinal Gasquet «il fatto che sia rimasto inalterato per tredici secoli è la testimonianza più clamorosa della venerazione con la quale è sempre stato guardato e dello scrupolo che è sempre stato avvertito nel toccare un’eredità tanto sacra, giunta a noi da tempi immemorabili».
Anche se il rito della Messa continuò a svilupparsi – nelle parti non essenziali – dopo l’epoca di san Gregorio, il Fortescue spiega che «tutte le successive modifiche furono adattate entro l’antica struttura e le parti più importanti non furono toccate. All’incirca dal tempo di san Gregorio conosciamo il testo della Messa, l’ordinario e l’allestimento, come tradizione sacra che nessuno ha osato alterare eccetto che per alcuni dettagli ininfluenti». Tra le aggiunte più recenti «le preghiere ai piedi dell’altare sono, nella loro attuale forma, l’ultima parte di tutta la Messa. Si svilupparono da preparazioni private medievali e non erano state formalmente stabilite, nella loro forma attuale, prima del Messale di Pio V (1570)». Furono comunque largamente usate ben prima della Riforma e si rinvengono nella prima edizione stampata del Messale Romano (1474).
Il Gloria fu introdotto gradualmente, prima soltanto in forma cantata nelle Messe festive dei vescovi. È probabilmente di origine gallicana. Il Credo giunse a Roma nel secolo XI. Le preghiere dell’Offertorio e il Lavabo furono introdotti d’oltralpe difficilmente prima del XIV secolo. Placeat, Benedizione e Ultimo Vangelo furono introdotti gradualmente in epoca medievale».
Va comunque notato che queste preghiere, pressoché invariabili, prima della loro incorporazione ufficiale nel rito romano, avevano acquistato un uso liturgico secolare.
Il Rito Romano si andò poi rapidamente diffondendo, e nell’XI e XII secolo in Occidente praticamente soppiantò tutti gli altri riti, salvo quello di Milano e di Toledo. Ciò del resto non deve sorprendere: se la Chiesa di Roma era universalmente considerata la guida nella Fede e nella Morale, questo ruolo primaziale rivestiva anche in materia liturgica. La Messa, nell’Alto Medioevo, era già considerata un’eredità inviolabile, le cui origini si perdevano nella notte dei tempi. Meglio, era comunemente ritenuto che essa risalisse agli Apostoli o – come già affermato – che fosse stata redatta dallo stesso san Pietro.
Ne segue che l’Ordo Missæ riportato nel Messale di san Pio V (1570), a parte alcune aggiunte e allargamenti minimi, corrisponde molto da vicino all’Ordo stabilito da san Gregorio Magno.
Il Concilio di Trento
Nei secoli intercorsi dalla riforma di san Gregorio Magno fino al Concilio di Trento, il Rito Romano si diffuse in tutto l’orbe cattolico senza che ciò ostacolasse il fiorire di usi locali, i quali si svilupparono in modo graduale e naturale nel corso di molti secoli. Con il passare del tempo preghiere e cerimonie si moltiplicarono quasi impercettibilmente e, in ogni caso, al loro sviluppo seguiva la selezione e l’eventuale codificazione, cioè l’incorporazione di queste preghiere e cerimonie nei libri liturgici. Uno dei più grandi storici della Britannia, Owen Chadwick, osservò che: «Le Liturgie non sono fatte, esse crescono nella devozione dei secoli».
Mille anni circa dopo la riforma di san Gregorio Magno, togliendo le aggiunte marginali avvenute nel corso dei secoli, san Pio V, in seguito alla Riforma protestante e al Concilio di Trento, diede alla stessa Messa di san Gregorio Magno una forma definitiva da valere per sempre e dovunque.
La pratica di riferirsi alla Messa tradizionale del Rito Romano come Messa Tridentina è poco felice poiché ha portato alla diffusa ed erronea impressione che questa Messa sia stata composta in seguito al Concilio di Trento. La parola “Tridentina”, in realtà, significa “riguardante” questo Concilio – Concilium Tridentinum – che ebbe luogo in diversi periodi tra gli anni 1545 e 1563. II Concilio di Trento, in realtà, stabilì una commissione per esaminare il Messale Romano, rivederlo e ripristinarlo «secondo l’usanza e il rito dei Santi Padri». Il nuovo Messale fu, infine, promulgato da papa san Pio V nel 1570 con la bolla Quo Primum. Il lavoro preparatorio della Commissione fu caratterizzato dal rispetto per la Tradizione. In nessun caso ci fu la minima proposta di comporre un Novus Ordo Missæ. La sola idea era ritenuta inconcepibile all’autentico sentire cattolico. La Commissione codificò il Messale esistente, eliminando alcuni punti che considerava superflui o non necessari e conservando i riti esistenti da almeno duecento anni. Tuttavia, per quanto riguardava l’Ordinario, il Canone, il Proprio del Tempo, e molto più, era una replica del Messale Romano del 1474, che, in tutte le cose essenziali, risaliva all’epoca di san Gregorio Magno.
Il Fortescue fa particolare menzione della continuità liturgica che caratterizzò il novello Messale, il quale, promulgato da san Pio V, non è semplicemente un decreto personale del Sovrano Pontefice ma un atto del Concilio di Trento, sebbene chiuso il 4 dicembre 1563, prima che la Commissione avesse terminato il suo compito. La questione fu rimessa a papa Pio IV, che morì prima di concludere il lavoro; così fu il successore, san Pio V, a promulgare il Messale risultante dal Concilio, con la sopra menzionata Bolla.
Poiché il Messale è un atto del Concilio di Trento, il suo titolo ufficiale è Missale Romanum ex decreto sacrosancti Concilii Tridentini restitutum (Messale Romano restaurato secondo i decreti del Sacrosanto Concilio Tridentino). Per la prima volta in millecinquecento anni di storia della Chiesa un concilio e/o un papa specificarono ed imposero un rito completo della Messa attraverso lo strumento legislativo.
Il Fortescue, studiando accuratamente la riforma di san Pio V, giunse alla seguente conclusione: «Possiamo essere veramente grati alla commissione che fu così scrupolosa nel mantenere o restaurare l’antica tradizione Romana». Aggiunse poi che «fin dal Concilio di Trento la storia della Messa è, in sostanza, nient’altro che la composizione e l’approvazione di nuove Messe (proprie, ndr). Lo schema e tutte le parti fondamentali rimangono le stesse. Nessuno ha pensato di toccare la venerabile Liturgia della Messa Romana eccetto che nell’aggiungere ad essa nuovi Propri». «Non c’è nella cristianità un altro rito sì venerabile come il nostro», asserisce il Fortescue. È quindi la Messa Tridentina, il rito più venerabile nella Cristianità, « la cosa più bella da questa parte del cielo», come si espresse padre Faber. Scrivendo di questa Messa, John Henry Newman osservò: «Niente è così consolante, così commovente, così toccante, così esaltante, quanto la Messa, così com’è celebrata tra noi […]. Non si tratta di una formula verbale, è una grande “azione”, la più grande che possa esserci sulla terra. È […] l’evocazione dell’Eterno. Diventa presente sull’altare in carne e sangue Colui davanti al quale si prostrano gli angeli e tremano i demoni».
Un nuovo Messale?
Il primo scopo del Concilio di Trento – come s’è detto – fu quello di codificare l’insegnamento eucaristico cattolico; cosa che fece in modo eccellente ed in termini chiari ed ispirati, pronunciando l’anatema per chiunque avesse rifiutato quell’insegnamento. «Così il Concilio insegna la vera e genuina dottrina sul venerabile e divino sacramento dell’Eucaristia, quella dottrina che la Chiesa Cattolica ha sempre fermamente amato e che amerà fermamente fino alla fine del mondo, come è stata insegnata da Cristo Nostro Signore stesso, dai suoi Apostoli e dallo Spirito Santo, che continuamente porta alla sua mente [della Chiesa, ndt] tutta la verità. Il Concilio vieta a tutti i fedeli a Cristo, d’ora in poi, di credere, insegnare o predicare sulla Santissima Eucaristia qualunque cosa diversa da quanto spiegato e definito nel presente decreto».
Nella XVIII sessione, il Concilio incaricò una commissione di esaminare il Messale, rivederlo e restaurarlo «secondo l’usanza ed il rito dei Santi Padri». Il Fortescue ritiene che i membri della commissione incaricata della revisione del Messale «portarono a termine il loro compito molto bene»: «Non fu la creazione di un nuovo Messale ma la restaurazione dell’esistente “secondo l’usanza ed il rito dei Santi Padri”, con l’uso, a tale scopo, dei migliori manoscritti e di altri documenti».
Non si trattò dunque di un nuovo Messale. La sola idea di comporne uno ex novo era ed è totalmente aliena a tutto il sentire cattolico. Il cardinal Gasquet osservò che: «Ogni cattolico deve sentire un amore personale per i sacri riti che arrivano a lui con tutta l’autorità dei secoli. Ogni manipolazione grossolana di tali forme causa un dolore profondo in chi le conosce e le usa, perché esse giungono da Dio attraverso Cristo ed attraverso la Chiesa. Ma non eserciterebbero tanta attrazione se non fossero santificate dalla devozione di tante generazioni che hanno pregato con le stesse parole ed hanno trovato in esse fermezza nella gioia e consolazione nel dolore».
L’essenza della riforma di san Pio V fu, come quella di san Gregorio Magno, il rispetto della tradizione. Nel 1912 padre Fortescue poteva commentare con soddisfazione: « …la restaurazione di san Pio V fu una delle più eminentemente soddisfacenti. Lo standard della commissione fu l’antichità. Furono abolite le forme elaborate più recenti e fu scelta la semplicità, pur senza distruggere tutti quegli elementi pittoreschi che aggiungono bellezza poetica alla severa Messa Romana. Furono eliminate le numerose lunghe sequenze che si accalcavano continuamente nella Messa, ma furono mantenute le cinque sicuramente migliori. Furono ridotte le processioni con i cerimoniali elaborati, pur salvando le cerimonie veramente significative: la Candelora, le Ceneri, le Palme ed i bellissimi riti della Settimana Santa. Sicuramente, in Occidente, possiamo essere molto contenti di avere il Rito Romano nella forma del Messale di san Pio V».
Dal tempo della riforma di san Pio V ci sono state revisioni, mai però sostanziali. Talvolta quelle che oggi sono citate come “riforme” non furono altro che restaurazioni del Messale nella forma codificata da san Pio V. Ciò è vero in particolare per le “riforme” di Clemente VIII, stabilite nell’istruzione Cum sanctissimum del 7 luglio 1604, e di Urbano VIII nell’istruzione Si quid est, del 2 settembre 1634. San Pio X operò una revisione non del testo, bensì della musica.
Tra il 1951 e il 1955 Pio XII riformò le cerimonie della Settimana Santa (con il decreto Maxima redemptionis) e autorizzò una revisione delle rubriche orientata principalmente al calendario. Anche papa Giovanni XXIII operò un’estesa riforma delle rubriche che fu promulgata il 25 luglio 1960 ed ebbero effetto dal 1° gennaio 1961, ancora una volta incentrata soprattutto sul calendario. Nessuna di tali riforme comportò qualche significativo cambiamento nell’Ordinario della Messa.
Nel 1929, infatti, il cardinal Schuster aveva potuto scrivere: «Paragonando l’attuale messale nostro dopo la riforma tridentina con il messale medioevale e col Sacramentarlo Gregoriano, la differenza non appare punto sostanziale. Il nostro è più ricco e vario per ciò che riguarda il ciclo agiografico; ma le Messe stazionali delle domeniche, dell’Avvento, della Quaresima, delle feste dei Santi comprese nel Sacramentario di san Gregorio, salvo poche differenze, sono quasi le stesse. Si può dire insomma che il nostro codice eucaristico, pur tenuto conto dello sviluppo raggiunto con il decorrer dei secoli, è sostanzialmente il medesimo che usavano i grandi Dottori della Chiesa nel Medio Evo, e che recava in fronte il nome di Gregorio Magno».
Conclusione
La Messa cosiddetta “tridentina” ha un nucleo centrale immutabile, stabilito da Cristo stesso, continuato e perfezionato dagli Apostoli e conservato intatto attraverso due millenni di storia. La trama di riti e di cerimonie che la caratterizza s’è andata evolvendo poco a poco fino a raggiungere una forma quasi definitiva alla fine del III secolo, poi resa in qualche modo definitiva da san Gregorio Magno. Non sono mancati elementi secondari: la sollecitudine materna della Chiesa non ha cessato di restaurare ed abbellire il rito, rimuovendo di tanto in tanto quelle scorie che minacciavano offuscarne il primitivo splendore.
Questa la storia della Messa fino alla promulgazione del Nuovo Messale nel 1969. Gli eminentissimi cardinali Bacci e Ottaviani nel Breve esame critico del Novus Odo Missæ presentato al pontefice Paolo VI, prima della definitiva promulgazione, non esitarono ad affermare che il NOM (Novus Ordo Missæ) «considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i canoni del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero».
In una nota del “breve esame” in questione viene riportata una citazione di padre Louis Bouyer secondo cui «il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a san Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la vera Chiesa Cattolica» (nota 1).
Romano Amerio, nel suo insuperato Iota Unum, scrive che «leggendo le antiche liturgie, come il Sacramentario di Biasca, che è del secolo IX, e ritrovandovi le formule con cui la Chiesa Romana orò per oltre un millennio, si sente vivamente la iattura subita dalla Chiesa spogliatasi del senso dell’antiquitas che, persino secondo i Gentili, proxime accedit ad deos, nonché del senso dell’immobilità del divino nel moto del tempo».
Il cardinal Ratzinger già anni fa denunciava che – con la riforma Liturgica post-conciliare – si era sostituita «una Liturgia sviluppatasi nel tempo con una Liturgia costruita a tavolino». «La promulgazione del divieto del messale – affermava ancora il Porporato – che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della Liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. […] si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro […]; il fatto che esso sia stato presentato come edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la Liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo, modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la Liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un’autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna “comunità” voglia darsi una propria Liturgia. Ma quando la Liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l’incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita».
Bernardo di Chartres diceva che «noi siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere più lontano di loro non a causa della nostra statura o dell’acutezza della nostra vista, ma perché, stando sulle loro spalle, stiamo più in alto di loro». Dio ci doni l’umiltà di riconoscerci nani, e l’intelligenza se vogliamo veder lontano – di rimanere sulle spalle di quei giganti che sono i nostri Padri nella Fede. Senza questo atteggiamento della mente e del cuore ci condanniamo da soli ad una certa e forse irreversibile cecità.
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[Fonte: Il Settimanale di Padre Pio, 2011/nn. 22 (p.13-14); 23 (p. 12-13); 24 (p. 12-13); 25 (p.22-23); 26 (p.15-17); 27 (p. F3-14); 28 (p. 18-19); 29 (p.16-19)].
dal sito chiesaepostconcilio.blogspot.it

L’attualità immortale del latino

di Ilaria Pisa

latino

Abbiamo avuto il privilegio di intervistare don Roberto Spataro sdb, sacerdote e docente presso la Università Pontificia Salesiana, esperto di Patristica, di didattica delle lingue classiche e di Teologia dogmatica e Segretario del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis.

A novembre 2012, don Spataro è stato nominato primo Segretario della Pontificia Academia Latinitatis, in accordo con Latina Lingua, la Lettera Apostolica emanata da Benedetto XVI in forma di Motu Proprio a tutela della dignità, dell’impiego e dello studio del Latino, in particolare all’interno delle istituzioni formative cattoliche.

Oggi si usa qualificare il Latino come “lingua morta”. Sappiamo che Lei non concorda affatto con tale definizione. Perché?

Io preferisco affermare che il latino è una lingua immortale. Mi permetta di citare, a tal proposito, le parole del professor Luigi Miraglia, uno dei migliori latinisti contemporanei: “Il latino, morendo, è diventato immortale. Esso, non soggetto più alla trasformazione delle lingue vive, ma fisso nelle sue forme e incrementato quasi solo nel lessico, ha vinto la maledizione di Babele non con un miracolo pentecostale, ma creando per il mondo occidentale un mezzo di comunicazione che superasse insieme le barriere dello spazio e quelle del tempo”. Con la conoscenza del latino, possiamo entrare in dialogo, per fare solo alcuni nomi, con Cicerone, Seneca, Agostino, Tommaso d’Aquino, Erasmo da Rotterdam, Spinoza, e riflettere sui pensieri nobili ed alti che essi alimentano.

Tra la Chiesa cattolica e la lingua latina sembra esserci “da sempre” un rapporto privilegiato. È vero? Per quali motivi?

I Sommi Pontefici, da sempre grandi promotori dell’uso vivo della lingua latina, hanno indicato sostanzialmente tre motivi. Primo: la Chiesa Cattolica, in quanto istituzione universale, non può usare un idioma appartenente ad un bacino linguistico-culturale specifico, ma ha bisogno di una lingua sovranazionale. Ed il latino ha svolto sempre ed ottimamente questa funzione. In secondo luogo, certe caratteristiche della lingua latina, come la sua sobrietà e la sua chiarezza logica, la rendono particolarmente appropriata per esprimere l’insegnamento ufficiale della Chiesa in materia dogmatica, liturgica e giuridica. Infine, la Chiesa vive di Tradizione, raccoglie un patrimonio di fede e lo riconsegna di generazione in generazione: una parte cospicua di questo patrimonio è stato espresso in lingua latina.

I grandi maestri della teologia cattolica hanno composto in Latino le loro opere. Ma per un teologo nostro contemporaneo, sapere il Latino è davvero necessario?

La teologia elabora razionalmente i dati di fede che vengono dalle fonti. Gran parte di queste fonti sono in lingua latina, per esempio le opere dei grandi dottori del Medioevo, i pronunciamenti del Magistero. le editiones typicae dei libri liturgici, e in lingua greca, come le opere dei Padri greci. Un professionista della teologia non può perciò affidarsi a quelle “mediazioni culturali” che sono le traduzioni. Insomma, per un teologo latino e greco sono “ferri del mestiere”. Inoltre, la conoscenza e l’uso della lingua latina abilitano ad un rigore concettuale e ad una sobrietà lessicale di cui – a mio avviso – molta produzione teologica contemporanea difetta.

L’impiego del Latino liturgico viene sovente criticato in quanto “allontanerebbe” il fedele dal Mistero, menomandone la comprensione. Come confutare questa e simili critiche?

Penso che sia proprio il contrario: una lingua “sacra”, diversa da quella profana e quotidiana, aiuta a percepire il senso del Mistero di Dio in modo più adeguato. Inoltre, credo che ci sia un equivoco: il Mistero di Dio rimane sempre oltre la capacità di una completa comprensione razionale e, dunque, di essere comunicato in modo del tutto intellegibile, anche se si usa una lingua vernacolare. La comprensione delle “cose di Dio” è affidata non solo alla ragione ma anche al “cuore” che si nutre di simboli. Ed una lingua “sacra” appartiene al linguaggio simbolico, quello più appropriato alla liturgia. Del resto, fino alla Riforma liturgica postconciliare, generazioni e generazioni di santi hanno partecipato fruttuosamente alla liturgia anche se non “capivano” tutto quello che si diceva. In realtà, capivano molto bene che nella Liturgia avviene qualcosa di bello e grande: la presenza e l’azione di Dio.

tratto da: Radici Cristiane, n. 83 – aprile 2013

Come si è salvata la Messa tridentina in Inghilterra

di mons. Luigi Negri

Prefazione dell’Arcivescovo di Ferrara-Comacchio al libro di Gianfranco Amato ”L’indulto di Agatha Christi”

In questo suo ultimo lavoro l’amico Gianfranco Amato mette in luce un episodio poco noto nel mondo cattolico italiano e legato alla tradizione liturgica della Chiesa. Si tratta dell’appello rivolto a Paolo VI per salvare la Messa Tridentina sottoscritto il 6 luglio 1971 da cinquantasette esponenti del mondo culturale inglese, tra i quali la nota scrittrice Agatha Christie, il cui nome è stato successivamente associato all’indulto concesso dallo stesso Pontefice. Interessanti appaiono le motivazioni per cui personaggi distanti dalla Chiesa Cattolica decisero di intercedere per la sopravvivenza della Messa secondo l’usus antiquor, ma ancora più interessanti sono le considerazioni che Amato trae utilizzando come spunto la vicenda del cosiddetto Indulto di Agatha Christie, e che possono essere articolate su tre piani.
Il primo riguarda l’analisi storica della profonda avversione ideologica dei Riformatori protestanti, ed in particolare di quelli anglicani, nei confronti della celebrazione liturgica della Messa cattolica, in quanto espressione suprema del dogma della transustanziazione. Quella celebrazione, così come gli atti devozionali tipicamente cattolici, quali ad esempio l’adorazione eucaristica, rappresentano uno dei punti di massima inconciliabilità tra le due confessioni cristiane. Ed è un punto di fondamentale importanza giacché attiene alla presenza reale e concreta di Cristo nella celebrazione eucaristica. Questo aspetto di particolare importanza ci ricorda, peraltro, come il doveroso dialogo ecumenico con i fratelli separati non possa passare attraverso una dimensione affettiva e sentimentale, ma debba sempre tenere presente l’imprescindibile imperativo missionario della Chiesa Cattolica. Non si può, infatti, cedere all’aut-aut di alcuni irenici ecumenisti: o missione o dialogo. La missione per la Chiesa Cattolica non è un’iniziativa tra le tante, ma rappresenta, secondo l’insegnamento di Giovanni Paolo II, il dinamismo della sua «autorealizzazione»: la Chiesa diventa sempre più sé stessa, quanto più vive la sua missione, cioè il suo impegno a plocamarsi quale unico luogo di salvezza.
Pensare che l’annuncio della fede cattolica come il solo possibile instrumentum salutis riduca la libertà dei nostri interlocutori significa cedere totalmente alla mentalità laicista che domina il mondo di oggi, e che ritiene la verità oppressiva della libertà. Non può esistere, in realtà, una via alla salvezza che possa prescindere dall’avvenimento di Cristo, dall’incontro con Lui, dalla sequela di Lui e dalla conversione a Lui, così come è presente misteriosamente, fino alla fine dei tempi, nella Sua Chiesa che è il Suo Corpo e il Suo Sacramento.
Il secondo piano in cui si inseriscono le considerazioni contenute in questo interessante saggio di Amato riguarda alcuni abusi liturgici che hanno purtroppo caratterizzato il periodo postconciliare. In effetti la riforma liturgica introdotta dopo il Concilio Vaticano II si è sostanziata, il più delle volte, di pseudo-interpretazioni, o ha fatto valere casi eccezionali come norma: basti per tutti il problema della lingua, o quello della distribuzione della comunione sulla mano. Ci sono stati veri e propri colpi di mano delle Conferenze episcopali nei confronti di Roma, così come c’è stata certamente una debolezza della reazione vaticana, dovuta probabilmente a tensioni e contro-tensioni anche all’interno delle strutture che dovevano regolare l’interpretazione esatta e la corretta attuazione del Concilio.
Il terzo ambito in cui si possono suddividere le argomentazioni di Amato riguarda la natura propria della liturgia cattolica, la quale non si può declassare ad un semplice atto di culto elevato dall’uomo a Dio, come accade nella stragrande maggioranza delle formulazioni religiose naturali. La liturgia cattolica è piena attuazione dell’avvenimento della vita, passione, morte e resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, che prende forma nell’organismo sacramentale e coinvolge i fedeli in senso sostanziale e fondamentale, facendoli appartenere a Cristo e alla Sua Chiesa attraverso i sacramenti dell’iniziazione cristiana, e poi li accompagna nelle grandi scelte e nelle grandi stagioni della loro vita. La liturgia difende la fattualità di Cristo e della Chiesa. Per questo ho molta gratitudine verso il professor Roberto De Mattei per il suo straordinario volume sulla storia del Vaticano II, ed in particolare per le pagine dedicate a quel lento e inesorabile processo di “socializzazione” della liturgia, già prima del Concilio: come se il valore della liturgia fosse nella possibilità che il cosiddetto popolo cristiano partecipasse attivamente a un evento che era poi svuotato di fatto della sua sacramentalità e finiva per essere un’iniziativa di socialità cattolica. E’ proprio sulla liturgia, infatti, che si gioca la verità della fede perché in quel particolare ambito si evidenzia la grande alternativa che Benedetto XVI ha posto all’inizio della sua enciclica Deus caritas est: il cristianesimo non è un’ideologia di carattere religioso, non è un progetto di carattere moralistico, ma è l’incontro reale e concreto con Cristo che permane e si svolge nella vita della Chiesa e nella vita di ogni cristiano.
La grandezza della liturgia cattolica è dara dal fatto di rendere Cristo presente nel flusso e nel riflusso delle generazioni: «Hoc facite in meam commemorationem». Per questo la difesa di una coscienza esatta del dogma dipende dalla verità con cui viene vissuta la liturgia. In questo senso da sempre la Chiesa ha affermato che «lex orandi, lex credendi»: è la legge del pregare che fa nascere la legge del credere, ma soprattutto che la vigila in maniera adeguata e positiva. Ecco perché ogni tentativo di estenuare o ridurre la coscienza della presenza di Cristo a tutto vantaggio della modalità con cui la comunità è presente, equivale ad una perdita del valore ultimo della liturgia, del valore ontologico, direbbe il mio maestro don Giussani, e quindi metodologico ed educativo.
Per questo, come ho avuto modo di ribadire nel telegramma inviato, a nome della Diocesi di San Marino-Montefeltro, il 22 dicembre 2007 al Santo Padre Benedetto XVI, le direttive impartite dallo stesso Pontefice nel Motu Proprio «Summorum Pontificum» rappresentano una più ampia possibilità di educazione del popolo cristiano ad una fede che divenga realmente forma della persona e presenza viva nell’intera società.

Fonte: L’indulto di Agatha Christi

La morte delle cattedrali

di Marcel Proust*

* Questo studio di Marcel Proust apparve nel «Figaro» del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, l’inventario di tutti i beni della Chiesa di Francia, l’istituzione delle cultuali pena la confisca di quegli stessi beni da parte dello Stato, la «polizia dei culti», ecc. Legge che, come è noto, fu occasione di vittoria spirituale da parte dell’episcopato francese, obbediente all’ordine di San Pio X: lasciarsi spogliare serbando, in povertà assoluta, il mandato pastorale. Oggi che senza alcuna pressione da parte di governi laici si ode parlare negli stessi ambienti ecclesiastici di «sacrificio necessario» delle cattedrali e del canto gregoriano sembra opportuno rileggere la sottile, sferzante, appassionata perorazione di Proust in difesa dell’immenso tesoro di cui s’è nutrita per secoli – con la fede cristiana – tutta la grande arte di Occidente, e che non è facile comprendere a chi o a che cosa voglia oggi essere immolato [N.d.T.]

Supponiamo per un istante che la religione cattolica sia spenta da secoli, che le tradizioni del suo culto siano perdute. Sole, monumenti fatti inintelligibili ma rimasti mirabili, di una fede obliata, sopravvivono le cattedrali, mute e dissacrate. Supponiamo quindi che un giorno alcuni eruditi suffragati da documenti arrivino a ricostruire le cerimonie che vi si celebravano un tempo, per le quali erano state costruite, che erano precisamente il loro significato e la loro vita, senza le quali esse non erano ormai più che lettera morta; e supponiamo allora che alcuni artisti, sedotti dal sogno di restituire momentaneamente la vita a quei grandi vascelli divenuti silenziosi, vogliano rifarne per un’ora il teatro del dramma misterioso che vi si svolgeva, al centro di canti e profumi: in una parola, intraprendano, per la Messa e le cattedrali, ciò che i felibri hanno realizzato per il teatro di Orange e le antiche tragedie. Esiste un governo appena sollecito del passato artistico della Francia che non sarebbe pronto a sovvenzionare largamente un cosi magnifico tentativo? Si può forse pensare che ciò che esso fa per delle rovine romane, non lo farebbe per dei monumenti francesi, per quelle cattedrali che sono probabilmente la più alta ma indiscutibilmente la più originale espressione del genio di Francia? Poiché alla nostra letteratura si può preferire la letteratura d’altri popoli, alla nostra musica la loro musica, alla nostra pittura, alla nostra scultura, le loro; ma è in Francia che l’architettura gotica ha creato i suoi primi e più perfetti capolavori. Altri paesi non fecero che imitare la nostra architettura religiosa, e senza uguagliarla. Cosi dunque (riprendo la mia ipotesi), ecco degli eruditi che hanno saputo ritrovare il significato perduto delle cattedrali: le sculture, le vetrate riprendono il loro senso, un profumo misterioso aleggia di nuovo nel tempio, un dramma sacro vi ha luogo, la cattedrale si rimette a cantare. Il governo sovvenziona con ragione, con maggior ragione che le rappresentazioni del teatro d’Orange, dell’Opéra Comique e dell’Opéra, questa resurrezione delle cerimonie cattoliche, di un interesse storico, sociale, plastico, musicale di cui la sola bellezza è al di sopra di tutto ciò che un artista poté mai sognare, e alla quale forse soltanto Wagner sembrò accostarsi, imitandola, nel Parsifal. Carovane di snob vanno alla città santa (sia Amiens, Chartres, Bourges, Laon, Reims, Rouen, Parigi, la città che volete, tante sublimi cattedrali abbiamo!), e una volta l’anno riprovano l’emozione che un tempo andavano a cercare a Bayreuth e ad Orange: gustare l’opera d’arte nella cornice stessa che per essa fu costruita. Disgraziatamente, qui come a Orange, essi rimangono dei curiosi, dei dilettanti; qualsiasi cosa facciano, non abita più in loro l’anima di un tempo. Gli artisti che son venuti ad eseguire i canti, quelli che incarnano i sacerdoti, possono essere colti, penetrati dello spirito dei testi; il ministro della pubblica istruzione non sarà avaro, con loro, di decorazioni né di complimenti. Eppure, non ci si può impedire di esclamare: «Ahimè, quanto più belle dovevano essere queste feste, al tempo in cui erano dei sacerdoti a celebrare l’uffizio e non per dare a dei letterati un’idea di quelle cerimonie, ma perché avevano nella loro virtù la stessa fede degli artisti che scolpirono il giudizio universale nel timpano del portico o dipinsero le vite dei santi sulle vetrate dell’abside. Come l’opera tutta intera doveva parlar più alto, più giusto, quando tutto un popolo rispondeva alla voce del sacerdote, piegava i ginocchi al campanello dell’elevazione, non, come in queste rappresentazioni retrospettive, al modo di freddi figuranti stilizzati ma perché anche loro, come il sacerdote, come lo scultore, credevano. Ma ahimè, tali cose sono altrettanto lontane da noi quanto il pio entusiasmo del popolo greco alle rappresentazioni del suo teatro, e le nostre “ricostruzioni” non potranno mai darne un’idea». Ecco che cosa si direbbe se la religione cattolica non esistesse più, se degli eruditi fossero giunti a riscoprirne i riti, se degli artisti avessero provato a resuscitarli per noi. Ma per l’appunto quella religione esiste ancora e non ha per così dire mai mutato dal gran secolo in cui le cattedrali furono edificate. Non abbiamo bisogno, per immaginare ciò che fosse, vivente e nel pieno esercizio delle sue funzioni sublimi, una cattedrale del tredicesimo secolo, di farne, come del teatro di Orange, la cornice di una ricostruzione, di retrospettive esatte forse ma gelide. Basta entrarvi a una qualunque ora del giorno in cui si celebri un uffizio. La mimica, la salmodia, il canto non sono affidati qui ad artisti senza persuasione. I ministri stessi del culto ufficiano qui, non secondo un pensiero estetico ma per fede, e per ciò tanto più esteticamente. Le comparse non si potrebbe desiderarle più vive e più sincere, se il popolo stesso si degna di comparire per noi senza saperlo. Si può dire che, grazie alla persistenza nella Chiesa cattolica degli identici riti e, d’altro canto, della fiducia cattolica nel cuore dei francesi, le cattedrali non siano soltanto i più begli ornamenti della nostra arte ma i soli che vivano ancora la loro vita integrale, che siano rimasti in rapporto con lo scopo per il quale furono edificati. Ora, la rottura del governo francese con Roma sembra rendere prossima la discussione e probabile l’adozione di un progetto del signor Briand, ai termini del quale, di qui a cinque anni, le chiese potranno essere e saranno spesso dissacrate; non solo il governo non sovverrà più alla celebrazione delle cerimonie rituali nelle chiese, ma potrà trasformarle in tutto ciò che gli piacerà: museo, sala di conferenze, casino da giuoco. O voi, signor André Hallays, che andate ripetendo che la vita si ritira dalle opere d’arte non appena non servano più ai fini che presiedettero alla loro creazione, e che un mobile divenuto ninnolo, un palazzo divenuto museo raggelano, non riescono più a parlare al cuore e finiscono per morire – io spero che cesserete un istante di denunciare i restauri più o meno goffi che minacciano ogni giorno le città di Francia che avete preso a vigilare, e che vi leverete, alzerete la voce a pungolare se occorre il signor Chaumié, a chiamare in causa, al bisogno, il signor de Monzie, a convocare il signor John Labusquière, a riunire la Commissione dei monumenti storici. Il vostro zelo ingegnoso fu spesso efficace, non lascerete morire, adesso, e in un colpo solo, tutte le chiese di Francia.

Non vi è oggi un socialista di buon gusto che non deplori le mutilazioni inflitte dalla Rivoluzione alle nostre cattedrali, tante statue, tante vetrate infrante. Ebbene, meglio devastare una chiesa che dissacrarla. Finché vi si celebra la Messa, per mutilata che sia essa conserva ancora la sua vita. Dal giorno in cui viene dissacrata è morta, e se anche sia protetta come monumento storico di celebrazioni scandalose, non è più che un museo. Si può dire alle chiese ciò che Gesù diceva ai suoi discepoli: «Se non continuerete a mangiare la carne del Figlio dell’Uomo, e a bere il suo sangue, non vi è più vita in voi» (San Giovanni, VI, 55), quelle parole misteriose e così profonde del Salvatore fatte, in questa nuova accezione, assioma d’estetica e di architettura. Quando il sacrificio della carne e del sangue del Cristo, il sacrificio della Messa, non sarà più celebrato nelle chiese, non vi sarà in esse più vita. La liturgia cattolica è una cosa sola con l’architettura e la scultura delle nostre cattedrali, poiché le une e le altre hanno radice in un unico simbolismo. È noto come non vi sia nelle cattedrali scultura, per secondaria che sembri, che non abbia il suo valore simbolico. Se nel portico occidentale della cattedrale di Amiens la statua del Cristo si eleva su uno zoccolo ornato di rose, di gigli e di vite, è perché il Cristo ha detto: «Io sono la rosa di Saron. Io sono il giglio delle valli. Io sono la vite vera» [1].

Se sotto i suoi piedi sono scolpiti l’aspide e il basilisco, il leone e il drago, ciò è dovuto al versetto del salmo XC: Super aspidem et basiliscum ambulabis: et conculcabis leonem et draconem. Alla sua sinistra è rappresentato, in un piccolo bassorilievo, un uomo che lascia cadere la sua spada alla vista di un animale mentre accanto a lui un uccello continua a cantare. Questo perché «il poltrone non ha il coraggio di un tordo», e il bassorilievo ha il compito di simboleggiare, in effetti, la viltà come opposta al coraggio, perché è posta sotto la statua che è sempre (almeno nei primi tempi) alla sinistra della statua del Cristo, la statua di San Pietro, l’apostolo del coraggio. E così delle migliaia di figure che adornano la cattedrale.

Ora, le cerimonie del culto partecipano dello stesso simbolismo. Nel libro mirabile al quale vorrei avere un giorno l’occasione di rendere intero omaggio, L’arte religiosa in Francia nel XIII secolo, Emile Mâle così analizza, secondo il Razionale dei divini uffizi di Guglielmo Durando, la prima parte della festa del Sabato Santo. Fin dal mattino si comincia con lo spegnere nella chiesa tutte le lampade, per designare che l’Antica Legge, che finora illuminava il mondo, è ormai abrogata.

Poi il celebrante benedice il fuoco nuovo, figura della Nuova Legge. Egli lo fa scaturire dalla selce, per ricordare che Gesù Cristo è, come dice San Paolo, la pietra angolare del mondo. Allora il vescovo e il diacono si dirigono verso il coro e si arrestano davanti al cero pasquale. Il cero, ci insegna il Durando, è un triplice simbolo. Spento, simboleggia insieme la colonna oscura che guidava gli ebrei durante il giorno, l’Antica Legge e il corpo di Gesù Cristo. Acceso, significa la colonna di fuoco che Israele vedeva di notte, la Nuova Legge e il corpo glorioso di Gesù Cristo risorto. Il diacono fa allusione a questo triplice simbolismo, intonando, davanti al cero, la formula dellExultetMa egli insiste soprattutto sulla somiglianza del cero e del corpo di Gesù Cristo. Ricorda che la cera immacolata fu prodotta dall’ape, insieme casta e feconda come la Vergine che mise al mondo il Salvatore. Per rendere sensibile agli occhi la similitudine della cera e del corpo divino, egli pianta nel cero cinque grani di incenso che ricordano insieme le cinque piaghe del Cristo e i profumi recati dalle pie donne per imbalsamarlo. Finalmente egli accende il cero col fuoco nuovo e in tutta la chiesa le lampade si riaccendono a mostrare la diffusione della Nuova Legge nel mondo.

Ma questa, si dirà, è una festa eccezionale. Ecco l’interpretazione di una cerimonia quotidiana, la Messa, che, lo vedrete, non è meno significante.

«Il canto grave e triste dell’Introito apre la cerimonia; esso esprime l’aspettazione dei patriarchi e dei profeti. Il coro dei chierici è il coro stesso dei santi dell’Antica Legge che sospirano la venuta del Messia, che non sono destinati a vedere. Il vescovo entra allora, ed appare come la vivente immagine del Salvatore, atteso dalle Nazioni. Nelle grandi festività, si recano innanzi a lui sette ceri, a ricordare che, secondo la parola del profeta, i sette doni dello Spirito Santo riposano sul capo del Figlio di Dio. Egli avanza sotto un baldacchino trionfale di cui i quattro portatori possono compararsi ai quattro Evangelisti. Due accoliti procedono alla sua destra e alla sua sinistra e figurano Mosé ed Elia, che si mostrarono sul Tabor ai lati del Signore. Essi ci insegnano che Gesù aveva in sé l’autorità delle Tavole e quella della Profezia.

«Il vescovo siede sul suo trono e resta silenzioso. Sembra non partecipare in alcun modo alla prima parte della cerimonia. La sua attitudine contiene un insegnamento: egli ci ricorda con il suo silenzio che i primi anni della vita di Gesù Cristo trascorsero nell’oscurità e la meditazione. Il suddiacono, frattanto, s’è diretto al pulpito e, volto verso la destra, legge ad alta voce l’Epistola. Intravediamo qui il primo atto del dramma della Redenzione. Poiché la lettura dell’Epistola figura la predicazione di San Giovanni Battista nel deserto. Egli parla prima che il Salvatore abbia cominciato a far udire la sua voce, ma non parla che agli ebrei. Sicché il suddiacono, immagine del Precursore, si volge verso il nord, che è il lato dell’Antica Legge. Terminata la lettura, egli si inchina dinanzi al vescovo come il Precursore si umiliò dinanzi a Gesù Cristo».

«Il canto del Graduale, che segue la lettura dell’Epistola, si riporta ancora alla missione di San Giovanni Battista e simboleggia le esortazioni alla penitenza che egli dirige agli ebrei alla vigilia dei tempi nuovi».

«A questo punto, il celebrante o il diacono, legge il Vangelo. Momento solenne, poiché qui comincia la vita attiva del Messia; la sua parola si fa udire per la prima volta nel mondo. La lettura del Vangelo è la figura stessa della sua predicazione».

«Il Credo segue al Vangelo come la fede segue all’annuncio della verità. I dodici articoli del Credo si riferiscono alla vocazione dei dodici Apostoli».

«I paramenti stessi che il sacerdote indossa all’altare», aggiunge Mâle, «gli oggetti che servono al rituale sono altrettanti simboli. La pianeta, che s’indossa al di sopra delle altre vesti, è la carità che è superiore a tutti i precetti della legge e che è legge suprema essa stessa. La stola, che il sacerdote si passa al collo, è il giogo leggero del Maestro; e poiché sta scritto che ogni cristiano deve prediligere quel giogo, il prete bacia la stola mettendola e togliendola. La mitra a due punte del vescovo significa la scienza che egli deve avere dell’uno e dell’altro Testamento; due nastri ne pendono a ricordare che la Scrittura ha da essere interpretata secondo la lettera e secondo lo spirito. La campana del Sanctus è la voce dei predicatori. L’impalcatura alla quale è sospesa è figura della croce. La corda, fatta di tre canapi attorti, significa la triplice intelligenza della Scrittura, che deve essere interpretata nel triplice senso storico, allegorico e morale. Quando si prende in mano la corda per scuotere la campana, si esprime simbolicamente la verità fondamentale che la conoscenza delle Scritture deve esprimersi nell’azione».

Così tutto, fino al minimo gesto del sacerdote, fino alla stola che indossa, si accorda a simboleggiarlo, con il sentimento profondo che anima tutta intera la cattedrale e che, come ha ben detto Mâle, è il genio stesso del Medioevo. Mai spettacolo comparabile, specchio altrettanto gigantesco della scienza, dell’anima e della storia, fu offerto agli sguardi e all’intelligenza dell’uomo. L’identico simbolismo abbraccia anche la musica che si fa udire allora nell’immensa nave e di cui i sette toni gregoriani figurano le sette virtù e le sette età del mondo. Si può dire che una rappresentazione di Wagner a Bayreuth è men che nulla accanto alla celebrazione della Messa solenne nella cattedrale di Chartres.

Senza dubbio, solo coloro che hanno studiato l’arte religiosa sono capaci di analizzare compiutamente la bellezza di una tale celebrazione. E basterebbe questo perché lo Stato avesse l’obbligo di vegliare alla sua perpetuazione. Allo stesso modo lo Stato sovvenziona i corsi del Collegio di Francia che non si dirigono se non a un piccolo numero di persone e che, a fianco di questa integrale resurrezione, una Messa solenne in una cattedrale, appaiono fredde dissezioni. E a fianco dell’esecuzione di simili sinfonie, le rappresentazioni dei nostri teatri ugualmente sovvenzionati corrispondono a dei bisogni letterari ben meschini. Ma aggiungeremo subito che coloro che possono leggere a libro aperto nella simbolica del Medioevo non sono i soli per i quali la cattedrale vivente, vale a dire la cattedrale scolpita, dipinta, sonora, sia il più grande degli spettacoli. Allo stesso modo si può gustare la musica senza conoscere l’armonia. So bene che Ruskin, mostrando le ragioni spirituali che presiedono alla disposizione delle cappelle nell’abside delle cattedrali, ha detto: «Mai potrete incantarvi alle forme dell’architettura se non siete in simpatia con i pensieri dai quali uscirono». Non è men vero per questo che tutti noi conosciamo l’avventura dell’ignorante, del semplice sognatore che entra in una cattedrale senza tentare di comprendere, abbandonandosi alle proprie emozioni e provandone un’impressione più confusa senza dubbio, ma altrettanto forte. Come testimonianza letteraria di tale stato d’animo, assai diverso certamente da quello del sapiente che passeggia nella cattedrale come in una «foresta di simboli che l’osservano con sguardi familiari», ma che consente di provare nella cattedrale, all’ora degli uffizi, un’emozione imprecisa ma possente, citerò la bella pagina di Renan intitolata Doppia preghiera: «Uno dei più begli spettacoli religiosi che ancora si possano contemplare ai nostri giorni (e che presto non si potranno più contemplare se la Camera vota il progetto Briand) è quello che presenta, al cader della notte, l’antica cattedrale di Quimper. Quando l’ombra ha riempito le navate laterali del vasto edificio, i fedeli dei due sessi si riuniscono nella navata centrale e cantano in lingua brettone la preghiera della sera su un ritmo semplice e commovente. La cattedrale non è rischiarata che da due o tre lampade. Nella navata, da un lato stanno gli uomini, in piedi; dall’altra le donne, inginocchiate, formano come un mare immobile di cornette bianche. Le due schiere cantano alternatamente e la frase cominciata da uno dei cori è terminata dall’altro. Ciò che cantano è molto bello. Quando lo udii mi parve che con qualche leggera trasformazione lo si potrebbe adattare a tutti gli stati della umanità. Mi fece soprattutto sognare una preghiera che, grazie a certe variazioni, potesse convenire ugualmente agli uomini e alle donne». Tra questa vaga rêverie che non è senza incanto e le gioie più consapevoli del conoscitore d’arte religiosa, vi sono molte gradazioni. Ricordiamo, per memoria, il caso di Gustave Flaubert che studia, ma per interpretarlo in un sentimento moderno, una delle parti più belle della liturgia cattolica: «Il sacerdote bagnò il pollice nell’olio santo e cominciò le unzioni, sugli occhi prima … sulle sue narici ghiotte di brezze tiepide e di sentori amorosi, sulle sue mani che si erano dilettate di contatti soavi … sui suoi piedi infine, così rapidi quando correvano all’assolvimento dei suoi desideri, e che ora non camminerebbero più».

Così, dinanzi a questa realizzazione artistica, la più completa che mai fosse, poiché tutte le arti vi ebbero parte, della più grandiosa visione alla quale si sia mai elevata l’umanità, si possono sognare molte cose, e la dimora è grande abbastanza perché tutti possiamo trovarvi posto. La cattedrale che ospita tanti santi, patriarchi, profeti, apostoli, re, confessori, martiri, ove generazioni intere si affollano fino all’entrata dei portici, spesso supplici, angosciate, elevando l’edificio tremante sotto il cielo come un alto gemito, mentre gli angeli si affacciano sorridenti dall’alto delle gallerie che, nell’incenso rosa e azzurro della sera e l’oro abbagliante del mattino, appaiono veramente come i «balconi del cielo», la cattedrale, nella sua immensità, può dare asilo al letterato come al credente, al sognatore come all’archeologo; quel che importa è ch’essa resti viva, e che dall’oggi al domani la Francia non sia trasformata in un arida riva dove gigantesche conchiglie cesellate apparirebbero in secca, svuotate della vita che le abitò, e che neppure porterebbero più, all’orecchio che vi s’inchini, il vago murmure di un tempo: semplici pezzi da museo, gelidi musei esse stesse. «Non è troppo tardi, scriveva qualche anno fa André Allays, per segnalare un’idea strampalata, nata, pare nel cervello di alcuni abitanti di Vezelay. Costoro vorrebbero che si sconsacrasse la chiesa di Vezelay.

L’anticlericalismo ispira enormi idiozie. Sconsacrare quella basilica significa ritirarne l’anima che le resta. Quando si sarà spenta la piccola lampada che brilla in fondo al coro, Vezelay non sarà più che una curiosità archeologica. Vi si respirerà l’odore sepolcrale dei musei».

Solo continuando a riempire l’ufficio al quale furono prima destinate, le cose, dovessero lentamente morire al loro compito, conservano la loro bellezza e la loro vita. Si crede forse che nei musei di scultura comparata, i calchi dei celebri stalli in legno scolpito della cattedrale di Amiens possano dare un’idea di quei medesimi stalli, nella loro vecchiezza augusta e sempre operante? Mentre al museo un custode ci impedisce di accostarci ai loro calchi, gli stalli inestimabilmente preziosi, così vecchi, così illustri e così belli, continuano a esercitare ad Amiens le loro funzioni modeste di stalli, alle quali adempiono da tanti secoli con piena soddisfazione degli amienesi: come quegli artisti che, pervenuti alla gloria, non per questo abbandonano un piccolo impiego o smettono di dar lezioni. Quelle funzioni consistono, ancora prima che nell’istruire le anime, nel sopportare i corpi, e proprio a questo, rovesciati durante ciascun uffizio e mostrando il rovescio, essi vengono modestamente impiegati. Ben di più, i legni continuamente soffregati di quegli stalli hanno a poco a poco rivestito, o piuttosto lasciato affiorare quella oscura porpora che è come il loro cuore e che a tutto preferirà, fino a non poter più guardare i colori dei quadri che sembrano, dopo quelli, ben rozzi, l’occhio che una volta ne sia stato incantato. È con una sorta di ebbrezza che si gusta allora, nell’ardore sempre più infiammato del legno, ciò che è simile alla linfa, nel tempo, traboccante dall’albero. L’ingenuità dei personaggi qui scolpiti prende dalla materia nella quale vivono qualcosa come di doppiamente naturale. E in tutti quei frutti, quei fiori, quei rami, quelle vegetazioni di Amiens che lo scultore di Amiens scolpì nel legno di Amiens, i diversi strofinamenti hanno lasciato via via apparire quelle mirabili opposizioni di tono in cui la foglia si distacca, d’altro colore che il gambo, facendo pensare a quei nobili accenti che Gallé ha saputo trarre dal cuore armonioso delle querce.

Non soltanto ai canonici che seguono l’uffizio in quegli stalli, i cui braccioli, le misericordie e la ringhiera raccontano l’Antico e il Nuovo Testamento, non soltanto al popolo che riempie l’immensa nave, la cattedrale, se il progetto Briand fosse votato, si troverebbe chiusa, impedita di offrire Messa e orazioni. Dicevamo poco fa che in una cattedrale quasi tutte le immagini sono simboliche. Alcune non lo sono. Sono le immagini dipinte o scolpite di coloro che avendo contribuito con i loro denari alla decorazione della cattedrale, vollero serbarvi per sempre un posto, onde potere, dalla balaustra della nicchia o dallo sguancio della vetrata, seguire silenziosamente gli uffizi e partecipare senza rumore alle preghiere, in saecula saeculorum. Si sa che, avendo i bovi di Laon cristianamente trascinato fino in cima alla collina su cui si eleva la cattedrale i materiali che servivano a costruirla, l’architetto li ricompensò drizzando le loro statue alla base dei campanili, dove potete vederli ancora oggi, nel fragore delle campane e nel ristagno del sole, levare i capi lunati al disopra dell’arca santa e colossale fino all’orizzonte delle pianure di Francia, nella loro «meditazione interiore». Per delle bestie, era tutto quel che si poteva fare: agli uomini si accordava di meglio. Essi entravano in chiesa, vi prendevano il loro posto che serbavano anche dopo la morte e dal quale potevano continuare, come nel tempo della loro vita, a seguire il divino sacrificio, sia che affacciati fuor del sepolcro di marmo volgano leggermente la testa dal lato del Vangelo o dal lato dell’Epistola, in grado di percepire, come a Brou, e sentire attorno ai loro nomi lo stretto e infaticabile allacciarsi dei fiori emblematici e delle iniziali venerate, serbando a volte fin nella tomba, come a Digione, i colori splendenti della vita, sia che in fondo alla vetrata, nei loro manti di porpora o d’oltre mare o d’azzurro che imprigiona il sole infiammandosene, riempiano di colori i suoi raggi trasparenti e bruscamente li sciolgano multicolori, erranti senza meta per la navata che tingono. Nel loro splendore disorientato e pigro, nella loro palpabile irrealtà, essi rimangono i donatori, che, proprio per questo, avevano meritato la concessione di una preghiera perpetua. E tutti vogliono che lo Spirito Santo, nel momento in cui discenderà nella Chiesa, riconosca bene i suoi. Non soltanto la regina e il principe portano le loro insegne, le loro corone o il loro collare del Toson d’Oro. I cambiavalute si sono fatti rappresentare verificando il titolo delle monete, i pellai vendendo le loro pellicce (vedi nel libro di Mâle la riproduzione di queste due vetrate), i beccai abbattendo i bovi, i cavalieri portando il loro blasone, lo scultore scalpellando capitelli.

O voi tutti, dalle vostre vetrate di Chartres, di Tours, di Bourges, di Sens, di Auxerre, di Troyes, di Clermond Ferrand, di Tolosa, bottai, pellai, speziali, pellegrini, bifolchi, armaioli, tessitori, tagliapietre, beccai, panierai, scarpari, cambiamonete, o voi, grande democrazia silenziosa, fedeli ostinati ad ascoltare l’uffizio, non smateriati ma più belli che ai giorni della vostra vita, nella gloria di cielo e di sangue della preziosa vetrata – non udrete più la Messa che vi eravate assicurata dando per l’edificazione della chiesa i vostri più limpidi scudi. I morti non governano più i vivi, secondo la profonda parola. E i vivi, obliosi, cessano di adempiere ai voti dei morti [2].

Ma lasciamo i bottai di rubino, i panierai di rosa e d’argento inscrivere sul fondo della vetrata la «muta protesta» che Jaurès saprebbe renderci con tanta eloquenza e che lo supplichiamo di far giungere alle orecchie dei deputati; e, dimenticando quel popolo innumerevole e silenzioso, avi d’elezione di cui la Camera non si preoccupa minimamente, per concludere, riassumiamo.

In primo luogo: la protezione anche delle più belle opere di architettura e di scultura francesi, che morranno il giorno nel quale non serviranno più al culto delle necessità dalle quali son nate, che è la loro funzione come essi sono i suoi organi, che è la loro spiegazione perché esso è loro anima, impone al governo il dovere di esigere che il culto sia perpetuamente celebrato nelle cattedrali, laddove il progetto Briand l’autorizza a fare delle cattedrali, in capo a qualche anno, i musei o le sale di conferenze (a immaginare il meglio) che gli piacerà, e persino, se il governo non prende questa iniziativa, autorizza il clero, se ne trovasse l’affitto troppo elevato (e poiché non avrà più aiuti, si può dire per forza) a non celebrarvi più uffizi.

In secondo luogo: la conservazione del più grande complesso artistico che si possa concepire, storico e pure vivo, e per la ricostruzione del quale non si indietreggerebbe dinanzi ad alcuna spesa se non esistesse più, vale a dire la Messa nelle cattedrali, impone al Governo il dovere di sovvenzionare la Chiesa cattolica per il mantenimento di un culto che importa ben altrimenti, alla conservazione della più nobile arte francese (per continuare a limitarci a questo punto di vista profano) che non tutti i conservatori, teatri di prosa o di musica, imprese di ricostruzioni di tragedie antiche al teatro di Orange, ecc. ecc., tutte queste associazioni avendo un fine d’arte contestabile, e preservando opere in gran parte trascurabili (che cosa rimane, dinanzi al coro di Beauvais o le statue d iReims, del Jour, dell’Aventurière o del Gendre de M. Poirier?), mentre l’opera che è la cattedrale del Medioevo con le sue mille figure dipinte o scolpite, i suoi canti, i suoi uffizi, è la più nobile di tutte le opere alle quali si sia mai innalzato il genio di Francia.

E non abbiamo parlato in questo articolo se non delle cattedrali, per dare a tali conseguenze del progetto Briand la loro forma più impressionante, la più oltraggiosa per lo spirito del lettore. Ma è noto che la distinzione tra le chiese cattedrali e le altre è del tutto artificiosa, poiché basterebbe, in occasione di una festa, rizzarvi la cattedra di un vescovo perché la chiesa divenisse momentaneamente cattedrale. Ciò che ho detto delle cattedrali si addice a tutte le belle chiese di Francia e si sa che ve ne sono migliaia. Seguendo una strada francese tra i campi di lupinella e i pomari che si allineano d’ambo i lati per lasciarla passare «così bella», quasi a ogni passo scorgerete un campanile che si leva contro l’orizzonte nuvoloso o chiaro, traversando, nei giorni di pioggia luminosa, un arcobaleno che, come una mistica aureola riflessa sul cielo, prossimo all’interno stesso della chiesa semiaperta, vi giustappone i suoi ricchi e precisi colori di vetrata; quasi a ogni passo scorgerete un campanile elevantesi, al disopra delle case volte a terra, come un ideale che si lancia nella voce delle campane alla quale si mischia, se vi avvicinate, il gridio degli uccelli. E bene spesso potrete affermare che la chiesa, al disopra della quale esso si leva così, contiene belli e gravi pensieri scolpiti e dipinti, e altri pensieri che, non chiamati a una vita così precisa, sono rimasti più vaghi, allo stato di belle linee architettoniche, ma altrettanto possenti, se pure più oscuri, e capaci di rapire la nostra immaginazione nello zampillo del loro slancio o di racchiuderla tutta intera nella curva della loro caduta. Là, dalle balaustre incantevoli di un balcone romanico o dalla soglia misteriosa di un portale gotico socchiuso, che fonde all’oscurità illuminata della chiesa il sole dormente all’ombra dei grandi alberi che la circondano, noi dobbiamo continuare a vedere la processione che esce dall’ombra multicolore spiovente dagli alberi di pietra della navata e imbocca nella campagna, di tra le colonne tarchiate, sormontate da capitelli di fiori e di frutti, quei sentieri dei quali si può dire, come il Profeta diceva del Signore: «Tutti i suoi sentieri sono pace».

Infine, non abbiamo invocato sin qui che un interesse artistico. Ciò non vuol significare che il progetto Briand non ne minacci ben altri e che a questi altri noi siamo indifferenti. Ma insomma, è da questo punto di vista che abbiamo voluto porci. Il clero avrebbe torto a respingere l’aiuto degli artisti. Poiché, a vedere quanti deputati, appena finito di votare leggi anticlericali, partono per un giro delle cattedrali d’Inghilterra, di Francia o d’Italia, ne riportano alla loro moglie una vecchia pianeta per farne un mantello o una portiera, elaborano nei loro studi progetti di laicizzazione davanti alla riproduzione fotografica di una «Deposizione dalla Croce», contrattano a un rivendugliolo uno sportello di pala d’altare, vanno a cercare fino in provincia, per la loro anticamera, frammenti di stalli di coro che serviranno da portaombrelli e il venerdì santo, alla «schola cantorum», se non addirittura alla chiesa di San Gervais, ascoltano «religiosamente», come si dice, la Messa di Papa Marcello, è pensabile che il giorno nel quale avremo persuaso tutte le persone di gusto dell’obbligo che incombe al governo di sovvenzionare le cerimonie del culto, avremo trovato come alleati e sollevato contro il progetto Briand buon numero di deputati, anche anticlericali.

Note al testo

[1] In realtà le prime due frasi non furono pronunziate dal Cristo. La liturgia le applica di preferenza alla Vergine Maria [N.d.T.].

[2] Proust si riferisce all’usurpazione dei legati di Messe da parte del governo francese [N.d.T.].

Note sopra la Liturgia

di Cristina Campo

1

Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un’altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l’abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. “Beato” dice san Francesco “quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose”.  È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l’orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi, compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, “come se i fratelli assenti fossero presenti”. E che un’educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.

In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta “nell’ora dolcissima di Compieta”, mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il “delicato giovinetto”, “tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo”. Con l’ultimo inchino sparirà forse da questa terra l’ultima vicenda degna di venerazione.

La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione yoga, per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto contemplazione. Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone.

2

Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) – l’ “immensa e delicata” liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all’occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all’immobile Sole – Cristo, Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l’anno come il giorno, l’uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam. In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

3

Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano. La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: “Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me” – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.”E l’odore si sparse per l’intera dimora”. Il nardo di Maria Maddalena profuma l’intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giustamente comparato l’incenso, che ha il potere di disperdere l’angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. “Ella mi prepara per la mia sepoltura” disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch’ella così preparava era già l’ “ostia pura, ostia santa, ostia immacolata” pronta all’offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d’incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: “Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?”.

La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un’operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravità che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.

da: [Bernardo Trevisano] “Cappella Sistina”, luglio-settembre 1966, pp. 99-102. Ripubblicato in Cristina Campo, Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, pp. 129-135

Il Santo Sacrificio della Messa

Birnau 3

I. Nozioni preliminari

Alcune nozioni dogmatiche:
La Messa è sostanzialmente lo stesso sacrificio della croce. E’ diverso solo il modo dell’offerta (Denz. 940)
Essendo un vero sacrificio la Messa ne realizza in modo proprio le finalità: adorazione, ringraziamento, riparazione e petizione (Denz. 948 e 950).
Il valore della Messa è in se stesso rigorosamente infinito. Però i suoi effetti in quanto dipendono da noi non ci vengono applicati se non nella misura delle nostre interne disposizioni.

II. Finalità ed effetti della Santa Messa

La Messa ha gli stessi fini e produce gli stessi effetti del sacrificio della croce, che sono quelli del sacrificio in generale come atto supremo di religione, però di grado infinitamente superiore.

Adorazione.

Il sacrificio della Messa rende a Dio un’adorazione degna di Lui, rigorosamente infinita. Questo effetto è prodotto infallibilmente ex opere operato, anche se celebra un sacerdote in peccato mortale, perché questo valore latreutico o di adorazione dipende dalla dignità infinita del Sacerdote principale che lo offre e dal valore della Vittima offerta.
Con la Messa possiamo dare a Dio tutto l’onore che Gli è dovuto in riconoscimento della Sua infinita maestà e del Suo supremo dominio, nella maniera più perfetta possibile e in grado rigorosamente infinito. Una sola Messa glorifica più Iddio di quanto lo glorificheranno in cielo, per tutta l’eternità, tutti gli angeli, i santi e i beati insieme, compresa Maria Santissima.
Dio risponde a questa incomparabile glorificazione curvandosi amorosamente verso le Sue creature. Di qui l’immenso valore di santificazione che racchiude per noi il santo sacrificio della Messa.

Ringraziamento.

Gli immensi benefici di ordine naturale e soprannaturale che abbiamo ricevuto da Dio ci hanno fatto contrarre verso di Lui un debito infinito di gratitudine che possiamo saldare soltanto con la Messa. Infatti per mezzo di essa offriamo al Padre un sacrificio eucaristico, cioè di ringraziamento,  che supera infinitamente il nostro debito; perché è Cristo stesso che, immolandosi per noi, ringrazia Iddio per i benefici che ci concede. A sua volta il ringraziamento è fonte di nuove grazie perché al benefattore piace la gratitudine. Questo effetto eucaristico è sempre prodotto infallibilmente ex opere operato indipendentemente dalle nostre disposizioni.

Riparazione.

Dopo l’adorazione e il ringraziamento non c’è dovere più urgente verso il Creatore che la riparazione delle offese che da noi ha ricevuto. Anche sotto questo aspetto il valore della Messa è assolutamente incomparabile, giacché con essa offriamo al Padre l’infinita riparazione di Cristo con tutta la sua efficacia redentrice.
Questo effetto non ci viene applicato in tutta la sua pienezza – basterebbe infatti una sola Messa per riparare tutti i peccati del mondo e liberare dalle loro pene tutte le anime del Purgatorio – ma ci viene applicato in grado limitato secondo le nostre disposizioni.

Tuttavia:
a. ci ottiene, per sé ex opere operato, se non incontra ostacoli, la grazia attuale necessaria per il pentimento dei nostri peccati. Lo insegna il Concilio di Trento: «Hujus quippe oblatione placatus Dominus, gratiam et donum paenitentiae concedens, crimina et peccata etiam ingentia dimittit» (Denz. 940).
b. rimette sempre, infallibilmente se non incontra ostacoli, almeno la parte della pena temporale che si deve pagare per i peccati in questo mondo o nell’altro. La Messa è quindi utile anche alle anime del Purgatorio (Denz. 940 e 950). Il grado e la misura di questa remissione dipende dalle nostre disposizioni.

Petizione.

Gesù Cristo si offre al Padre nella Messa per ottenerci con il merito della Sua infinita oblazione tutte le grazie di cui abbiamo bisogno. «Semper vivens ad interpelladum pro nobis» (Ebr. 7, 25), e valorizza le nostre suppliche con i Suoi meriti infiniti. La Messa di per sé, ex opere operato, muove infallibilmente Dio a concedere agli uomini tutte le grazie di cui hanno bisogno, ma il dono effettivo di queste grazie dipende dalle nostre disposizioni, la mancanza delle quali può impedire completamente che queste grazie giungano fino a noi.

III. Disposizioni per il Santo Sacrificio della Santa Messa. 

Le disposizioni principali per la Santa Messa sono di due specie: esterne ed interne.

Disposizioni esterne

Il sacerdote che celebra dovrà osservare le rubriche e le cerimonie stabilite dalla Chiesa come se quella fosse la prima, l’ultima e l’unica Messa della sua vita.
Il semplice fedele assisterà alla Messa in silenzio, con rispetto e attenzione.

Disposizioni interne

La migliore disposizione interna è quella di identificarsi con Gesù Cristo che si immola sull’altare, offrendoLo al Padre ed offrendosi con Lui, in Lui e per Lui. ChiediamoGli che converta anche noi in pane per essere così a completa disposizione dei nostri fratelli mediante la carità. Uniamoci intimamente con Maria ai piedi della croce, con San Giovanni il discepolo prediletto, col sacerdote celebrante, nuovo Cristo in terra. Uniamoci a tutte le Messe che si celebrano nel mondo intero. La santa Messa celebrata o ascoltata con queste disposizioni è indubbiamente tra i principali strumenti di santificazione.

Tratto da:
Antonio Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana,
ed. Paoline, 1987, pagg. 548-554

La Messa cattolica: sacrificio e non cena

«Fino a Lutero non vi è mai stato dubbio: l’Eucaristia è sacrificio e ad esso vi è una partecipazione conviviale, da intendersi sempre come sacro convito. Quindi, nella Tradizione della Chiesa, la Messa è stata sempre soprattutto sacrificio e poi anche convito. Lutero, invece, che riteneva che la nozione di Messa come sacrificio mettesse in pericolo l’unicità salvifica del sacrificio della croce, negò il carattere sacrificale dell’Eucaristia in favore del solo aspetto conviviale. È da questo momento in poi che si sviluppa l’idea di costruire gli altari a forma di mense e di far celebrare il sacerdote verso il popolo e in lingua volgare: per Lutero la Messa deve essere un incontro fraterno. La Chiesa cattolica si è opposta strenuamente a queste idee fino al post-concilio. Il Vaticano II non ha parlato in nessun testo di costruire nuovi altari, di staccarli dalla parete, di farli a forma di tavola e di celebrare verso il popolo. Nel post-concilio si è diffusa questa tendenza in seguito alla normativa che è stata via via stabilita, e moltissimi altari sono oggi a forma di tavola e li si chiama spesso “mensa” anche nei testi ufficiali. Non solo a causa di ciò, ma anche grazie a questo, si registra un forte calo di comprensione del fatto che la liturgia eucaristica è soprattutto il sacrificio di Cristo e poi anche una mensa conviviale, un banchetto fraterno in cui ci alimentiamo al suo corpo e sangue».

Mons. Mauro Gagliardi, “Liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche”, pp. 137-138.

dal sito papalepapale.com

Pio XII: Enciclica “MUSICAE SACRAE DISCIPLINA”

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

MUSICAE SACRAE DISCIPLINA

LA MUSICA SACRA

 

L’ordinamento della musica sacra Ci è stato sempre sommamente a cuore; Ci è pertanto sembrato opportuno riprenderne un’ordinata trattazione e insieme illustrare con una certa ampiezza molte questioni sorte e discusse in questi ultimi decenni, affinché questa nobile e ragguardevole arte giovi sempre più allo splendore del culto divino e a promuovere più efficacemente una più intensa vita spirituale dei fedeli. Abbiamo voluto allo stesso tempo venire incontro ai voti che molti di voi, venerabili fratelli, nella loro saggezza, hanno espresso e che anche insigni maestri di quest’arte liberale ed esimi cultori di musica sacra hanno formulato in occasione di congressi su tale materia, e infine a quanto hanno consigliato al riguardo l’esperienza della vita pastorale e i progressi della scienza e degli studi su quest’arte. In tal modo nutriamo speranza che le norme saggiamente fissate da san Pio X nel documento da lui a buon diritto chiamato “codice giuridico della musica sacra”(2) saranno di nuovo confermate e inculcate, riceveranno nuova luce e saranno corroborate da nuovi argomenti, in modo tale che la nobile arte della musica sacra, adattata alle presenti condizioni e in certo qual modo arricchita, sempre più risponda al suo alto fine.

I

Fra i molti e grandi doni di natura dei quali Dio, in cui è armonia di perfetta concordia e somma coerenza, ha arricchito l’uomo, creato a sua “immagine e somiglianza” (cf. Gn 1,26), deve annoverarsi la musica, la quale, insieme con le altre arti liberali contribuisce al gaudio spirituale e al diletto dell’animo. A ragione così scrive di essa Agostino: “La musica, cioè la dottrina e l’arte del ben modulare, a monito di grandi cose è stata concessa dalla divina liberalità anche ai mortali dotati di anima razionale”.(3)

Nessuna meraviglia, dunque, che il sacro canto e l’arte musicale siano stati usati, come consta da molti documenti antichi e recenti, anche per ornamento e decoro delle cerimonie religiose sempre e dovunque, anche presso i popoli pagani; e che il culto soprattutto del vero e sommo Dio si sia avvalso fin dall’antichità, di quest’arte. Il popolo di Dio, scampato incolume dal Mar Rosso per miracolo della divina potenza, cantò a Dio un canto di vittoria; e Maria, sorella del condottiero Mosè dotata di spirito profetico, cantò al suono dei timpani accompagnata dal canto del popolo (cf. Es15,1-20). In seguito, mentre si conduceva l’arca di Dio dalla casa di Abinadab alla città di Davide, il re stesso e “tutto Israele danzavano davanti a Dio con strumenti di legno lavorato, cetre, lire, timpani, sistri e cembali” (2 Sam 6,5). Lo stesso re Davide fissò le regole della musica da usarsi nel culto sacro e del canto (cf. 1 Cron 23,5; 25,2-31); regole che furono ristabilite dopo il ritorno del popolo dall’esilio e conservate fedelmente fino alla venuta del divin Redentore. Che nella chiesa, poi, fondata dal divin Salvatore, il canto sacro fosse fin da principio in uso e onore viene chiaramente indicato da san Paolo apostolo, quando agli efesini così scrive: “Siate ripieni di Spirito Santo recitando tra voi salmi e inni e canti spirituali” (Ef 5,18s; cf. Col 3,16); e che quest’uso di cantare salmi fosse in vigore anche nelle adunanze dei cristiani egli indica con queste parole: “Quando vi adunate alcuni tra voi cantano il salmo” (1 Cor 14,26). Che lo stesso avvenisse dopo l’età apostolica è attestato da Plinio, il quale scrive che coloro che avevano rinnegato la fede avevano affermato “che questa era la sostanza della colpa di cui erano accusati, essere soliti adunarsi in un dato giorno prima dell’apparire della luce e cantare un inno a Cristo come a Dio”.(4) Queste parole del proconsole romano di Bitinia mostrano chiaramente che neppure al tempo della persecuzione taceva del tutto la voce del canto della chiesa; ciò conferma Tertulliano quando narra che nelle adunanze dei cristiani “si leggono le Scritture, si cantano salmi, si tiene la catechesi”.(5)

Restituita alla chiesa la libertà e la pace, si hanno molte testimonianze dei padri e degli scrittori ecclesiastici, le quali confermano essere i salmi e gli inni del culto liturgico di uso pressoché quotidiano. Anzi a poco a poco si sono create anche nuove forme ed escogitati nuovi generi di canti, sempre più perfezionati dalle scuole di musica, specialmente a Roma. Il nostro predecessore di f.m. san Gregorio Magno, secondo la tradizione, radunò con cura quanto era stato tramandato e vi diede un saggio ordinamento, provvedendo con opportune leggi e norme ad assicurare la purezza e l’integrità del canto sacro. Dall’alma città la modulazione romana del canto a poco a poco s’introdusse in altre regioni dell’occidente, e non solo vi si arricchì di nuove forme e melodie, ma si incominciò anche a usare una nuova specie di canto sacro, l’inno religioso, talora in lingua volgare. Lo stesso canto corale, che dal suo restauratore san Gregorio cominciò a chiamarsi “gregoriano”, a partire dai secoli VIII e IX in quasi tutte le regioni dell’Europa cristiana acquistò nuovo splendore, con l’accompagnamento dello strumento musicale chiamato “organo”.

A cominciare dal secolo IX a poco a poco a questo canto corale si aggiunse il canto polifonico, di cui nei secoli successivi sempre più si precisarono la teoria e la pratica e che, soprattutto nei secoli XV e XVI, raggiunse per opera di sommi artisti ammirabile perfezione. La chiesa ebbe sempre in grande onore anche questo canto polifonico e di buon grado lo ammise a maggior decoro dei sacri riti nelle stesse basiliche romane e nelle cerimonie pontificie. Se ne accrebbero l’efficacia e lo splendore, perché alla voce dei cantori si aggiunse, oltre l’organo, il suono di altri strumenti musicali.

In tal modo, per impulso e sotto l’auspicio della chiesa, l’ordinamento della musica sacra nel decorso dei secoli ha fatto lungo cammino, in cui, sebbene talvolta con lentezza e a fatica, tuttavia è salito a poco a poco a maggior perfezione: dalle semplici ed ingenue melodie gregoriane fino alle grandi e magnifiche opere d’arte, nelle quali non solo la voce umana, ma altresì l’organo e gli altri strumenti aggiungono dignità, ornamento e prodigiosa ricchezza. Il progresso di quest’arte musicale, mentre chiaramente dimostra quanto la chiesa si sia preoccupata di rendere sempre più splendido e gradito al popolo cristiano il culto divino, d’altra parte spiega come mai la chiesa medesima abbia talvolta dovuto impedire che si oltrepassassero i giusti limiti e che, insieme con il vero progresso, s’infiltrasse nella musica sacra, depravandola, alcunché di profano e alieno dal culto sacro.

A tale dovere di premurosa vigilanza sempre furono fedeli i sommi pontefici; anche il concilio di Trento saggiamente proscrisse “quelle musiche in cui o nell’organo o nel canto si mescola qualcosa di sensuale o impuro”.(6) Per tralasciare non pochi altri papi, il nostro predecessore di f.m. Benedetto XIV con lettera enciclica del 19 febbraio 1749, in preparazione all’anno giubilare, con abbondante dottrina e copia di argomenti, esortò in modo particolare i vescovi a proibire con ogni mezzo i riprovevoli abusi che si erano indebitamente introdotti nella musica sacra.(7) Seguirono la stessa via i nostri predecessori Leone XII, Pio VIII,(8) Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII.(9) Tuttavia si può affermare a buon diritto che è stato il Nostro predecessore di i.m. san Pio X a compiere un’organica restaurazione e riforma della musica sacra, tornando a inculcare i principi e le norme tramandati dall’antichità e opportunamente riordinandoli secondo le esigenze dei tempi moderni.(10) Infine, come il nostro immediato predecessore Pio XI di f.m., con la costituzione apostolica Divini cultus sanctitatem del 20 dicembre 1929,(11) così Noi stessi, con l’enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947, abbiamo ampliate e corroborate le prescrizioni dei precedenti pontefici.(12)

II

A nessuno certamente recherà meraviglia il fatto che la chiesa con tanta vigilanza s’interessi della musica sacra. Non si tratta, infatti, di dettare leggi di carattere estetico o tecnico nei riguardi della nobile disciplina della musica; è intenzione della chiesa, invece, che questa venga difesa da tutto ciò che potrebbe menomarne la dignità, essendo chiamata a prestare servizio in un campo di così grande importanza qual è quello del culto divino.

In ciò la musica sacra non ubbidisce a leggi e norme diverse da quelle che regolano ogni arte religiosa, anzi l’arte stessa in generale. Invero non ignoriamo che in questi ultimi anni alcuni artisti, con grave offesa della pietà cristiana, hanno osato introdurre nelle chiese opere prive di qualsiasi ispirazione religiosa e in pieno contrasto anche con le giuste regole dell’arte. Essi cercano di giustificare questo deplorevole modo di agire con argomenti speciosi, che pretendono far derivare dalla natura e dall’indole stessa dell’arte. Vanno, infatti, dicendo che l’ispirazione artistica è libera, che non è lecito sottoporla a leggi e norme estranee all’arte, siano queste morali o religiose, perché in tal modo si verrebbe a ledere gravemente la dignità dell’arte e a ostacolare con vincoli e legami il libero corso dell’azione dell’artista sotto il sacro influsso dell’estro.

Con tali argomenti viene sollevata una questione senza dubbio grave e difficile, che riguarda qualsiasi manifestazione d’arte e ogni artista; questione che non può essere risolta con argomenti tratti dall’arte e dall’estetica, ma che invece dev’essere esaminata alla luce del supremo principio del fine ultimo, regola sacra e inviolabile di ogni uomo e di ogni azione umana. L’uomo, infatti, dice ordine al suo fine ultimo – che è Dio – in forza di una legge assoluta e necessaria fondata sulla infinita perfezione della natura divina, in maniera così piena e perfetta che neppure Dio potrebbe esimere qualcuno dall’osservarla. Con questa legge eterna ed immutabile viene stabilito che l’uomo e tutte le sue azioni devono manifestare, a lode e gloria del Creatore, l’infinita perfezione di Dio e imitarla per quanto è possibile. L’uomo, perciò, destinato per natura sua a raggiungere questo fine supremo, nel suo operare deve conformarsi al divino archetipo e orientare in questa direzione tutte le facoltà dell’animo e del corpo, ordinandole rettamente tra loro e debitamente piegandole verso il conseguimento del fine. Pertanto anche l’arte e le opere artistiche devono essere giudicate in base alla loro conformità con il fine ultimo dell’uomo; e l’arte certamente è da annoverarsi fra le più nobili manifestazioni dell’ingegno umano, perché riguarda il modo di esprimere con opere umane l’infinita bellezza di Dio, di cui essa è quasi il riverbero. Per la qual cosa, la nota espressione “l’arte per l’arte” – con cui, messo in disparte quel fine che è insito in ogni creatura, erroneamente si afferma che l’arte non ha altre leggi che quelle che promanano dalla sua natura – o non ha valore alcuno o reca grave offesa a Dio stesso, creatore e fine ultimo. La libertà poi dell’artista – che non è un istinto cieco nell’azione, regolato solo dall’arbitrio o da una certa sete di novità – per il fatto che è soggetta alla legge divina, in nessun modo viene coartata o soffocata, ma piuttosto nobilitata e perfezionata.

Ciò, se vale per ogni opera d’arte, è chiaro che deve applicarsi anche nei riguardi dell’arte sacra e religiosa. Anzi l’arte religiosa è ancor più vincolata a Dio e diretta a promuovere la sua lode e la sua gloria, perché non ha altro scopo che quello di aiutare potentemente i fedeli a innalzare piamente la loro mente a Dio, agendo per mezzo delle sue manifestazioni sui sensi della vista e dell’udito. Perciò l’artista senza fede o lontano da Dio con il suo animo e con la sua condotta, in nessuna maniera deve occuparsi di arte religiosa; egli, infatti, non possiede quell’occhio interiore che gli permette di scorgere quanto è richiesto dalla maestà di Dio e dal suo culto. Né si può sperare che le sue opere prive di afflato religioso – anche se rivelano la perizia e una certa abilità esteriore dell’autore – possano mai ispirare quella fede e quella pietà che si addicono alla maestà della casa di Dio; e quindi non saranno mai degne di essere ammesse nel tempio dalla chiesa, che è la custode e l’arbitra della vita religiosa.

L’artista invece che ha fede profonda e tiene una condotta degna di un cristiano, agendo sotto l’impulso dell’amore di Dio e mettendo le sue doti a servizio della religione, per mezzo dei colori, delle linee e dell’armonia dei suoni farà ogni sforzo per esprimere la sua fede e la sua pietà con tanta perizia, eleganza e soavità, che questo sacro esercizio dell’arte costituirà per lui un atto di culto e di religione, e stimolerà grandemente il popolo a professare la fede e a coltivare la pietà. Tali artisti sono stati e saranno sempre tenuti in onore dalla chiesa; essa aprirà loro le porte dei templi, poiché si compiace del contributo non piccolo che essi con la loro arte e con la loro operosità danno per un più efficace svolgimento del suo ministero apostolico.

Queste leggi dell’arte religiosa vincolano con un legame ancora più stretto e più santo la musica sacra, poiché essa è più vicina al culto divino che le altre arti belle, come l’architettura, la pittura e la scultura; queste cercano di preparare una degna sede ai riti divini, quella invece occupa un posto di primaria importanza nello svolgimento stesso delle cerimonie e dei riti sacri. Per questo la chiesa deve con ogni diligenza provvedere a rimuovere dalla musica sacra, appunto perché questa è l’ancella della sacra liturgia, tutto ciò che disdice al culto divino o impedisce ai fedeli di innalzare la mente a Dio.

E, infatti, in ciò consiste la dignità e l’eccelsa finalità della musica sacra, che cioè per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza apporta decoro e ornamento alle voci sia del sacerdote offerente sia del popolo cristiano che loda il sommo Dio eleva i cuori dei fedeli a Dio per una sua intrinseca virtù rende più vive e fervorose le preghiere liturgiche della comunità cristiana, perché Dio uno e trino da tutti possa essere lodato e invocato con più intensità ed efficacia. Per opera della musica sacra, dunque, viene accresciuto l’onore che la chiesa porge a Dio in unione con Cristo suo capo; e viene altresì aumentato il frutto che i fedeli, stimolati dai sacri concenti, percepiscono dalla sacra liturgia e sogliono manifestare con una condotta di vita degnamente cristiana, come dimostra l’esperienza quotidiana e confermano molte testimonianze di scrittori antichi e recenti. Sant’Agostino, parlando dei canti “eseguiti con voce limpida e con appropriate modulazioni”, così si esprime: “Sento che le anime nostre assurgono nella fiamma della pietà con un ardore e una devozione maggiore per quelle sante parole, quando sono accompagnate dal canto, e tutti i diversi sentimenti del nostro spirito trovano nel canto una loro propria modulazione, che li risveglia in forza di non so quale occulto, intimo rapporto”.(13)

Da qui facilmente si può comprendere come la dignità e l’importanza della musica sacra sia tanto più grande, quanto più da vicino la sua azione riguarda l’atto supremo del culto cristiano, cioè il sacrificio eucaristico dell’altare. Essa, dunque, nulla può compiere di più alto e di più sublime dell’ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni la voce del sacerdote che offre la vittima divina, di rispondere gioiosamente alle sue domande insieme col popolo che assiste al sacrificio, e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro. Alla dignità di questo eccelso servizio si avvicinano poi gli uffici che la stessa musica sacra compie quando accompagna ed abbellisce le altre cerimonie liturgiche, e in primo luogo la recita dell’Ufficio divino nel coro. Questa musica “liturgica”, perciò, merita sommo onore e lode.

Ciononostante si deve tenere in grande stima anche quella musica che, pur non essendo destinata principalmente al servizio della sacra liturgia, tuttavia, per il suo contenuto e per le sue finalità reca molti vantaggi alla religione, e perciò a buon diritto viene chiamata musica “religiosa”. Invero anche questo genere di musica sacra – che è detto “popolare” e che ebbe origine in seno alla chiesa e sotto i suoi auspici poté felicemente svilupparsi – è in grado, come l’esperienza dimostra, di esercitare negli animi dei fedeli un grande e salutare influsso, sia che venga usata nelle chiese durante le funzioni e le sacre cerimonie non liturgiche, sia fuori di chiesa nelle varie solennità e celebrazioni. Infatti, le melodie di questi canti, composti per lo più in lingua volgare, si fissano nella memoria quasi senza sforzo e fatica e nello stesso tempo anche le parole e i concetti si imprimono nella mente, sono spesso ripetuti e più profondamente vengono compresi. Ne segue che anche i fanciulli e le fanciulle, imparando nella tenera età questi canti sacri, sono molto aiutati a conoscere, a gustare e a ricordare le verità della nostra fede e così l’apostolato catechistico ne trae non lieve vantaggio. Questi canti religiosi, poi, agli adolescenti e agli adulti, mentre ricreano l’animo, offrono un puro e casto diletto, danno un certo tono di maestà religiosa ai convegni e alle adunanze più solenni, e anzi nelle stesse famiglie cristiane apportano santa letizia, dolce conforto e spirituale profitto. Per la qual cosa anche questo genere di musica religiosa popolare costituisce un valido aiuto per l’apostolato cattolico, e quindi deve con ogni cura essere coltivato e sviluppato.

Pertanto, quando esaltiamo i pregi molteplici della musica sacra e la sua efficacia nei riguardi dell’apostolato, facciamo cosa che può tornare di sommo gaudio e conforto a tutti coloro che in qualsiasi maniera si sono dedicati a coltivarla e a promuoverla. Infatti, quanti o compongono musica, secondo il proprio talento artistico, o la dirigono, o la eseguono sia vocalmente sia per mezzo di strumenti musicali, tutti costoro senza dubbio esercitano un vero e proprio apostolato, anche se in modo vario e diverso, e riceveranno perciò in abbondanza da Cristo Signore le ricompense e gli onori riservati agli apostoli, nella misura con cui ognuno avrà fedelmente adempiuto il suo ufficio. Essi perciò stimino grandemente questa loro mansione, in virtù della quale non sono solamente artisti e maestri di arte, ma anche ministri di Cristo Signore e collaboratori nell’apostolato, e si sforzino di manifestare anche con la condotta della vita la dignità di questo loro ufficio.

III

Tale essendo, come abbiamo ora detto, la dignità e l’efficacia della musica sacra e del canto religioso, è oltremodo necessario curarne diligentemente la struttura in ogni parte, per ricavarne utilmente i salutari frutti.

È necessario anzitutto che il canto e la musica sacra, più intimamente congiunti con il culto liturgico della chiesa, raggiungano l’alto fine loro prefisso. Perciò tale musica – come già saggiamente ammoniva il Nostro predecessore san Pio X – “deve possedere le qualità proprie della liturgia, in primo luogo la santità e la bontà della forma; onde di per sé si raggiunge un’altra caratteristica, la universalità”.(14)

Deve essere santa; non ammetta in sé ciò che sa di profano, né permetta che si insinui nelle melodie con cui viene presentata. A questa santità soprattutto si presta il canto gregoriano, che da tanti secoli si usa dalla chiesa, sì da poterlo dire di suo patrimonio. Questo canto, per la intima aderenza delle melodie con le parole del sacro testo, non solo vi si addice pienamente; ma sembra quasi interpretarne la forza e l’efficacia, istillando dolcezza all’animo di chi ascolta; e ciò con mezzi musicali semplici e facili, ma pervasi di così sublime e santa arte, da suscitare in tutti sentimenti di sincera ammirazione e da divenire per gli stessi intenditori e maestri di musica sacra fonte inesauribile di nuove melodie. Conservare con cura questo prezioso tesoro del canto gregoriano e farne ampiamente partecipe il popolo spetta a tutti coloro, ai quali Gesù Cristo affidò di custodire e di dispensare le ricchezze della chiesa. Però, quello che i Nostri predecessori san Pio X, a buon diritto chiamato restauratore del canto gregoriano,(15) e Pio XI(16) hanno sapientemente ordinato e inculcato, ancor Noi vogliamo e prescriviamo che si faccia, portando l’attenzione a quelle caratteristiche che sono proprie del genuino canto gregoriano; che cioè nella celebrazione dei riti liturgici si faccia largo uso di tale canto, e si provveda con ogni cura affinché sia eseguito con esattezza, dignità e pietà. Che se per le feste introdotte di recente si debbano comporre nuove melodie, ciò si faccia da maestri veramente competenti, in modo da osservare fedelmente le leggi proprie del vero canto gregoriano e le nuove composizioni gareggino per valore e purezza con le antiche.

Se queste norme saranno realmente osservate in tutto, si verrà altresì a soddisfare nel modo dovuto a un’altra proprietà della musica sacra, che sia cioè vera arte; e se in tutte le chiese cattoliche del mondo risonerà incorrotto e integro il canto gregoriano, esso pure, come la liturgia romana, avrà la nota di universalità, in modo che i fedeli in qualunque parte del mondo sentano come familiari e quasi di casa propria quelle armonie, sperimentando così con spirituale conforto la mirabile unità della chiesa. È questo uno dei motivi principali per cui la chiesa mostra così vivo desiderio che il canto gregoriano sia intimamente legato con le parole latine della sacra liturgia.

Sappiamo bene che dalla stessa sede apostolica sono state concesse al riguardo per gravi motivi alcune ben determinate eccezioni, le quali peraltro vogliamo che non siano estese e applicate ad altri casi, senza la debita licenza della medesima Santa Sede. Anzi anche là dove ci si può avvalere di tali concessioni, gli ordinari e gli altri sacri pastori curino attentamente che i fedeli fin dall’infanzia imparino le melodie gregoriane più facili e più in uso e se ne sappiano valere nei sacri riti liturgici, di modo che anche in ciò sempre più risplenda l’unità e l’universalità della chiesa.

Dove, tuttavia, una consuetudine secolare o immemorabile permette che nel solenne sacrificio eucaristico, dopo le parole liturgiche cantate in latino, si inseriscano alcuni canti popolari in lingua volgare, gli ordinari permetteranno ciò “qualora giudichino che, per le circostanze di luogo e di persone, tale (consuetudine) non possa prudentemente venire rimossa”,(17) ferma restando la norma che non si cantino in lingua volgare le parole stesse della liturgia, come già sopra è stato detto.

Affinché poi i cantori e il popolo cristiano capiscano bene il significato delle parole liturgiche legate alla melodia musicale, facciamo Nostra l’esortazione rivolta dai padri del concilio di Trento specialmente “ai pastori e ai singoli aventi cura di anime, che spesso durante la celebrazione della messa spieghino o direttamente o per mezzo di altri qualche parte di ciò che si legge nella messa, e tra l’altro illustrino qualche mistero di questo santo sacrificio, specialmente la domenica e nei giorni festivi”,(18) e ciò facciano soprattutto nel tempo in cui si spiega il catechismo al popolo cristiano. Ciò diviene più facile e agevole oggi che non nei secoli passati, perché si hanno le parole della liturgia tradotte in volgare e la loro spiegazione in manuali e libriccini, che, preparati da competenti in quasi tutte le nazioni, possono efficacemente aiutare e illuminare i fedeli, affinché anch’essi comprendano e quasi prendano parte a quanto dicono i ministri sacri in lingua latina.

È ovvio che quanto abbiamo qui esposto brevemente circa il canto gregoriano riguarda soprattutto il rito latino romano della chiesa; ma può rispettivamente applicarsi ai canti liturgici di altri riti, sia dell’occidente, come l’ambrosiano, il gallicano, il mozarabico, sia ai vari riti orientali. Tutti questi riti, infatti, mentre dimostrano la mirabile ricchezza della chiesa nell’azione liturgica e nelle formule di preghiera, d’altra parte per i diversi canti liturgici conservano tesori preziosi, che occorre custodire e impedirne non solo la scomparsa, ma anche ogni attenuazione e depravazione. Tra i più antichi e importanti documenti della musica sacra, hanno senza dubbio un posto considerevole i canti liturgici nei vari riti orientali, le cui melodie ebbero molto influsso nella formazione di quelle della chiesa occidentale, con i dovuti adattamenti all’indole propria della liturgia latina. È Nostro desiderio che una scelta di canti dei riti sacri orientali – a cui sta alacremente lavorando il Pontificio Istituto per gli studi orientali, con l’aiuto del Pontificio Istituto per la musica sacra – sia felicemente condotta a termine, tanto per la parte dottrinale quanto per quella pratica; di modo che i seminaristi di rito orientale, ben preparati anche nel canto sacro, divenuti un giorno sacerdoti, possano validamente contribuire anche in questo ad accrescere il decoro della casa di Dio.

Non è Nostra intenzione, con ciò che abbiamo detto per lodare e raccomandare il canto gregoriano, rimuovere dai riti della chiesa la polifonia sacra, la quale, purché ornata delle debite qualità, può giovare assai per la magnificenza del culto divino e per suscitare pii affetti nell’animo dei fedeli. È ben noto infatti che molti canti polifonici, composti soprattutto nel secolo XVI, risplendono per tale purezza d’arte e tale ricchezza di melodie, da essere del tutto degni di accompagnare e quasi illuminare i riti della chiesa. Che se la genuina arte della polifonia nel corso dei secoli a poco a poco è decaduta e non di rado vi si sono mescolate melodie profane, negli ultimi decenni, per l’opera indefessa di insigni maestri, essa felicemente si è come rinnovata, con un più accurato studio delle opere degli antichi maestri, proposte all’imitazione ed emulazione degli odierni compositori.

In tal modo avviene che nelle basiliche, nelle cattedrali, nelle chiese dei religiosi si possono eseguire sia i capolavori degli antichi maestri sia composizioni polifoniche di autori recenti, con decoro del sacro rito; sappiamo anzi che anche nelle chiese minori non di rado si eseguono canti polifonici più semplici, ma composti con dignità e vero senso d’arte. La chiesa favorisce tutti questi sforzi; essa, infatti, secondo le parole del Nostro predecessore di b. m. san Pio X, “sempre ha favorito il progresso delle arti e lo ha aiutato, accogliendo nell’uso religioso tutto ciò che l’ingegno umano ha creato di buono e di bello nel corso dei secoli, purché restassero salve le leggi liturgiche”.(19) Queste leggi esigono che su questa importante materia si usi ogni prudenza e si abbia ogni cura, affinché non si introducano in chiesa canti polifonici che, per il modo turgido e ampolloso, o vengano a oscurare con la loro prolissità le parole sacre della liturgia o interrompano l’azione del sacro rito oppure avviliscano l’abilità dei cantori con disdoro del culto divino.

Queste norme devono applicarsi altresì all’uso dell’organo e degli altri strumenti musicali. Fra gli strumenti a cui è aperto l’adito al tempio viene a buon diritto in primo luogo l’organo, perché è particolarmente adatto ai canti sacri e sacri riti e dà alle cerimonie della chiesa notevole splendore e singolare magnificenza, commuove l’animo dei fedeli con la gravità e la dolcezza del suono, riempie la mente di gaudio quasi celeste ed eleva fortemente a Dio e alle cose celesti.

Oltre l’organo vi sono altri strumenti che possono efficacemente venire in aiuto a raggiungere l’alto fine della musica sacra, purché non abbiano nulla di profano, di chiassoso, di rumoroso, cose disdicevoli al sacro rito e alla gravità del luogo. Tra essi vengono in primo luogo il violino e altri strumenti ad arco, i quali, o soli, o insieme con altri strumenti e con l’organo, esprimono con indicibile efficacia i sensi di mestizia o di gioia dell’animo. Del resto, circa le melodie musicali non ammissibili nel culto cattolico, già abbiamo parlato chiaramente nell’enciclica Mediator Dei. “Quando essi nulla abbiano di profano o disdicevole alla santità del luogo e dell’azione liturgica e non vadano in cerca dello stravagante e dello straordinario, abbiano pure accesso nelle nostre chiese, potendo contribuire non poco allo splendore dei sacri riti, a elevare l’animo verso l’alto e a infervorare la vera pietà dell’animo”.(20) È appena il caso di ammonire che, quando manchino la capacità e i mezzi per tanto impegno, è meglio astenersi da simili tentativi, piuttosto che fare cosa meno degna del culto divino e delle adunanze sacre.

A questi aspetti che hanno più stretto legame con la liturgia della chiesa si aggiungono, come abbiamo detto, i canti religiosi popolari, scritti per lo più in lingua volgare, i quali prendono origine dal canto liturgico stesso, ma, essendo più adatti all’indole e ai sentimenti dei singoli popoli, differiscono non poco tra di loro, secondo il carattere delle genti e l’indole particolare delle nazioni. Affinché tali canti religiosi portino frutto spirituale e vantaggio al popolo cristiano, devono essere pienamente conformi all’insegnamento della fede cristiana, esporla e spiegarla rettamente, usare un linguaggio facile e una melodia semplice, aborrire dalla profusione di parole gonfie e vuote e, infine, pur essendo brevi e facili, avere una certa religiosa dignità e gravità. Quando abbiano tali doti, questi canti sacri, sgorgati quasi dal più profondo dell’anima del popolo, commuovono fortemente i sentimenti e l’animo ed eccitano pii affetti; quando si cantano nelle funzioni religiose dalla folla radunata elevano l’animo dei fedeli alle cose celesti. Perciò, sebbene, come abbiamo detto, nelle messe cantate solenni non possono usarsi senza speciale permesso della Santa Sede, tuttavia nelle messe celebrate in forma non solenne possono mirabilmente giovare, affinché i fedeli assistano al santo sacrificio non tanto come spettatori muti e quasi inerti, ma, accompagnando l’azione sacra con la mente e con la voce, uniscano la propria devozione con le preghiere del sacerdote, purché tali canti siano ben adatti alle varie parti del sacrificio, come Ci è noto che già si fa in molte parti del mondo cattolico con grande gaudio.

Quanto alle cerimonie non strettamente liturgiche, tali canti religiosi, purché corrispondano alle condizioni suddette, possono egregiamente giovare ad attirare salutarmente il popolo cristiano, ad ammaestrarlo, a formarlo a sincera pietà ed a riempirlo di un santo gaudio; e ciò tanto nelle processioni e nei pellegrinaggi ai santuari, quanto pure nei congressi religiosi nazionali ed internazionali. Saranno utili in special modo quando si tratta di istruire nella verità cattolica i fanciulli e le fanciulle, così pure nelle associazioni giovanili e nelle adunanze dei pii sodalizi, come l’esperienza spesso chiaramente dimostra.

Non possiamo perciò fare a meno di esortare vivamente Voi, venerabili Fratelli, a volere con ogni cura e ogni mezzo favorire e promuovere questo canto popolare religioso nelle vostre diocesi. Non vi mancheranno uomini esperti, per raccogliere e riunire insieme, dove già non sia stato fatto, questi canti, perché da tutti i fedeli possano più facilmente venire imparati, cantati con speditezza e bene impressi nella memoria. Coloro cui è affidata la formazione religiosa dei fanciulli e delle fanciulle, non trascurino di avvalersi nel debito modo di questi validi aiuti, e gli assistenti della gioventù cattolica ne usino rettamente nel grave compito loro affidato. In tal modo si può sperare di ottenere anche un altro vantaggio, che è nel desiderio di tutti, che siano tolte di mezzo quelle canzoni profane che o per mollezza del ritmo o per le parole spesso voluttuose e lascive che lo accompagnano, sogliono essere pericolose ai cristiani, ai giovani specialmente, e siano sostituite da quelle altre che danno un piacere casto e puro e insieme nutrono la fede e la pietà; sicché già qui in terra il popolo cristiano incominci a cantare quel canto di lode che canterà eternamente nel cielo: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello sia benedizione, onore, gloria e potestà nei secoli dei secoli” (Ap 5,13).

Ciò che abbiamo esposto finora vale soprattutto per quelle nazioni appartenenti alla chiesa, nelle quali la religione cattolica è già saldamente stabilita. Nei paesi di missione non sarà certo possibile mettere tutto ciò in pratica, prima che sia cresciuto sufficientemente il numero dei cristiani, si siano costruite chiese spaziose, le scuole fondate dalla chiesa siano convenientemente frequentate dai figli dei cristiani e infine vi sia un numero di sacerdoti pari al bisogno. Tuttavia esortiamo vivamente gli operai apostolici, che faticano in quelle vaste estensioni della vigna del Signore, a volersi occupare seriamente, tra le gravi cure del loro ufficio, anche di questa incombenza. È meraviglioso vedere quanto si dilettino delle melodie musicali i popoli affidati alla cura dei missionari e quanta parte abbia il canto nelle cerimonie dedicate al culto degli idoli. Sarebbe pertanto improvvido che questo efficace sussidio per l’apostolato venisse tenuto in poco conto o addirittura trascurato dagli araldi di Cristo vero Dio. Perciò i messaggeri dell’evangelo nelle regioni pagane, nell’adempimento del loro ministero, dovranno largamente fomentare questo amore del canto religioso, che è coltivato dagli uomini affidati alle loro cure, in modo che questi popoli, ai canti religiosi nazionali, che non di rado vengono ammirati anche dalle nazioni civili, contrappongano analoghi canti sacri cristiani nei quali si esaltano le verità della fede, la vita del Signore Gesù Cristo, della beata Vergine e dei santi nella lingua e nelle melodie famigliari a quelle genti.

Si ricordino altresì i missionari che la chiesa cattolica, fin dai tempi antichi, inviando gli araldi dell’evangelo in regioni non ancora rischiarate dal lume della fede, insieme con i sacri riti ha voluto che essi portassero anche i canti liturgici, tra cui le melodie gregoriane, e ciò affinché i popoli da chiamare alla fede, allettati dalla dolcezza del canto, fossero più facilmente mossi ad abbracciare le verità della religione cristiana.

IV

Affinché tutto quello che, seguendo le orme dei Nostri predecessori, Noi in questa lettera enciclica abbiamo raccomandato o prescritto ottenga il desiderato effetto, voi, o venerabili fratelli, con premuroso impegno prenderete tutte quelle disposizioni che l’alto ufficio a voi affidato da Cristo e dalla chiesa vi impone e che, come risulta dall’esperienza, con grande frutto in molte chiese del mondo cristiano sono messe in pratica.

Innanzi tutto datevi cura perché nella chiesa cattedrale e, in quanto dalle circostanze è consentito, nelle maggiori chiese della vostra giurisdizione, ci sia una scelta Schola cantorum, la quale riesca agli altri di esempio e di stimolo a coltivare e a eseguire con diligenza il canto sacro. Dove poi non si possono avere le Scholae cantorum né si può adunare un conveniente numero di Pueri cantores, si concede che “un gruppo di uomini e di donne o fanciulle in luogo a ciò destinato, posto fuori della balaustra, possa cantare i testi liturgici della messa solenne, purché gli uomini siano del tutto separati dalle donne e fanciulle e sia evitato ogni inconveniente, onerata in ciò la coscienza degli ordinari”.(21)

Con grande sollecitudine è da provvedere che quanti nei seminari e negli istituti missionari religiosi si preparano ai sacri ordini, siano rettamente istruiti secondo le direttive della chiesa nella musica sacra e nella conoscenza teorica e pratica del canto gregoriano da maestri esperimentati in tali discipline, che apprezzino tradizioni e usi e ubbidiscano in tutto alle norme precettive della Santa Sede.

Che se tra gli alunni dei seminari e dei collegi religiosi ve ne sia qualcuno fornito di particolare tendenza e passione verso quest’arte, i rettori dei seminari o dei collegi non trascurino d’informarvi di questo, perché possiate offrirgli occasione di coltivare meglio tali doti e lo possiate inviare al Pontificio Istituto di musica sacra in questa città o in qualche altro ateneo del genere, purché si distingua per costumatezza e virtù e con ciò dia motivo a sperare che riuscirà ottimo sacerdote.

Oltre a ciò converrà provvedere che gli ordinari e i superiori maggiori degli istituti religiosi scelgano qualcuno del cui aiuto si servano in cosa di tanta importanza, a cui essi, fra tante e così gravi altre loro occupazioni, per forza di circostanze non potranno facilmente attendere. Cosa ottima a questo fine è che nel consiglio diocesano di arte sacra ci sia qualcuno esperto in musica sacra e in canto, che possa solertemente vigilare nella diocesi in tale campo e informare l’ordinario di quanto si è fatto e si debba fare e accogliere e far eseguire le sue prescrizioni e disposizioni. Che se in qualche diocesi esiste qualcuna di quelle associazioni che sono state sapientemente fondate per coltivare la musica sacra, e sono state lodate e raccomandate dai sommi pontefici, l’ordinario nella sua prudenza se ne potrà giovare per soddisfare alle responsabilità di tale suo ufficio.

Tali pii sodalizi, costituiti per l’istruzione del popolo nella musica sacra o per approfondire la cultura di quest’ultima, i quali con la diffusione delle idee e con l’esempio molto possono contribuire a dare incremento al canto sacro, sosteneteli, o venerabili fratelli, e promoveteli col vostro favore, perché essi fioriscano di vigorosa vita e ottengano ottimi valenti maestri, e in tutta la diocesi diligentemente diano sviluppo alla musica sacra e all’amore e alla consuetudine dei canti religiosi, con la debita obbedienza alle leggi della chiesa e alle Nostre prescrizioni.

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Tutto questo, mossi da una sollecitudine tutta paterna, abbiamo voluto trattare con una certa ampiezza; e nutriamo piena fiducia che voi, venerabili fratelli, rivolgerete tutta la vostra cura pastorale a tale questione d’interesse religioso, molto importante per la celebrazione più degna e più splendida del culto divino. Quelli poi che nella chiesa, sotto la vostra condotta, hanno nelle loro mani la direzione di quanto concerne la musica, speriamo che da questa Nostra lettera enciclica troveranno incitamento a promuovere con nuovo appassionato ardore e con generosità operosamente solerte tale importante apostolato. Così, come auspichiamo, avverrà che arte tanto nobile molto apprezzata in tutte le epoche della chiesa, anche ai nostri giorni sarà coltivata in modo da essere ricondotta ai genuini splendori di santità e di bellezza e conseguirà perfezione sempre più alta, e col suo contributo produrrà questo felice effetto che i figli della chiesa con fede più ferma, con speranza più viva, con carità più ardente, rendano nelle chiese il dovuto omaggio di lodi a Dio uno e trino, e che anzi anche fuori degli edifici sacri, nelle famiglie e nei convegni cristiani, si avveri quello che san Cipriano a Donato faceva oggetto di una famosa esortazione: “Risuoni di salmi il sobrio banchetto: e se hai tenace memoria e voce canora, assumiti questo ufficio secondo l’invalsa consuetudine: tu a persone a te carissime offri maggior nutrimento, se da parte nostra c’è un’audizione spirituale e se la dolcezza religiosa diletta il nostro udito”.(22)

Frattanto nell’attesa di risultati sempre più ricchi e lieti, che speriamo avranno origine da questa Nostra esortazione, in attestato del Nostro paterno affetto e in auspicio di doni celesti, impartiamo con effusione d’animo la benedizione apostolica a voi, venerabili fratelli, a quanti presi singolarmente e collettivamente appartengono al gregge a voi affidato, e in modo particolare a coloro che, assecondando i Nostri voti, si curano di dare incremento alla musica sacra.

Roma, presso San Pietro, 25 dicembre, Natale di nostro Signore Gesù Cristo, nell’anno 1955, XVII del Nostro pontificato.

PIO PP. XII