L’abito dei chierici

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di Don Alfredo Maria Morselli,
parroco di Stiatico e Casadio (BO)

 

Talare e clergyman non sono la stessa cosa

Oggi, quando si vede un sacerdote in clergyman, ci si rallegra, perché per lo meno ci si trova di fronte a un prete che obbedisce alle norme vigenti e non ha paura di mostrare la sua identità. Però però… non è la stessa cosa che vederlo in talare.

Uno certo falso spiritualismo gnostico oggi alla moda, una delle tante anime del neo-modernismo, tende a farci dimenticare la grandiosa portata simbolica della lunga veste nera.

Le riflessioni del Ven. Jean-Jacques Olier ci faranno senz’altro meglio capire quanto un santo prete debba essere, in un certo senso, un tutt’uno con il suo santo abito

Don Alfredo Morselli

Dell’abito dei chierici
del Ven. Jean-Jacques Olier
La veste talare e la cotta, che sono l’abito della religione di Gesù Cristo (1) sono l’espressione esteriore della professione da noi fatta, di rivestirci interiormente della religione di Cristo verso il suo divino Padre.
Questa è la dichiarazione che tutti chierici devono fare ai piedi del vescovo ricevendo il santo abito. Essi testimoniano così solennemente di dedicarsi a Dio in Cristo suo Figlio, per servirlo nella sua Chiesa, di prenderlo per unico retaggio, per unico bene, per loro tutto. Allora soltanto vengono rivestiti della cotta, dopo d’aver ricevuto la tonsura e d’esser stati rivestiti di una veste talare.
Tutte queste circostanze sono molto misteriose e devono essere considerate con seria attenzione da coloro che entrano nel chiericato. Le persone incaricate dell’istruzione dei chierici, porranno gran cura nel darne le spiegazioni. Da parte loro, i chierici devono desiderare ardentemente di conoscere ciò che esse significano (2); poiché vi riscontreranno i loro obblighi principali e le disposizioni speciali che sono loro necessarie per entrare in questo stato e per abbracciare questa santa professione.
 
L’abito col quale si presenta colui che aspira al chiericato è la santa veste talare. Questo abito è il segno esterno dell’anima disposta a entrare nella vita ecclesiastica (3).
Tutto ciò che esiste di esteriore nella Chiesa del Signore governata dal suo Spirito divino e dalla sua santa saggezza, esprime qualcosa di interiore che non potrebbe essere espressa che con qualche espressione o figura sensibile (4). Il corpo significa l’anima, in noi; e con i suoi gesti, con i suoi movimenti e con le sue azioni esso scopre quali sono le sue potenze intime che altrimenti resterebbero sconosciute.
Non si saprebbe mai che l’anima ha la potenzialità di vedere, di ascoltare, di parlare, se il corpo, con le sue funzioni dipendenti dall’anima, non facesse vedere ciò che essa è in se stessa (5).
Così Nostro Signore fa apparire nella Chiesa, per mezzo di cose esteriori, ciò che vi è di più nascosto nei suoi misteri (6); e mediante le vesti e gli ornamenti di cui ricopre i suoi ministri, le cerimonie con cui vela le sue opere, egli spiega ciò che l’uomo nuovo e il suo spirito divino operano nelle anime nostre.·
Ora, poiché di tutte le vesti dell’ecclesiastico la prima è la veste talare, venerabile abito proprio dello stato ecclesiastico e prescritto dai sacri canoni stessi (7), dobbiamo vederne il significato e ciò che la Chiesa intende esprimerci per suo mezzo.
La veste talare, che è un abito nero, significa la prima delle disposizioni che deve avere il chierico e la prima parte della religione del santo clero, che è d’essere morto ad ogni amore, ad ogni stima del mondo (8). La cotta, invece, rappresenta la seconda parte di questa stessa religione, che è di non vivere che per il Signore. Si ricopre di questo abito colui che si presenta a ricevere la tonsura, per insegnargli che deve essere talmente distaccato da ogni cosa terrena, da rassomigliare a un morto, non desiderando più che Dio, in confronto del quale non esiste nulla al mondo di amabile. Così del resto dichiara il chierico allorché, spogliandosi dell’ignominia dell’abito secolare, si ricopre di questa santa veste: egli dichiara pubblicamente in faccia a tutta la Chiesa, che intende di cambiare le proprie abitudini, i propri costumi, così come cambia d’abito (9); che non intende più viver della vita terrena, ma della vita celeste; che non conosce più che Dio, non stima altri che Lui, che Egli è il suo tutto e che il resto non gli è più nulla; infine, che vuol essere come i beati che, nella visione di Dio, non vedono più che lui, o che se vedono qualche altra cosa, qualche creatura, la vedono talmente in Dio, che essa è ai loro occhi piuttosto Dio che creatura.
L’abito del chierico che rivela come egli sia il perfetto religioso di Dio, entrato nella comunione e partecipazione della religione del cielo, è la cotta. Questo è il suo abito vero, perfetto, senza del quale non può compiere alcuna delle sue funzioni (10); di modo che egli non è considerato chierico rappresentante il proprio stato, che quando ne è rivestito. Se qualche volta non porta che la veste talare, questo avviene quando egli è nel secolo (11), indegno di vedere l’innocenza, la purezza, la santità e lo splendore del suo abito divino. E se non mostra che nero agli occhi del mondo, è per significare che è morto per esso, e che egli lo considera tanto miserabile che, per vivere nella giustizia e nella grazia, bisogna morire a ciò che esso’ è; tanto è vizioso e corrotto (12)!
L’ampiezza di questo abito non ci deve stupire (13); il prete rappresenta tutto il mondo; deve portare nel cuore la religione che aveva Cristo nel suo, che è la religione universale che egli offrì al suo Padre per supplemento di quella di tutta la sua Chiesa.
Egli amava, adorava, lodava il Padre per tutti gli uomini e per tutti gli angeli. Faceva per essi ciò che non potevano degnamente fare, di modo che suppliva a tutti (4). Così egli era il religioso universale, colui che pregava lodava e glorificava Dio per tutto il mondo.
Questo Egli continua a fare nel Cielo (15) e nel Santissimo Sacramento dell’Altare, dove rende a Dio tutti gli omaggi e i doveri della religione nel suo interiore, come la Chiesa glieli rende esteriormente sulla terra e glieli renderà egualmente nel Cielo. Ma poi che Nostro Signore, ascendendo al cielo e lasciando la terra, ha cessato di onorare esteriormente il suo divin Padre a nome di tutti gli uomini come visibilmente faceva sulla terra, così ha voluto lasciare dei successori della sua religione che continuassero a compiere gli stessi doveri verso Dio, Padre suo (16). E siccome questa religione è in lui per mezzo dello Spirito Santo, la cui virtù gli fa adorare Dio quanto lo può essere, egli ha voluto, dopo l’ascensione al cielo, mandare questo stesso Spirito ai suoi Apostoli ed ai suoi discepoli affinché continuasse a diffondere nei cuori come aveva fatto nel suo (17), una religione perfetta, santa, interiore, comprendente in sé i doveri e gli omaggi di tutto il mondo insieme.
Così, gli Apostoli e i Preti sono i successori di Gesù Cristo nella sua religione e non sono stabiliti se non per onorare Dio in nome di tutto il mondo (18).
Per questo, la veste talare è così ampia, a rappresentare quasi la sfericità e la distesa della terra: ciò che si raffigurava anticamente nella veste del sommo sacerdote che era pure amplissima per prefigurare l’immensità della religione di Gesù Cristo (19). Il pontefice nella antica legge, portava su di sé i nomi delle dodici tribù (20) per prefigurare l’eccellenza della religione del Figlio di Dio e la grandezza del suo amore verso il Padre che sorpassò quello di tutti gli uomini insieme; ed ancora per significare che i preti devono portare l’amore di tutti gli uomini nei loro cuori (21); che essi devono contenere nel cuore tutti gli omaggi, tutte le lodi di ogni fedele, e possedere nelle loro anime più religione verso Dio che tutte le creature insieme riunite. La santa veste talare è inoltre come un sudario che ci tiene sepolti e che esprime al vescovo lo stato di morte nel quale si trova il santo chierico che a lui si presenta. Dico sempre è dovunque santo, perché, come la Chiesa è un nuovo mondo e un mondo di santità, fatto soltanto per rappresentarci Dio e Gesù Cristo nelle loro eminenti perfezioni, nulla deve trovarsi in essa che non sia santo.
La santa veste talare significa dunque che il chierico è morto al secolo (22): come egli stesso protesta, quando dice di non voler più che Dio; Dominus pars hereditatis meae. Ed anche se non lo dicesse, parlerebbe del suo obbligo l’abito che indossa che, semplice e nero come è, esprime a chiunque che il chierico che lo porta è morto alla pompa ed al fasto del secolo (22) e che deve esserne separato nel cuore come lo è nell’abito (23).
L’abito talare ricopre tutto il corpo, a testimoniare che tutta la carne è morta e che il chierico che lo porta, reca in sé la morte di Cristo in tutte le sue membra. Necessità quindi che colui che è innalzato al santo stato ecclesiastico, faccia apparire, nella persona, la morte di Nostro Signore e le sue vittorie, e tutte le sue azioni lo proclamino e lo annuncino dappertutto (24). Dice San Paolo che tutti i cristiani devono essere circondati per tutto il loro coro po della morte di Gesù Cristo: Semper mortifìcationem Jesu in corpore nostro circumferentes (25). Questo è raffigurato dall’abito talare che, ricoprendo il chierico e circondandone il corpo, non lascia scorgere nulla di lui se non sotto un abito di morte (26).

Siccome essi sono interamente appartenenti a Gesù e si sono dati a Lui senza riserva nello stato clericale, non devono soltanto essere mortificati nella carne, nelle sue sregolatezze e nei suoi desideri, secondo la parola dell’Apostolo: Qui sunt Christi, carnem suam crucifìxerunt cum vitiis et concupiscentiis (27); ma ancora devono essere morti e sepolti con Gesù Cristo, per partecipare poi alla sua nuova vita. Anche questo esprime la veste talare. E come la crocifissione, la morte e la sepoltura precedono la risurrezione interiore, il vescovo vuol vedere un figliolo vestito della veste talare come di un lenzuolo funebre che ne ricopra tutto il corpo, che lo tenga seppellito, prima di dargli la cotta (28).

Il chierico, rivestito dalla veste talare nera, esprime la disposizione del suo spirito e il desiderio di vivere umiliato tutta la vita (29) e morto a tutto se stesso, dai piedi alla testa; non avendo più nulla in lui, né volontà, né giudizio, né passioni, come se la vecchia creatura d’Adamo morta in lui non gli lasciasse più alcun desiderio.
Un chierico deve così camminare nel mondo, portando la croce di Gesù Cristo esposta su se stesso: Crucifìgentes veterem hominem in semetipsis; di modo che nulla di carnale appaia vivente in lui. Ecco perché la veste talare è interamente chiusa e copre tutto il nostro corpo (30). È però vero che la testa non è nascosta sotto questo santo abito, come il resto del corpo; e ciò a significare che solo Gesù Cristo (31) deve apparire in noi: Viri caput Christus (32). Lo si deve vedere sulla nostra bocca: Si quis loquitur, quasi sermones Dei (33); colui che parla, dice San Pietro, deve parlare il linguaggio di Dio. Bisogna scorgere che Dio muove la sua lingua ed anima la sua parola (34). Il viso pure è scoperto, per testimoniare che il chierico deve essere, nei suoi costumi e nella sua condotta, una immagine della Divinità.
E se le mani appaiono, è perché il chierico deve far conoscere nelle sue azioni rappresentate dalle mani, che Dio opera in lui: Si quis ministrat, tamquam ex virtute quam administrat Deus(35).
Se il chierico opera, sia per potenza di Dio; sia Dio che lo muove e che gli comunica l’efficacia della sua azione; di modo che si vedano, nel suo corpo morto, le opere della vita dello spirito espresse dalle sue mani (36). II volto ben composto e la condotta di vita ben regolata, sono gli indizi ai quali riconosciamo che Dio abita nella mente e nell’anima del chierico. Modestia vestra nota sit omnibus hominibus: Dominus enim prope est. Che la vostra modestia, dice S. Paolo (37), sia conosciuta da tutti, per rispetto a Dio che vi sta vicino, e per causa dell’unione a Cristo che, risiedendo in voi, fa riflettere la sua modestia nel vostro aspetto esteriore (38).
Questo grande Dio, che ordina ogni cosa con tanta saggezza e che muove la creatura con tanto criterio, si rivela presente in un’anima per mezzo del contegno de} corpo (39). Se si riconosce la presenza di Dio nell’armonia del firmamento e nel moto dei corpi celesti, più facilmente si potrà discernere la presenza della sua maestà in un’anima che Egli guida, nel moto che Egli vi imprime (40).
Nulla resta dunque di scoperto in colui che è rivestito dell’abito talare all’infuori del viso e delle mani: questo significa che non deve più apparire in un chierico e in un prete che la vita divina, la vita di Gesù Cristo, che si rivela per mezzo delle parole e delle opere buone (41). Tutto il resto deve essere morto in lui; tutto deve essere sepolto come in una tomba (42). La vita di Dio solo, la vita della fede e della saggezza divina devono unicamente rifulgere in lui (43). E siccome la fede opera per mezzo della carità (44), le mani sono scoperte come il viso, a indicare la carità di Dio che opera in noi, e questa vita di fede che si manifesta nelle nostre azioni (45).
Quanto ai piedi, sono nascosti dalla veste talare: ciò significa la morte ai desideri ed alle affezioni terrene. I piedi, camminando, esprimono da quali sentimenti siano mossi, portandoci verso i luoghi e gli oggetti che ci piacciono (46); e siccome appunto queste affezioni e questi desideri mondani sono quelli che costituiscono la parte principale della nostra vita animale, devono essere mortificati e soffocati nei chierici, poiché essi non devono avere più che Gesù Cristo vivente nei loro spiriti, per trattenervi e comprimervi e seppellirvi la vecchia creatura (47). Tutto ciò che vi è in essi deve servire alla edificazione delle genti, e tutto, anche esteriormente, deve parlare dei misteri della nostra santa religione. La veste talare appunto annuncia al mondo il mistero della morte e sepoltura del vecchio uomo (48).
Questo abito nero dice eminentemente: – Morite a tutte le vanità del secolo (49), morite alle sue massime, al peccato, al demonio ed alla carne; morite, infine, a tutto ciò che non è Dio.
Per mezzo di questo abito che è ben differente da quello del mondo (50) il chierico rivela di aver deposti gli usi mondani, di non voler aver più rapporti col secolo, e di professare pubblicamente la sua opposizione ad ogni pompa o vanità. La semplicità, la modestia, il colore di questa santa veste proclamano tali sentimenti.
II chierico porta pure impresso sul viso. e in tutto il suo contegno il grado di mortificazione propria a cui è giunto (51).
Il suo volto è scoperto unicamente perché è l’immagine di Dio per il quale egli vive; ma siccome Dio, che è infinitamente superiore al mondo, vive in lui di una vita infinitamente sublime e al di sopra della terra, così il chierico deve avere scolpita sul viso un’espressione di grande elevazione al di sopra di tutte le creature, mostrando così quanto il mondo e tutto ciò che contiene siano sprezzabili ai suoi occhi (52).
L’ecclesiastico deve essere come cieco, in rapporto al mondo; non deve considerarne più né le bellezze né le rarità; deve essere come sordo alle sue notizie, calpestare tutte le sue pompe, condannare i suoi artifici; deve avere il cuore ben chiuso alle sue massime ed ai suoi sentimenti: in una parola, deve essere insensibile a tutto ciò che esso propone, poi che egli è ormai interiormente rivestito dell’uomo nuovo, questo uomo tutto di cielo, che più non vive sulla terra dove non trova più nulla degno di lui (53). Egli pregusta in tal modo le delizie di un altro mondo, dove Dio solo formerà la gioia, dove non apparirà più traccia di questo mondo volgare (54). Egli appartiene già a quell’altra generazione, a quell’altro mondo, più bello, più puro, mille volle più santo del presente. Egli non è più, come era nell’ordine naturale, il centro a cui converge tutta la volta del mondo, ma è il punto al quale converge tutta la Chiesa del Cielo che sopra lui riposa, che lo guarda e per il quale è stato formato tutto questo mondo superiore (55).
Bisogna dunque che noi ci consideriamo come persone fuori del mondo, viventi nel cielo (56), che conversano coi santi, che vivono nell’oblio, nell’avversione in un sovrano disdegno di tutto il mondo (57).
Bisogna che dimostriamo bene, a tutti, con la nostra condotta, vivendo e muovendoci nel mondo come Dio stesso (58), che c’è una vita molto migliore che ci aspetta nel cielo (59) dove già ci troviamo per la fede e dove già felicemente conversiamo con i santi.

 

NOTE

 
(1) Habitus religiosus Sidon., lib. 4, ep. 24. Conc. Meld. anno 845, c. 37.
(2) Quaeratur ex singulis an ritus et caeremonias, quae cum initiantur adhiberi solita sunt, noverint? an sanctiores illarum notiones? an sacrarum vestium, quibus induuntur, mysteria et significata? lnst. ad Ord. Eccl. suscip. in Eccl. Mediol. – Quaeratur quid per tonsuram significetur, quae fit in superiori capitis parte; quid per superpelliceum, quo c1erici induuntur, declaretur? Ibid. – Vestes ministrorum designant idoneitatem quae in eis requiritur ad tractandum divina. D. Thom. , Suppl, q. 40, a. 7, in corp.
(3) Etsi habitus non faciat monachum, in clerico tamen magnum indicium est, ut ait Salomon, eius quod in corde latet. Synodus Atheniens. ann 1571.
(4) Quaecumque in ecclesiasticis officiis rebus ac ornamentis consistunt, divinis plena sunt signis atque mysteriis. Dnrand. Divin. Offic. praem.
(5) Sicut accidentia multum conferunt ad cognoscendam rei ipsius quidditatem: ita habitus exterior plurimum confert ad declarandum ·morum honestatem. Synod. Venusin., anno 1589. – Haec (ornamenta) sunt virtutum insignia, quibus tanquam scripturis docentur utentes quales esse debeant. Hugo a S. Victor., Specul. Eccl., c. 6. .
(6) Considerare debet per symbola quam accipit gratiam. Sim. Thessalon., de Sacro Ordin., cap. 5.
(7) Conc. Basileens. Lateran. 5 sub Leone X, anno 1511, sess. 9: et alia passim.
(8) Nigra vestls insinuat humilitatem mentis; vile vestimentum denuntiat mundi contemptum, De modo bene vivendi, cap. 9: Op. S. Bernard., tom. 2. Omnia tanquam cinerem despielens, quasi mortuus prorsus ad mortuum immobilis permanebat. S. Chrysost., hom. 1, de laud. Pauli.
(9) Priorls vestis detractio, et alterius assumptio, slgnificat a media sancta vita ad perfeetiorem traduetionem. S. Dionys. , de Eccles. Hier., cap. 6. –Moneo te ut habitum, quem ostendis specie, impleas opere… Sanctus est habitus, sanctus sit animus. Sicut sancta sunt vestimenta, sic opera sancta sint. De modo bene vivendi, cap. 9: Op. S. Bernard., tom. 2.
(10) Caveant tam saeerdotes quam clerici, ne superpelliceo exuti clericalibus fungantur officiis. Synod. Capad. aquens, an., 1617, tit de Min. Eccl. c. 19.
(11) Ne cum superpelliceo per civitatem deambulantes vagentur. Synod. Vicens., anno 1628: tit. 13, de Vita et hon. Cleric., c. 3.
(12) Moriendum est mundo ut Deo in sempiternum vivamus. S. Aug, serm. 170, n. 9.
(13) Vestimentum amplum et longum, propter pietatem et divinam caritatem. Sim Thessalon., de Ord.
(14) Sese Deo ac Patri subjecit… et obedientiae suae odorem tanquam pro omnibus simul et singulis Deo et Patri obtulit. S. Cyril Alex., lib. 11, de Ador. in Spirit. et verit.
(15) Introivit in ipsum caelum, ut appareat nunc vultui Dei pro nobis, Hebr., 9, 24.
(16) Successori nel culto esterno e visibile, come si è detto più sopra: Sacerdotes Christi vicarios esse Christi et Christum. S. Chrysost., hom. 17, op. imp. in Matth., Suum relicturus erat eis ministerium. Id. in Joan., 20, hom. 86, al. 85 n. 2.
(17) Sicut misit me Pater, et ego mitto vos: Haec cum dixisset, insufflavit, et dixit eis: Accipite Spiritum sanctum. Joan., 22 et 23. Hac vocula sicut illos quodammodo slbi aequat, et pares efficit, scilicet proportionaliter ut suos successores et vicarios. Corn. a Lap. hic. – Sicut significat etiam similitudinem in fine: utrique enim missi sunt ad eundem finem. Id., ex S. Cyrill., lib. 12 in Joan., in ead. verb.
(18) Sacerdotes procuratores sunt apud Deum pro ejus Ecclesia. Guillel. Paris., de Sacro Ord. – Pro universo terrarum orbe deprecator est apud Deum. S. Chrysost., de Sacerd. t. 6, c. 4. – Non jura sua sed aliena allegat. Guillel. Paris., ibid.
(19) Amictus pontificis totius mundi quaedam imago fuit. Philo., de Vita Mosis., lb. 3.
(20) Portabit Aaron nomina filiorum Israel coram Domino super utrumque humerum. Exod. 28, 12. Portabit nomina filiorum Israel in rationali judictl super pectus suum quando ingredietur sanctuarium. Ibid., 29 .
(21) Est Aaron Christi figura, et Illius sacerdotii quod in spiritu et veritate intelllgitur. S. Cyr. Alex., lib. 11, de Ador. in spir. et verit.
(22) Clericatum elegistis, id est, mundo renuntiare, et cum habitu humilitatis, affectum promittere humilitatis, Ivo Carnot., serm. 2. De excell. sacro Ord. Pontif. Bibliot. Apost. exhort. ad Tonsur.
(23) Paupertatem et humlitatem profertis habitu corporis. Ibid.
(24) Sacerdotes constituti sunt per mundum, Christi narrare victorias. Petr. Dom. opusc. 18, contra Cleric. intemp. dissert. 1, c. 1.
(25) II Cor., 4, 10.
(26) Homines sacros tum interius tum exterus oportet mortificationem Jsu circumferre in suo corpore. S. Cyril. Alex., de Adorat. in spir. et verit., lib. 11. – Vestimentum talare, tam retro quam a lateribus et ante undique clausum. Conc. Basil.
(27) Gal. 5, 24.
(28) Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, id est Christo crucifixo se conformaverunt, affligendo carnem suam cum vitiis…, id est, cum peccatis; concupiscentiis, id est, passionibus quibus anima inclinatur ad peccandum. Non enim bene crucifigit carnem, qui passionibus locum non aufert, D. Thom,. in ead. verb. Ep. ad Gal., 5, 24, lect. 7.
(29) Electo, ad intimam cordis humilita!em desiderandam, humiliore cunctis coloribus nigro colore. Petr. Cluniac., statut. 16.
(30) Quia sacerdos dux et antesignanus est exercitus Domini, his titulorum insignibus jubetur adornatus incedere, seseque sequentibus ecclesiasticae militiae cuneis sanguinis et crucis Christi debet vexilla praeferre. Petr. Dam . op. 25, de Dignit. sacerdot., c. 2.
(31) Capile nudato testatur Christum sibi caput esse. Simon. Thessalon. , de Ord. Episc.
(32) I Cor., 11, 3.
(33) I Petr., 4, 11.
(34) Non enim vos estis qui loquimini, sed Spiritus Patris vestri qui loquitur in vobis. Matth., 10, 20. Vox nostra Christus est. S. Ambr., de Isaac., c. 8, n. 75.
(35) I Petr., 4, 11.
(36) Exstantes et visae manus virtutem et efficientiam Dei, in his quae operatur sacerdos, declarant.
Sim. Thessalon., de Sacro Ord.
(37) Philip., 4, 5.
(38) Ex vlsu cognoscitur vir, et ab occursu faciei cognoscitur sensatus. Eccl., 19, 26. – Nec oculus sine Dei nutu moventur. S. Basil. in Ps. 32, n. 6. –Conversemur quasi Del templa, ut Deum in nobis constet habitare. S. Cypr., de Orat. Dom., p. 207. Modestia portio Dei est. S.Ambr., de Offic., lib. 1, c. 18, n. 70. – Ubi Christus est, modestia quoque est. S. Greg. Naz., ep.193.
(39) Amictus corporis…, et ingressus hominis enuntiant de illo. Eccl., 19, 27.
(40) Caelum, eunctaque caelestia… consono ordinationis concentu, protestantur gloriam Dei, et praedicatione perpetua majestatem sui loquuntur auctoris. De Vocat. Gen., lib. 2, c. 4, inter op. S. Leon.
(41) Accipe hoc sacrum indumentum, quo cognoscaris mundum contempsisse, et te Christo perpetuo subdidisse, Frederìc. Archiep., Institut. ad Ord.. suscip. in EccI. Mediol. tit. 1. Forma esse debemus caeteris, non solum in opere scd etiam in sermone. S. Ambr., de Offic., lib. 2, cap.19, n. 96.
(42) Nos oportet non solum carnalibus vitiis, verum etiam ipsis elementis mortuos esse.Cassian.. Inst., lib. 4, cap. 35.
(43) Quod nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei. Gal., 2, 20.
(44) Fides quae per caritatem operatur. Gal., 5, 6.
(45) Vita justitiae est per Deum habitantem in nobis bis per fidem… Et intelligendum est de fide per dilectionem operante. D. Thom. in cap. 3 Ep. ad Gal., lect. 4.
(46) Humani affectus quasi pedes sunt. S. Aug. tract. 56 in Joan, n. 44. Pedes nostri affectus nostri sunt. Prout quisque affectum et amorem habuerit, ita accedit vel recedit a Deo. Id. in Ps.94, n. 2.
(47) Signum crucis (impressum in ordinatione) designat omnium simul cupiditatum cessationem, divinaeque vitae imitationem. S. Dionys., de EccI. Hier., cap. 5. Contempl. § 4.
(48) In eos tanquam in speculum reliqui oculos conjiciunt; ex iisque sumunt quod imitentur. Quaporpter sic decet omnino clericos…, vitam moresque suos omnes componere, ut habitu, gestu, incessu, sermone, aliisque omnibus rebus, nil nisi grave, moderatum, ac religione plenum prae se ferant. Conc. Trid., sess. 32, cap . 1 de Reform.
(49) Nolite conformari huic saeculo. Rom., 12, 2.
(50) Vestis nigra humilitatis et religiosae vitae symbolum est. Sim. Thessalon., lib. de sacris Ordin., cap. 2, de Ritu ordinat. Lector.
(51) Mortuum nobis hunc mundum deputantes, nos quoqne ipsi huic mundo moriamur, et dicamus quod Apostolus ait: Mihi mundus crucifixus est, et ego mundo. S. Aug., de Trinit., lib.2, cap. 17, n. 28.
(52) Eo usque mente secedat et avolet, ut et hunc communem transcendat usum et consuetudinem cogitandi. S. Bernard. in Cant., serm. 52, n. 4.
(53) Quaemadmodum qui inflammattus est ac febri laborat, quemcumnque ei offeras cibum aut potum quamvis suavissmum abominatur ac renuit; sic qui Spiritus Sancti atque Christi caelesti desiderio sunt accensi, et amore dilectionis Dei in anima sauciati, omnia quae sunt in hoc saeculo praeclara et pretiosa repudianda et odio digna reputant. S. Macar., hom. 9. –Quid agis in saeculo, qui major es mundo? S. Hieron., ep. 3, ad Heliod.
(54) Deus ipsi sibi et mundus, et locus, et omnia. Tertull., lib. contra Prax., c. 5. Nihil nobis sit commune cum saeculo. S. Chrysost., hom. 5, in Epist. ad Tit. , cap. 2, n. 1.
(55) Respice universum mundum istum, et considera si in eo aliquid sit quod tibi non serviat. Omnis creatura ad hunc finem cursum suum dirigit, ut obsequiis tuis famuletur, ut utilitati deserviat. Hoc caelum, hoc terra, hoc aër, hoc maria. Append. S. Aug. tom. 6, de Dilig. Deo, c. 4.
(56) De mundo non estis, sed ego elegi vos de mundo. Joan. 15, 19. –Nostra conversatio in caelis est. Philip. 3, 20.
(57) Non solurn non se immisceat circa saeculari negotia, sed nec cogitet de mundo. S. Crysost. hom. 15, op. imp. in Matth.
(58) In hoc positi sunt, ut Deum repraesentent. D. Thom., Suppl. q. 34, a. 1.
(59) Cognoscentes vos habere meliorem el manentem substantiam. Hebr., 10, 34.

Summorum Pontificum: una speranza per tutta la Chiesa!

di Cristina Siccardi

Che cosa sono lex orandi e lex credendi se non un patrimonio antico che riceviamo oggi per mantenerlo sempre giovane nella sua eternità? La Tradizione è un retaggio sempre presente, senza età, come lo è Dio. La Tradizione della Chiesa è oro e l’oro non può subire evoluzioni o alterazioni, altrimenti  non sarebbe più se stesso; l’unico procedimento indicato per l’oro è la lucidatura, per ravvivarne il colore e la brillantezza, questo l’unico “sviluppo” nel presente della Tradizione.

Ecco allora che il Cardinale Walter Brandmüller ricorda ai contemporanei le parole del Cardinale John Henry Newman nella sua prefazione al volume Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Una speranza per tutta la Chiesa, a cura di Padre Vincenzo Nuara O.P. (Fede & Cultura, pp. 170, € 13.00): «Un vero sviluppo, dunque, può essere descritto come quello che conserva l’insieme degli sviluppi precedenti, coincidendo realmente con essi ed essendo qualcosa al di là di essi. Le aggiunte che vi apporta illuminano, non oscurano, corroborano, non correggono il corpo di pensiero da cui nascono e questa è la sua caratteristica vista in contrasto di una corruzione» (p. 6).

Vera mirabilia della Tradizione della Chiesa è la Santa Messa in Vetus Ordo, quella anteriore alla riforma liturgica post Concilio Vaticano II. In realtà è più corretto chiamarla Santa Messa di sempre poiché, come scrive Madre Francesca dell’Immacolata delle Francescane dell’Immacolata, «se è vero che papa San Pio V promulgò un Messale a seguito del Concilio di Trento, in realtà non fece altro che fissare e circoscrivere sapientemente un rito già in uso a Roma da secoli. Esso risaliva, nei suoi elementi essenziali, almeno a mille anni prima, precisamente a papa San Gregorio Magno. Da quest’ultimo Pontefice viene anche il nome, più corretto ma non esauriente, di rito gregoriano. Non esauriente perché da San Gregorio  Magno (…) il rito risale ai tempi apostolici per riannodarsi infine all’Ultima Cena e al sacrificio cruento di Nostro Signore Gesù Cristo di cui ogni Messa è costante ripresentazione e incruenta attualizzazione» (p. 93).

La Sacra Liturgia non è mai stata e né potrà mai essere, ha affermato Madre Francesca nel suo intervento al terzo Convegno organizzato dall’Associazione Giovani e Tradizione ‒ ora ripreso, insieme ad altri interventi, nel saggio curato da Padre Nuara ‒ l’espressione dei sentimenti che il fedele prova per Dio. «Essa è invece l’adempimento da parte del fedele di un suo dovere nei confronti di Dio, ch’egli deve esprimere conformemente agli stessi insegnamenti divini. È il cosiddetto ius divinum, ossia il diritto di Dio a essere adorato come Egli ha stabilito» (p. 95).

Di fronte alla Santa Messa di sempre l’atteggiamento sia del Sacerdote che del fedele è oggettivamente diverso rispetto alla nuova Liturgia, come ha scritto il Cardinale Ratzinger, oggi Papa emerito: «viene addirittura concepita etsi Deus non daretur: come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella Liturgia non appare più la comunione della fede, l’unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov’è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena» (p. 94).

Lo svilimento della Santa Messa è avvenuto anche attraverso la desacralizzazione della lingua utilizzata. Nel suo intervento al Convegno il professor Roberto de Mattei ha dimostrato come il latino non è la lingua anacronistica, che ha accompagnato la Chiesa solo in una determinata epoca storica, ma è la lingua universale e perenne della Chiesa e «in questo senso, malgrado il suo attuale oscuramento, appartiene non solo al passato, ma anche al presente e al futuro della Chiesa stessa. Così la definì San Pio X: “La lingua latina a buon diritto viene detta ed è la lingua propria della Chiesa”» (pp. 136-137).

da www.corrispondenzaromana.it

Il Primato di Pietro

Negli ultimi cent’anni, pochi passi del Vangelo sono stati oggetto di discussioni tanto veementi e appassionate, poiché, secondo quanto pretendono alcuni, la formulazione attuale non corrisponderebbe all’originale scritto da Matteo, ma si tratterrebbe di un testo manipolato intorno all’anno 130 per giustificare il primato di Pietro e dei suoi successori sui suoi fratelli nell’episcopato.

Invece, per secoli nessuno aveva messo in dubbio l’autenticità di questo passo. È stato necessario aspettare l’infiltrazione del razionalismo nell’esegesi biblica nel secolo XIX e lo storicismo protestante del secolo XX, perché cominciassero i tentativi di squalificarla.

Di particolare importanza per il tema che ci riguarda è la storia dei primi secoli della Chiesa, perché si scontra frontalmente con la gratuita supposizione che il primato di giurisdizione universale del Romano Pontefice sia stato un’invenzione posteriore rispetto ai tempi apostolici.

Ora, già nella lettera inviata da Papa San Clemente ai fedeli di Corinto, a proposito della ribellione avvenuta in questa comunità intorno all’anno 96, è evidente il primato romano. Infatti, in essa il Pontefice non chiede scusa per essersi immischiato nelle questioni interne di un’altra Chiesa – come sarebbe normale, nel caso fosse un semplice primus inter pares, capo di un’altra Chiesa sorella -, bensì per non avere avuto l’opportunità di intervenire nella questione con più rapidità; avverte che chiunque non obbedirà ai suoi ammonimenti correrà il pericolo di commettere peccato grave e si mostra convinto che la sua attitudine è ispirata dallo Spirito Santo. D’altra parte, la lettera fu accolta a Corinto senza resistenze e considerata come un grande onore, al punto che sempre nell’anno 170, secondo testimoni, era letta nella liturgia domenicale.

Sant’Ignazio di Antiochia nella lettera ai Romani. Il suo saluto iniziale alla chiesa di Roma è assai diverso da quello rivolto alle altre chiese: essa non è soltanto “la chiesa amata e illuminata per volontà di colui che ha voluto tutte le cose che sono secondo la carità di Cristo”; è ancora la chiesa “che presiede nel luogo della regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, degna di beatitudine, degna di lode, bene ordinata, casta e che presiede alla carità, avendo la legge di Cristo e il nome del Padre”. Gli studiosi si sono impegnati a decifrare soprattutto le espressioni: “presiede nel luogo della regione dei Romani”, e “presiede alla carità”. Chi ci vede affermata una preminenza solo morale, dovuta alla generosa attività caritativa di quella chiesa, e chi un riconoscimento della sua autorità. E’ uno dei tanti testi, concernenti il nostro tema, che difficilmente si possono leggere senza farsi influenzare dalle proprie convinzioni previe. E’ interessante comunque notare da un lato il rispetto manifestato da Ignazio verso la Chiesa di Roma, alla quale non osa dare ordini, perché essa li ha ricevuti dagli Apostoli Pietro e Paolo (IV,3) e essa stessa ha insegnato e comandato agli altri (III,1), dall’altro il suo assoluto silenzio circa la presenza di un vescovo a Roma, mentre l’accenno non manca nelle sue lettere dirette alle chiese dell’Asia minore. A Roma in questo tempo non era ancora avvenuto il passaggio dal collegio dei presbiteri all’episcopato monarchico nella direzione della chiesa, anche se Clemente, l’autore della lettera, doveva ricoprire un ruolo eminente.”

La posizione di preminenza della chiesa romana nel II sec. è testimoniata anche dal gran numero di cristiani, ortodossi e eretici, che vi accorrono: il martire Giustino vi istituì una scuola di filosofia; Policarpo, vescovo di Smirne, martirizzato nel 167, vi venne a consultare il papa Aniceto sulla questione della Pasqua[1]; il giudeo-cristiano Egesippo vi dimorò a lungo allo scopo di stabilire l’ordine della successione apostolica dall’inizio fino al papa Eleuterio[2]. Soprattutto le visite di questi ultimi mostrano che la preminenza della chiesa romana non era legata tanto al fatto di essere nella capitale dell’impero, quanto a motivi religiosi. Ciò appare confermato dalle testimonianze di diversi autori del II secolo, riferite da Eusebio di Cesarea: sia Papia di Gerapoli che Clemente Alessandrino nei loro scritti avrebbero parlato della predicazione romana di Pietro, associandogli l’evangelista Marco[3]; Dionigi di Corinto verso il 170 avrebbe attestato la missione apostolica e il martirio sia di Pietro che di Paolo a Roma[4]; il presbitero romano Gaio, nei primi anni del III secolo, si diceva in grado di mostrare sul colle Vaticano e sulla via Ostiense le tombe dei due Apostoli, “che hanno fondato questa chiesa”[5]. La preminenza della chiesa di Roma nel II sec., insomma, appare legata non tanto a fattori politici, quanto al ricordo della dimora, dell’insegnamento e del martirio di Pietro e di Paolo nella città.

Ireneo e Tertulliano sugli stessi motivi insistono anche teologi importanti come Ireneo e Tertulliano, quando, per combattere gli gnostici, sono costretti ad appellarsi alla regola della fede, trasmessa dalla tradizione apostolica, fedelmente conservata a Roma attraverso la successione apostolica. Grande rilievo assume la posizione di Ireneo, vescovo di Lione nella seconda metà del II sec., ma originario dell’Asia minore. Egli indica nella comunione con la chiesa di Roma il criterio sicuro per conoscere l’autentica regola della fede, trasmessa dalla tradizione apostolica; e per dimostrare la ininterrotta successione dei vescovi romani dagli apostoli Pietro e Paolo, ne riferisce la lista completa. Egli è convinto che la Chiesa di Roma “è la chiesa più grande e più antica, conosciuta da tutti e stabilita a Roma dai due gloriosi apostoli Pietro e Paolo… Pertanto a questa chiesa propter potentiorem principalitatem deve convergere ogni altra chiesa, cioè i fedeli che sono dovunque, perché in essa è stata sempre custodita la tradizione che viene dagli Apostoli da coloro che sono dovunque”. Potentior principalitas non pare che voglia dire una più potente autorità, quanto piuttosto una più alta origine. Anche così, il discorso di Ireneo non lascia dubbi: riconosce il ruolo preminente della chiesa di Roma nell’accertamento della fede e della comunione cattolica.

Sant’ Ambrogio non solo fu un baluardo a difesa della fede cattolica contro l’eresia ariana, ma si adoperò a difendere anche il Vescovo di Roma, Papa Damaso contro l’antipapa Ursino. Egli così riconosceva la funzione ed il primato del Vescovo della Città Eterna (in quanto successore di Pietro) come centro e segno di unità per tutti i cristiani.
È a lui che si deve la famosa frase che recita: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa), e l’altra: “In omnibus cupio sequi Ecclesiam Romanam” e cioè “In tutto voglio seguire la Chiesa Romana” quasi un’attestazione del primato della Chiesa di Roma, sul quale la discussione andrà avanti per secoli e, come si sa, non è ancora finita.
Per i suoi molteplici scritti teologici e scritturistici è uno dei quattro grandi dottori della Chiesa d’Occidente, insieme a Gerolamo, Agostino e Gregorio Magno.
“Dunque, egli che prima taceva per insegnarci che di quel che dicono gli empi non si deve ripetere neanche una parola, quando si sentí domandare: Ma voi chi dite che io sia?, subito, ben consapevole della sua autorità, esercitò il primato: un primato di confessione e non di onore, un primato di fede e non di rango. Vale a dire: ‘Ora nessuno deve vincermi. Debbo riscattare il mio silenzio, il mio silenzio deve essere utile. La mia lingua non ha spine, la professione di fede deve uscire senza impedimento. Mentre gli altri vomitano il fango dell’empietà, pur ripetendo con le loro labbra affermazioni altrui, dicendo che Cristo è Elia o Geremia o uno dei profeti – e queste parole sono ricoperte di fango e cosparse di spine -; mentre alcuni detergono questo fango e in altri si strappano queste spine, la nostra voce faccia riecheggiare che ‘ Cristo è Figlio di Dio’. Le mie parole sono pure e nessuna espressione di empietà vi ha lasciato spine.
Sant’Ambrogio, Il mistero dell’incarnazione del Signore, IV, 32

“Tale è Pietro che rispose davanti agli altri, anzi per gli altri. E viene denominato fondamento perché sa custodire un bene che non è soltanto suo proprio ma di tutti. Cristo confermò la sua testimonianza e ‘glielo rivelò il Padre’. Chi esprime la vera generazione del Padre non può averla appresa dalla carne, ma deve averla appresa dal Padre. Dunque il fondamento della Chiesa è la fede. Non della carne di Pietro ma della sua fede è stato detto che ‘le porte della morte non prevarranno su di lui’: è la sua professione di fede che ha vinto l’inferno. E questa professione di fede non ha allontanato una eresia soltanto. Infatti, sebbene la Chiesa come una solida nave sia continuamente colpita da molti flutti, il fondamento della Chiesa deve prevalere contro tutte le eresie.”
Sant’Ambrogio, Il mistero dell’incarnazione del Signore, IV, 33

Per capire bene ciò che pensava Sant’Ambrogio sul primato di Pietro, bisogna leggere anche altri testi di lui che parlano di San Pietro:

“Tu dunque, o uomo, sei un pesce. Senti qui perché sei un pesce: ‘Il Regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che ha raccolto ogni genere di pesci; e quando è piena, la si tira alla spiaggia, ci si siede e si fa la raccolta dei buoni in ceste, e i cattivi si gettano via. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi di mezzo ai buoni, e li getteranno nella fornace accesa’. Ci sono dunque pesci buoni e pesci cattivi, i buoni sono riservati al premio, i cattivi vengono subito bruciati. Ma un buon pesce, le reti non lo avviluppano, bensì lo sollevano in alto, né l’amo ne fa strage ma lo irrora col sangue sgorgato da una preziosa ferita: e in bocca gli si trova la buona valuta della fede, con cui pagare le tasse degli apostoli e il tributo di Cristo. Così infatti sta scritto, quando il Signore disse: ‘I re di questa terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli, o dagli altri?’ E avendo risposto Pietro: ‘Dagli altri’, il Signore continuò: ‘Va’ al mare, getta l’amo, e il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca, e vi troverai uno statere. Prendilo, e dàllo a loro per me e per te’.
Tu dunque, che sei un buon pesce, non temere l’amo di Pietro: esso non stermina, ma santifica. Non ti credere senza valore, vedendo che il tuo corpo è debole. In bocca hai da chi pagare sia per Pietro, sia per Cristo. Non temere le reti di Pietro, a cui Gesù disse: ‘Prendi il largo e cala le reti’; egli non getta a sinistra, ma a destra, come glie lo ha ordinato Cristo. Non temere le ampie maglie, poiché gli è stato detto: ‘Da questo momento darai la vita agli uomini’. Per questo egli gettò la rete, e prese Stefano, che fu il primo a venire a galla dal Vangelo con lo statere della giustizia in bocca.”
Sant’Ambrogio, Exameron, 6,15-16

“Al suo segnale, si rianima il navigante, si placano le infide onde del mare, al suo canto, anche la Pietra della Chiesa lava nel pianto.”
Sant’Ambrogio, Inni I, 4.

“Io bramo seguire in ogni cosa la Chiesa di Roma; però anche noi abbiamo il nostro modo di pensare, come tutti gli uomini: quindi ciò che altrove si osserva con buone ragioni, anche noi, con buone ragioni, lo teniamo in vigore.
Io non faccio che seguire l’apostolo Pietro, sto fedelmente attaccato alla sua pietà. Che cosa può rispondere su questo punto la Chiesa di Roma? Colui che ci ispira questo atteggiamento è proprio l’apostolo Pietro, il quale fu il vescovo della Chiesa di Roma, Pietro in persona, quando disse: ‘Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e la testa!’ Vedi quale fede! Se prima oppose un rifiuto, fu per umiltà, ma che in seguito abbia offerto se stesso, fu per devozione e per fede.”
Sant’Ambrogio, I sacramenti III, 5-6

Come possiamo vedere, tutto questo è in piena armonia con quello che dice la Chiesa Cattolica:

San Pietro ha il primato a causa della fede da lui confessata, ma rimane comunque il primo degli apostoli, il governatore della Chiesa di Cristo, il pastore della Chiesa di Cristo.

“Nel collegio dei Dodici Simon Pietro occupa il primo posto [Cf Mc 3,16; Mc 9,2; Lc 24,34; 552 1Cor 15,5 ]. Gesù a lui ha affidato una missione unica. Grazie ad una rivelazione concessagli dal Padre, Pietro aveva confessato: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Nostro Signore allora gli aveva detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18). Cristo, “Pietra viva” (1Pt 2,4), assicura alla sua Chiesa fondata su Pietro la vittoria sulle potenze di morte. Pietro, a causa della fede da lui confessata, resterà la roccia incrollabile della Chiesa. Avrà la missione di custodire la fede nella sua integrità e di confermare i suoi fratelli [Cf Lc 22,32 ].”
Catechismo della Chiesa Cattolica, Numerale 552

“Gesù ha conferito a Pietro un potere specifico: “A te darò le chiavi del Regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). Il “potere delle chiavi” designa l’autorità per governare la casa di Dio, che è la Chiesa. Gesù, “il Buon Pastore” (Gv 10,11) ha confermato questo incarico dopo la Risurrezione: “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21,15-17). Il potere di “legare e sciogliere” indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina, e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesù ha conferito tale autorità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli [Cf Mt 18,18 ] e particolarmente di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno.”
Catechismo della Chiesa Cattolica, Numerale 553

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S. Agostino († 430) «Il salvatore dice: tu sei Pietro e su questa pietra che tu hai confessata, su questa Pietra che tu hai riconosciuta esclamando tu sei il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente, io edificherò la mia chiesa, vale a dire su me stesso, che sono il figlio dell’Iddio vivente» (Serm. 76; vedere anche Ser. 124, trattato su Giovanni) : non si può prendere questa frase tralasciando quello che viene detto immediatamente dopo “Edificherò te su di me, non me sopra di te” e anche quanto Agostino dice di lì a un minuto quando parla esplicitamente di primato di Pietro.
“DISCORSO 76
Di NUOVO SUL VANGELO DI MT 14, 24-33: SUL SIGNORE CHE CAMMINAVA SULLE ACQUE DEL
MARE E SUL TIMORE DI PIETRO : il brano del Vangelo ci racconta come Cristo Signore camminò sulle acque del mare e come l’apostolo Pietro camminando sull’acqua ebbe paura e tentennò e, poiché non aveva fede, stava affondando ma poi, riconoscendo la propria debolezza, venne di nuovo a galla; questo brano ci suggerisce che il mare è la vita presente e che l’apostolo Pietro invece è la figura dell’unica Chiesa. Lo stesso Pietro infatti, ch’è il primo nella serie degli Apostoli e assai ardente nell’amore per il Cristo, è spesso lui il solo che risponde per tutti gli altri.
Infine quando il Signore Gesù Cristo domandò ai discepoli chi la gente pensasse che egli fosse e i discepoli avevano riferito le diverse opinioni della gente, avendo il Signore chiesto di nuovo e avendo detto: Ma voi chi dite che sono io? fu proprio Pietro che rispose: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Diede la risposta uno solo per molti, l’unità che tiene uniti molti.
Allora il Signore gli disse: Beato te, Simone, figlio di Giona, poiché questa verità non te l’ha rivelata né la carne né il sangue, ma il Padre mio celeste. Poi soggiunse: E io ti dico. Come se avesse voluto dire: «Poiché tu mi hai detto: Tu sei il Cristo, il Figlio dei Dio vivente, anch’io ti dico; Tu sei Pietro». Prima infatti si chiamava Simone. Questo nome di Pietro gli fu posto dal Signore e questo nome aveva un significato simbolico, quello cioè di rappresentare la Chiesa. La pietra infatti era Cristo, Pietro era il popolo cristiano. Poiché «pietra» è il nome primitivo; Pietro quindi deriva da «pietra», non pietra da «Pietro», come il nome di Cristo non deriva da «Cristiano», ma è il nome di «Cristiano» che deriva da Cristo. Tu, dice dunque, sei Pietro e su questa pietra che tu hai riconosciuta pubblicamente, su questa pietra che tu hai riconosciuta come vera, dicendo: Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivente, io edificherò la mia Chiesa’, cioè sopra me stesso, Figlio del Dio vivente, io edificherò la mia Chiesa- Edificherò te su di me, non me sopra di te.
In verità alcuni, i quali volevano che la Chiesa fosse edificata sugli uomini, andavano dicendo: Io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; io al contrario sono di Cefa, cioè di Pietro. Altri però, che non volevano che la Chiesa fosse edificata su Pietro, ma sulla pietra, affermavano: Io invece sono di Cristo. L’apostolo Paolo quindi, quando venne a sapere ch’era preferito lui e Cristo veniva disprezzato: Può forse – disse – essere diviso Cristo? E’ stato forse crocifisso per voi Paolo? Siete forse stati battezzati nel nome di Paolo? Come nessuno era battezzato nel nome di Paolo, cosi neppure nel nome di Pietro, ma tutti nel nome di Cristo; in tal modo Pietro veniva edificato sulla pietra, non già la pietra su Pietro.
Il medesimo Pietro dunque, cosi chiamato dalla « pietra », proclamato beato, lui ch’era figura della Chiesa, che aveva il primato sugli Apostoli, immediatamente dopo aver sentito ch’era beato, ch’era Pietro, che doveva essere edificato sulla pietra, avendo sentito che il Signore avrebbe sofferto la passione, poiché aveva preannunciato ai suoi discepoli che sarebbe sopravvenuta presto, ne provò dispiacere. Ebbe paura di perdere il Cristo che andava incontro alla morte, ch’egli aveva dichiarato sorgente della vita. Rimase sconvolto e disse: « Dio non voglia, Signore. No, questo non avverrà mai Abbi misericordia di te stesso, o Dio; non voglio che tu muoia ». Pietro diceva a Cristo: « Non voglio che tu muoia », ma meglio diceva Cristo: «Io voglio morire per te»”.

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Questo dice il testo di San Cipriano:

“Il Signore disse a Pietro: ‘Io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non la vinceranno. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli’. Il Signore edifica la sua Chiesa sopra uno solo…***
San Cipriano, L’unità della Chiesa Cattolica, IV

*** Esistono due testi di questo brano: il Textus Receptus: T. R.; il Textus Primatus: T. P. Quest’ultimo sarebbe favorevole al primato con le “addizioni”, sulle quali però Hertel richiamò l’attenzione degli studiosi. Dopo un primo rifiuto, queste addizioni furono oggetto di nuovo studio da parte del Chapman. Secondo lo studioso sarebbero state introdotte dallo stesso Cipriano in una riedizione del suo trattato. Per D. van Eynde, O. Perler e M. Bévenot il testo T. P. sarebbe la prima stesura di questo capitolo quarto, modificata successivamente secondo la stesura del T. R. Secondo Moyne solo il T. P. sarebbe autentico. Demoustier, sostiene che i due testi concorderebbero a proposito del primato.***

T. R.

“….anche se dopo la resurrezione egli conferisce un’eguale potestà a tutti gli apostoli con le parole: ‘Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi; saranno ritenuti a chi non li riterrete’, tuttavia per evidenziare l’unità dispose di sua autorità che l’origine della medesima procedesse da uno solo. Certamente anche gli apostoli erano ciò che era Pietro: erano insigniti di un’eguale partecipazione, sia di onore che di potere; ma l’origine viene dall’unità, affinché la Chiesa di Cristo si manifesti una sola.”
San Cipriano, L’unità della Chiesa Cattolica, IV

T. P.

“…Dopo la resurrezione gli dice: ‘Pasci le mie pecore’. Sopra uno solo edifica la Chiesa e a lui comanda di pascere le sue pecore. E benché dia a tutti gli apostoli un’eguale potestà, tuttaviacostituisce una sola cattedra e stabilisce con l’autorità della sua parola l’origine dell’unità.
Anche gli altri erano certamente ciò che era Pietro, ma il primato fu dato a Pietro di modo che si mostrasse una la Chiesa e una la cattedra. Tutti sono pastori, però il gregge è uno solo, poiché tutti gli apostoli lo pascolano con accordo unanime.
Chi non conserverà questa unità raccomandata anche da Paolo penserà forse di conservare la fede? Chi abbandonerà la cattedra di Pietro sulla quale è fondata la Chiesa penserà di essere ancora nella Chiesa?”
San Cipriano, L’unità della Chiesa Cattolica, IV

Comunque abbiamo altri testi di San Cipriano riguardo al primato di Pietro.

“Non si tratta qui di accettare per diritto di prescrizione una consuetudine; bisogna invece vincere attraverso la ragione. Infatti Pietro, che il Signore ha eletto per primo e sul quale ha edificato la sua Chiesa, durante quel sissenso che ha avuto con Paolo a proposito della circoncisione, non si è rivendicato qualche diritto con insolenza e orgoglio. No ha premesso di possedere il primato, non ha detto che sia i nuovi che i meno anziani devono obbedirgli. Non ha disprezzato Paolo, perché era stato prima persecutore della Chiesa, ma ha accettato il consiglio che proveniva dalla verità e con facilità ha dato il suo assenso alle legittime motivazioni che Paolo portava.”

San Cipriano, Epistola 71,3

– GIUSTINO MARTIRE (+165) scrive: “Uno dei discepoli, che prima si chiamava Simone, conobbe, per rivelazione del Padre, che Gesù Cristo è Figlio di Dio. Per questo, egli ricevette il nome di Pietro. L’affermazione di Gesù e il mutamento del nome sono quindi collegate alla confessione di fede di Pietro” ( è vero che è la piu’ antica interpretazione , ma poi contraddetta), come fu contraddetta l’afffermazione di San Girolamo sui libri deuterocanonici: ricordiamo che lo stesso San girolamo riconosce il primato di Pietro.

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ORIGENE:
“Ma se ritieni che solamente su quel Pietro Dio edifichi tutta quanta la Chiesa, cosa dirai allora di Giovanni, il figlio del tuono (15) o di ciascuno degli apostoli? Ma veramente oseremo asserire che le porte degli inferi non prevarranno su quel Pietro in particolare, mentre prevarranno sugli altri apostoli e sui perfetti? Non è che la suddetta promessa: le porte degli inferi non prevarranno su di essa e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, viene fatta in rapporto a tutti e ad ognuno di loro? (16). Dunque le chiavi del regno dei cieli sono consegnate da Cristo al solo Pietro, e nessun altro dei beati le riceverà? Ma se la promessa: a te darò le chiavi del regno dei cieli è comune ad altri, come non lo saranno tutte le parole precedenti e conseguenti rivolte a Pietro…? In realtà, qui sembrano rivolte a Pietro le parole: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, ecc. (17); ma nel Vangelo di Giovanni, il Salvatore è ai discepoli che dà lo Spirito Santo, col suo alitare, e dice: Ricevete lo Spirito Santo, ecc.

Orbene, molti diranno al Salvatore: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente 11, ma non tutti quelli che lo asseriscono glielo diranno per averlo appreso da una rivelazione della carne e del sangue, ma per aver lo stesso Padre che è nei cieli rimosso il velo posto sopra il loro cuore 12, affinché dopo ciò, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore 13, parlino nello Spirito di Dio, dicendo di lui: Gesù è il Signore 1 4 e dicendo a lui: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (18). E se uno dice a lui questo, non perché glielo abbiano rivelato la carne e il sangue, ma il Padre che è nei cieli, riceverà dette promesse, come dice certo la lettera del Vangelo a quel Pietro, ma come insegna anche lo spirito del Vangelo a chiunque sia divenuto come quel Pietro.

Infatti, lo stesso nome di «pietra» hanno tutti gli imitatori di Cristo, pietra spirituale che seguiva coloro che erano salvati, affinché ne attingessero la bevanda spirituale (19). Costoro dunque, come il Cristo, prendono lo stesso nome dalla pietra, ma essendo anche membra di Cristo 15 si chiamarono «Cristi» derivando da lui questo nome, e si chiamarono «Pietri» dalla pietra. Prendendo spunto da ciò, dirai che i giusti hanno questo nome da Cristo-Giustizia, e i sapienti da Cristo-Sapienza (20). E così, per tutti gli altri suoi titoli assegnerai rispettivi nomi ai santi: a tutti loro potrebbero essere rivolte le parole dette dal Salvatore: Tu sei Pietro, e così via fino a: non prevarranno contro di essa (21).
Origene, Commento a Matteo, Libro XII, Cap. 11

Origene non era contro il primato di Pietro, già che lui stesso dice questo:

“Ma chi è cosí beato da essere libero dal peso delle tentazioni che nessun pensiero ambiguo sorprenda la sua anima? Vedi che cosa dice il Signore a quel grande fondamento della Chiesa e pietra solidissima, sopra la quale il Cristo fondò la Chiesa: ‘O uomo di poca fede, perché hai dubitato?’.”
Origene, Omelie sull’Esodo, V, 4
Origene, come altri padri della Chiesa, considerava a San Pietro come la pietra della Chiesa, ma allo stesso tempo, come facciamo anche noi oggi, considerava che la base della Chiesa è la fede in Cristo.

TERTULLIANO
Dunque, ‘in principio Dio creò il cielo e la terra’. Adoro la pienezza della Scrittura, con la quale vengono manifestati il creatore e la sua opera. Nel Vangelo invece scopro, come ulteriore rivelazione, che il Verbo è il ministro e l’ordinatore del creatore, ma non ho ancora letto in alcun passo se l’universo sia stato creato da una qualche materia soggiacente: ché, se questo è scritto, lo insegni la bottega di Ermogene, ma se non è scritto, abbia timore di quel ‘guai’, destinato a coloro che fanno aggiunte o sottrazioni alla Scrittura”
Tertulliano, Contro Ermogene, Cap XXII, 3
La citazione esiste. Praticamente Tertulliano sta dicendo che quello che dice Ermogene non si trova nella scrittura, e fa una allussione a Apocalisse 22,18-19, per confutare meglio, chiaramente si sta parlando di scrittura e non di tradizione. Comunque, bisogna guardare anche altri testi di Tertulliano per vedere se era contro la tradizione apostolica o no.

Ma poi, se vi siano eresie, le quali abbiano l’ardire di sostenere che esse sono strettamente congiunte alla purezza e all’integrità dell’Epoca Apostolica, così da voler quasi dimostrare che derivano in certo modo dagli Apostoli direttamente, perchè all’età loro fiorirono, noi possiamo risponder così: ci dimostrino chiaramente le origini, dunque, delle Chiese loro; ce lo dichiarino in quale ordine si siano susseguiti i vescovi loro, cominciando dall’inizio e venendo giù ordinatamente nel tempo, in modo che quel primo vescovo possa a sua volta riconoscere come predecessore e sostenitore qualcuno degli Apostoli o di quei primi uomini apostolici che cogli Apostoli ebbero assoluta comunione di vita e di fede. È proprio seguendo questo sistema che le Chiese Apostoliche spiegano e dichiarano la loro vita, la loro gloria. Ecco che la Chiesa di Smirne afferma che fu Giovanni a porre a suo capo Policarpo, e la Chiesa di Roma riconosce che Clemente fu ordinato da Pietro. E così continuando, tutte le altre Chiese fanno ricordo dei loro vescovi, che posti in tal grado direttamente dagli Apostoli, rappresentano la semente prima, apostolica, di quella che fu poi la fioritura. Anche gli eretici possono forse portare qualcosa che stia a confronto colle nostre affermazioni? Ci si provino! Che c’è di non lecito per loro, dal momento che han potuto e saputo pronunziare parole piene di menzona?Tertulliano, Praescriptione Haereticorum, Cap XXXII “Le cose stanno dunque così: che noi possediamo la verità; che essa deve a noi proprio venire aggiudicata; a noi, che avanziamo, ognuno, sicuri in questa nostra regola, che le Chiese riceverono dagli Apostoli, gli Apostoli a lor volta attinsero dalla voce di Cristo, Cristo, da Dio. È chiaro ed evidente dunque che noi abbiamo pieno il diritto di non riconoscere agli eretici la facoltà di discussione e d’esame delle Scritture Sacre; sono proprio loro che noi possiamo benissimo convincere, senza appoggiarsi affatto all’aiuto dei Libri Sacri, che su di questi non possono vantare diritto alcuno.”Tertulliano, Praescriptione Haereticorum, Cap XXXVII È da qui, da ogni considerazione esposta, che noi facciamo movere la nostra prescrizione contro gli eretici. È pure vero che Gesù Cristo inviasse gli Apostoli a predicare la sua dottrina (68). Ebbene: noi non dobbiamo accettare altri, all’ infuori di loro, come divulgatori di essa.Chi può conoscere il Padre se non il Figlio Suo e quelli a cui il Figlio lo rivelò (69)? E sembra chea nessun altro, se non agli Apostoli, il Figlio abbia rivelato i! Padre Suo. Ad essi poi dètte l’incarico della predicazione e di divulgare, s’intende, ciò che era stato loro manifestato.Ciò che essi, dunque, bandiscono alle genti, è quello che Cristo rivelò all’intelligenza loro; ed è da questo punto anche che noi possiamo alzare il nostro grido di prescrizione, in quanto non deve esser possibile conoscere la verità della dottrina di Cristo, se non ricorrendo alle Chiese che gli Apostoli fondarono e dove essi ammaestrarono i fedeli, sia colla voce viva ed ardente, sia rivolgendosi poi con lettere alle genti.Se dunque le cose stanno esattamente così ne risulta cheogni dottrina, la quale si accordi ai principi di quelle Chiese Apostoliche Madri, sorgenti di ogni fede più pura, si deve riconoscere come veritiera: essa contiene in sè, senza dubbio alcuno, ciò che le Chiese attinsero dal labbro degli Apostoli, ciò che a loro volta gii Apostoli colsero dalle labbra di Gesù, ciò che infine Gesù attinse da Dio. E si può affermare, senz’ altro, falsa ogni dottrina che si schieri contro la verità della Chiesa e quindi contro la parola degli Apostoli, di Cristo, di Dio. Quello che ci resta da dimostrare è questo appunto: che la dottrina nostra, di cui prima abbiamo dato la regola di fede, trae l’origine sua dalla pura tradizione apostolica e che quindi, posto questo riconoscimento, tutte le altre dottrine vengono infirmate come false, in quanto traggono loro sorgente da principi non veri. Noi siamo nel rapporto più intimo colle Chiese Aposto-liche, perchè la nostra dottrina non è in alcun punto diversa dalla loro: questa è la prova sicura dell’assoluta verità.Tertulliano, Praescriptione Haereticorum, Cap XXI,1-7

da www.facebook.com/pages/Apologetica/141549819223873?fref=ts

“Alla mia veste nera”

di Mons. F. Olgiati

Preti in talare

O cara veste nera, da alcune settimane tutti parlano di te. Nel volume su L’attività della Santa Sede nel 1958 era detto: “Attese le varie richieste pervenute circa l’abito talare, è stata iniziata una vasta indagine sulla questione della forma dell’abito ecclesiastico, ed è stata concessa agli ordinari diocesani (cioè ai Vescovi) qualche facoltà di dispensa, in casi particolari, ferma sempre restando la regola di usare la veste talare nell’esercizio della potestà di ordine e di giurisdizione”.

Queste poche righe hanno dato origine a mille discussioni, anche sulla stampa nostra. E le fantasie hanno galoppato.

Alcuni si sono appellati alla storia, dal secolo V ai Concili Lateranense IV (213) e Viennese (1312), che agli ecclesiastici imposero un abito diverso dal comune, da Sisto V a Pio IX.

Altri hanno fatto ricorso alla moda dei paesi tedeschi ed anglosassoni, che concedono ai sacerdoti l’abito cosidetto alla “clergyman”, pur imponendo la “talare”, come esige il Codice di Diritto canonico, nelle funzioni sacerdotali.

Altri hanno rievocato i tempi della Rivoluzione francese, quando anche in Paesi latini – come oggi nelle terre comuniste – il clero, a causa della persecuzione, non si distingueva affatto per i suoi abiti dai laici.

Altri, infine, hanno osservato che “la veste talare, oltre ad essere fastidiosa d’estate e ingombrante sempre, diventa un ridicolo intralcio ed anche un reale pericolo quando, proprio per ragioni del suo ministero, il prete deve usare la bicicletta e la motoreta”, mezzi diventati, ormai, indispensabili per chi è in cura d’anime. Nè è da omettersi, hanno aggiunto, “la tendenza del clero non ad isolarsi in una torre d’avorio, ma ad accostarsi il più possibile alla vita del popolo cristiano affidato alle sue cure, a dividerne le sofferenze e le contrarietà”.

Cara mia veste nera, pur sapendo che non si tratta di una questione sostanziale, ma solo d’una materia disciplinare di esclusiva competenza dell’autorità ecclesiastica, io non ho potuto fare a meno di guardarti e di meditarti.

Sono vecchio e ti voglio bene.

Tu mi perdonerai se io non mi interesso degli argomenti accennati. Non voglio discuterli. Solo voglio dire a te una parola. Ti porto da tanti decenni. Quando ero fanciullo e, prima degli undici anni, entrai in Seminario, si usava indossarti fin dalla prima ginnasiale e tenerti anche nelle vacanze. Ricordi, mia cara veste nera, il giorno della mia vestizione? Ti aveva preparata la mia santa mamma, povera ed inesperta, aiutata da una vecchia sarta volenterosa. Assisteva al rito e pianse quando il vecchio Prevosto me ne rivestì e asperse. Con la benedizione del Parroco e con le lacrime materne uscii dalla chiesa. Com’ero felice, o mia cara veste nera! Potevo io concepire un tesoro più grande e più prezioso di te? Lo fosti sempre durante i miei dodici anni di Seminario e in seguito per tutta la mia vita.

In Seminario subito mi hanno insegnato a baciarti, quando alla sera mi spogliavo per andare al riposo. Quanti baci e di che cuore!

O veste nera della mia prima Messa e di tante Messe celebrate e di tanti azioni sacerdotali compiute! O veste nera, che accanto al letto dei morenti avevi un significato ed un tuo singolare linguaggio! O veste nera, che non mi hai mai costretto ad isolarmi in una torre d’avorio, pur ricordandomi in ogni occasione il mio sacerdozio, anche nel fervore di dispute accese e nelle battaglie per la difesa della verità, in congressi, in associazioni, nelle scuole!

Tu hai conosciuto talvolta, soprattutto in alcuni tempi, l’insulto villano del teppista; ma quanto in quei momenti sono stato fiero di te e ti ho amato!

T’ho riguardata sempre come una bandiera…bandiera nera, sì. Simbolo di morte. ma non potevo vergognarmi, perchè mi simboleggiavi il Crocifisso, che, appunto perchè tale, è risurrezione e vita.

Ora che sono al tramonto, sentendo discorrere di te, ho capito sempre più e sempre meglio che ti amo tanto.

Non so se ti modificheranno, se ti sostituiranno, se ti cambieranno. Avranno le loro ragioni. Anzi, se scoppiasse una persecuzione, ti strapperebbero da me. Non importa. Persino in questo caso tu saresti nel mio cuore. E vi rimarrai per sempre.

Quando tra breve chiuderò gli occhi, voglio che tu scenda con me nella tomba. Rivestito di te, avvolto nelle tue pieghe, dormirò più tranquillo il sonno della morte. Più non potrò darti il bacio del mio affetto. Il mio cuore più non batterà. Ma se qualcuno potesse leggere nelle sue fibre più profonde, troverebbe scolpita una parola di amore e di fierezza per te, o cara e dilettissima veste nera…

Maggio 1959

Il Concilio di Trento è moderno anche oggi

di don Marcello Stanzione

Quest’anno ricordiamo i 450 anni della chiusura del Concilio di Trento. Tale Concilio fu il campo di battaglia della lotta tra il partito conservatore della Chiesa, che intendeva semplicemente conferire nuovo vigore agli antichi dogmi, e quello progressista, che proponeva di venire a patti con i protestanti, operando più profonde riflessioni sulle condizioni della Chiesa del tempo. Questa è, naturalmente, una ripartizione di comodo, perché in realtà, all’interno delle correnti principali, vi erano ulteriori suddivisioni e orientamenti molto diversi. I conservatori videro accolte le loro istanze, il che comportò l’instaurazione di un numero di dottrine ortodosse che da quel momento divennero i fondamenti della fede cattolica, finendo per liquidare come “eresia” tutti i dogmi protestanti che da esse differivano. Tali dottrine cattoliche possono essere riassunte come segue, inserendo tra parentesi le corrispettive tesi protestanti: …

… Le Sacre Scritture consistono  nel Vecchio Testamento, compresi gli Apocrifi, e nel Nuovo Testamento (i Protestanti rifiutano gli Apocrifi in quanto non “ispirati” da Dio). Il testo della Vulgata è l’unico autorevole e autentico (gli studiosi hanno individuato in esso molti errori). Le tradizioni non affidate alla scrittura, ma ricevute dagli apostoli e preservate dalla Chiesa romana, hanno pari autorità della Bibbia, dal momento che Dio stesso ne è l’autore e lo Spirito Santo il mezzo attraverso cui sono state rivelate (molte di queste tradizioni non sono comprovate e risultano essere dei semplici assunti elaborati dall’uomo, nel migliore dei casi indimostrabili). Nessuno avrebbe dovuto interpretare la Bibbia attribuendole un senso diverso da quello autorizzato dalla Chiesa (la Parola di Dio nelle Scritture è la pietra di paragone in base alla quale la dottrina della Chiesa e la pratica sacerdotale vanno misurate, non il contrario).

2.    Il peccato originale è presente nell’uomo e può essere lavato solo con la forma di battesimo stabilita dalla Chiesa, amministrabile sia agli adulti che agli infanti. (Una delle più comuni posizioni protestanti considera valide tutte le forme di battesimo, perché i battezzandi devono entrare nella Chiesa e non in una denominazione; i Battisti, i Pentecostali e alcuni altri gruppi insistono sul battesimo degli adulti).

3.    Cristo è morto per tutti gli uomini, ma il beneficio della redenzione è attribuito solo a quegli uomini che hanno condiviso la passione. Senza il previo intervento della grazia di Dio gli uomini non possono avvicinarsi a Lui, ma è facoltà di ogni uomo seguire o rifiutare la grazia, perché il peccato originale non ha estinto il libero arbitrio. La giustificazione origina dalla rinascita nel battesimo, ma anche dal desiderio che l’individuo ha di perseguirla e, pur essendo per fede, non è solo per fede. Un credente che abbia ricevuto la grazia può osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa e, così facendo avanzerà nel cammino verso Dio e otterrà ulteriore grazia compiendo opere buone. Le opere buone compiute prima della giustificazione non sono peccati, né la grazia è riservata esclusivamente agli eletti, mentre tutti gli altri sono predestinati al male.

4.    Il purgatorio esiste ( i protestanti lo bandiscono completamente).

5.    Il sacerdozio di tutti i credenti no.

6.    I sacramenti sono sette (i Protestanti ne accettano due, talvolta tre, talvolta nessuno – come fanno i Quaccheri). Per quanto concerne l’eucarestia, viene elevata a dogma la dottrina della transustanziazione e della Reale presenza di Cristo; la consustanziazione è invece condannata. Dal momento che Cristo è sia nel pane sia nel vino, risulta superfluo che i laici ricevano il calice.

7.    Solo i vescovi o i preti possono rimettere i peccati ( per i protestanti soltanto Dio ha questo potere, indipendentemente da quanto possa affermare qualsiasi prete).

8.    L’invocazione alla Madonna, il ricorrere ai santi e agli angeli, la venerazione delle reliquie, delle immagini sacre e le indulgenze vengono considerate pratiche lecite e quindi da mantenere.

da www.miliziadisanmichelearcangelo.org

Anche in Croazia si ritorna alla S. Messa tradizionale

di Michele Poropat

Sancta Missa 25

La piccola chiesa di San Martino a Zagabria, a due passi dalla cattedrale, lo scorso 30 giugno è stata teatro di un avvenimento che non è eccessivo definire storico.

Per la prima volta in Croazia da quasi cinquant’anni a questa parte, un novello sacerdote diocesano ha celebrato la sua prima Messa nel Vetus Ordo, la forma liturgica in lingua latina promulgata nel 1962 dal Beato Giovanni XXIII, e liberalizzata dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI.

Il novello sacerdote si chiama Marko Tilošanec, proviene dalla Diocesi di Varaždin, nel nord-ovest della Croazia (circa 370.000 fedeli), ed è stato ordinato il 22 giugno dal vescovo locale Mons. Josip Mrzljak insieme con altri quattro diaconi. Il giorno dopo la sua ordinazione, il reverendo Tilošanec ha celebrato la sua prima Messa secondo il rito romano ordinario nel suo paese natale di Kotoriba, mentre la domenica successiva ha celebrato un’altra Prima Messa a Zagabria, questa volta nel rito tradizionale.

Nell’omelia di quest’ultima celebrazione il novello sacerdote ha affermato che “haec est dies quam fecit Dominus”, questo è un giorno fatto dal Signore, «giacché nei tempi turbolenti in cui si riteneva che la Santa Messa tradizionale in latino, la quale nella sua essenza risale ai primi secoli, non avesse diritto di cittadinanza nella Chiesa, un fatto del genere era del tutto impensabile». È un dono e una benedizione di Dio «che trascende ogni previsione e attesa umana, per la quale dobbiamo a Dio un grande ringraziamento»; allo stesso modo va ringraziato il «papa emerito Benedetto XVI, il quale ha meriti speciali per avere permesso un lento, ma stabile ritorno dell’antica liturgia nella vita della Chiesa».

In essa, ha proseguito il novello sacerdote, «troviamo la fede cattolica, pura e inalterata, nonché la liturgia della Chiesa nella sua bellezza e splendore. Qui si trova tutta la ricchezza di preghiera e di spiritualità che la Chiesa ha creato nel corso della sua storia, e per questo chiediamo di poter attingere da questa fonte perenne della grazia di Dio».

Il significato del sacerdozio e dell’Eucaristia viene spiegato richiamandosi alle parole dell’apostolo Paolo in Ebrei 5,1 e 5,4. Dio stesso, afferma il rev. Tilošanec, «unge il suo eletto, lo eleva a un grado di similitudine a se stesso, affinché egli sia mediatore tra Dio e gli uomini». La natura fondamentale del sacerdozio «viene a esprimersi in modo perfetto nella Messa tradizionale». Tutti i simboli e le cerimonie, che non sono solamente parte del rito romano, ma anche degli altri antichi riti della Chiesa, «sono derivati proprio dalla fede della Chiesa lungo i secoli che abbiamo ricevuto dagli apostoli e dallo stesso Cristo, e la liturgia rappresenta la migliore espressione di questa fede».

Proprio per questo motivo, nella Messa tradizionale «il sacerdote, uomo preso dal popolo, insieme al popolo si presenta nella stessa casa di Dio, la chiesa, ma è chiaramente separato da quel popolo affinché svolga il servizio affidatogli da Dio. Per questo motivo il sacerdote, come lo erano i ministri scelti nell’Antico Testamento, si trova in un luogo più elevato, separato, presso il grande altare che rappresenta la dimora di Dio, rivolto oppure diretto verso quello stesso altare – ad Dominum, verso il Signore. Proprio per questo vi sono preghiere che il sacerdote prega a voce bassa – poiché esse sono parte di quel mistero, del servizio divino; proprio per questo viene utilizzata la lingua latina, che è una lingua sacra, consacrata appunto al servizio divino, e per questo motivo abbiamo un Confiteor – la confessione dei peccati separata, così come anche un atto di comunione per il sacerdote e uno per il popolo, poiché egli non è solamente uno dei ministri preso dal popolo, bensì è stato scelto e unto da Dio, reso simile, anzi divenuto alter Christus“.

Il ministero svolto dal sacerdote è quello di «offrire doni e sacrifici per i peccati. Il dono di maggiore valore, e il più grande sacrificio che egli può offrire, è proprio la Santa Messa – il sacrificio incruento della Nuova Alleanza». Il senso della sua missione è espresso in modo solenne già «dalle prime parole pronunciate dal sacerdote: introibo ad altare Dei – mi accosterò all’altare di Dio». Le mani del sacerdote «vengono consacrate proprio perché possano toccare il Corpo di Cristo – distribuire questo dono divino ai fedeli e svolgere la propria opera al servizio di Dio per gli uomini».

La Santa Messa, ha proseguito il rev. Tilošanec, «è un’epifania – una manifestazione della gloria di Dio, come l’esperienza del roveto ardente che ebbe Mosè, e per incontrare Dio in modo degno, è necessario accostarsi a Lui con il cuore puro». Dal sacerdote ci si attende quindi «che a motivo della sua consacrazione, segua in modo eccezionale il suo Maestro, il Signore Gesù, nella sua vita e nel suo agire, e che si conformi costantemente al Suo esempio di santità. Per questo motivo mi raccomando nelle vostre preghiere … Preghiamo, cari fedeli, per i nostri sacerdoti, affinché nella fedeltà alla tradizione della Chiesa, la quale rappresenta l’unica garanzia del suo vero rinnovamento, siano veramente secondo il Cuore di Gesù, il cui amore essi accenderanno nel proprio agire».

Il celebrante ha incoraggiato i fedeli affinché, nonostante le prove che purtroppo talvolta vengono anche dall’interno della stessa Chiesa, essi trovino consolazione e incoraggiamento dalle grazie che rappresentano il frutto dell’atto di lode e di adorazione proprio del rito tradizionale della Santa Messa. Egli ha quindi affermato: «Facciamoci coraggio, affinché siamo pronti, come i martiri menzionati nel Canone, a dare anche la nostra vita per il nome di Cristo e la conservazione della liturgia tradizionale e della fede cattolica, giacché senza questa fede non vi è salvezza».

Questo giovane sacerdote, il cui motto è Ut in nomine Jesu omne genu flectatur (Affinché nel nome del Signore ogni ginocchio si pieghi) non è un caso raro nel panorama ecclesiale croato. Pur in presenza di una crescente spettacolarizzazione e di ‘creatività’ nella liturgia, con parti della stessa del tutto abolite per essere sostituite da canzonette spesso di origine protestante (è il caso del Gloria e dell’Agnus Dei), vi sono non pochi giovani sacerdoti che stanno riscoprendo la sacralità del servizio sacerdotale testimoniata anche dal segno esteriore dell’indossare la tonaca, che consacrano le loro parrocchie al Cuore Immacolato di Maria, che sentono la necessità di una liturgia più solenne che aiuti i fedeli a elevarsi e ad aprire il cuore alle grazie che vengono da una più intima unione con il Signore.

Così, mentre da una parte vi sono sacerdoti che introducono alcune discutibili trovate provenienti dal morente cattolicesimo occidentale post-conciliare – ad esempioobbligando i fedeli a ricevere la santa Comunione sulla mano e insegnando ai bambini che questo è l’unico modo di fare la Comunione, ve ne sono degli altri, che seguendo l’esempio di Papa Benedetto XVI, senza obbligo per alcuno, spronano i fedeli a mostrare una sempre maggiore riverenza e devozione verso la Santissima Eucaristia reintroducendo l’inginocchiatoio e proponendo la Comunione direttamente in bocca come modo migliore per aprire il cuore al mistero di Dio che si è fatto uomo e che si è fatto Pane di vita per unirsi in modo sensibile a noi.

Questo è ciò che del resto fa già da diversi anni anche il cardinal Ranjith, arcivescovo di Colombo nello Sri Lanka, il quale, seguendo l’esempio di Benedetto XVI, ha stabilito che nella sua Arcidiocesi i fedeli si accostino alla santa Comunione in ginocchio e la ricevano in bocca. Secondo il porporato è inoltre necessario da una parte favorire una sempre maggiore diffusione della Santa Messa tradizionale, e dall’altra purificare la Messa del Novus Ordo da tutti gli elementi spuri non previsti dal Concilio oppure del tutto contrari alle norme conciliari, quali la creatività liturgica, una musica non adatta al rito sacro, la spettacolarizzazione di stampo protestante e il ricevere la Comunione sulle mani.

Riferendosi al Vetus Ordo, Ranjith ritiene che esso rappresenti «in larga misura e nel modo più appagante quella chiamata mistica e trascendente a un incontro con Dio nella liturgia». Il porporato afferma che non è essenziale che l’intelletto comprenda le parole del rito, bensì che il cuore sia toccato dal Mistero e dalla grazia che emana dal Mistero medesimo, poiché solamente un più profondo contatto con Dio può nutrire l’anima e dare a essa le grazie delle quali essa ha bisogno

tratto da conciliovaticanosecondo.it

La Beata Emmerich aveva previsto il “Summorum Pontificum”?

E0702 MAX 7739

“San Michele venne giù nella chiesa, vestito della sua armatura, e fece una pausa, minacciando con la spada un certo numero di indegni pastori che volevano entrare. Quella parte della Chiesa che era stata distrutta venne prontamente recintata… così che l’ufficio divino potesse essere celebrato come si deve. Allora, da ogni parte del mondo vennero sacerdoti e laici che ricostruirono i muri di pietra, poiché i distruttori non erano stati capaci di spostare le pesanti pietre di fondazione”

Beata Anna Caterina Emmerich – 10 settembre 1820

Papa Francesco parla chiaro: la Messa antica non si tocca

                                                         Francesco e il latino 

LA MESSA ANTICA NON SI TOCCA, IL PAPA GESUITA SPIAZZA TUTTI

di Matteo Matzuzzi

I vescovi pugliesi chiedono il ritiro del motu proprio di Ratzinger. Bergoglio dice no, servono cose nuove e antiche

papa

Chi pensava che con l’arrivo al Soglio di Pietro del gesuita sudamericano Jorge Mario Bergoglio la messa in latino nella sua forma extra-ordinaria fosse archiviata per sempre, aveva fatto male i conti. Il motu proprio ratzingeriano del 2007, il Summorum Pontificum, non si tocca, e il messale del 1962 di Giovanni XXIII (che poi è l’ultima versione di quello tridentino del Papa santo Pio V) è salvo. Quel rito con il celebrante rivolto verso Dio e non verso il popolo, con le balaustre a separare i banchi per i fedeli dal presbiterio, non è un’anticaglia, detrito da spedire in qualche museo a impolverarsi. E’ stato proprio il Pontefice regnante a dirlo, ricevendo qualche giorno fa nel Palazzo apostolico la delegazione dei vescovi pugliesi giunti a Roma in visita ad limina apostolorum, come fa tutto l’episcopato mondiale ogni cinque anni.

Come ha scritto sul suo blog il vaticanista Sandro Magister, i vescovi pugliesi sono stati i più loquaci, con clero e giornalisti. La scorsa settimana, il capo della diocesi di Molfetta, Luigi Martella, ha raccontato come Francesco sia pronto a firmare entro l’anno l’enciclica sulla fede che Benedetto XVI starebbe portando a termine nella tranquillità del monastero Mater Ecclesiae, aggiungendo addirittura che Bergoglio ha già pensato alla sua seconda lettera pastorale, dedicata alla povertà e intitolata “Beati pauperes”. Dichiarazioni che hanno costretto la Santa Sede a smentire, rettificare e chiarire, con padre Federico Lombardi che invitava a pensare “a un’enciclica per volta”. Poi è toccato al vescovo di Conversano e Monopoli, Domenico Padovano, che al clero della sua diocesi ha raccontato come la priorità dei vescovi della regione del Tavoliere sia stata quella di spiegare al Papa che la messa in rito antico sta creando grandi divisioni all’interno della chiesa. Messaggio sottinteso: il Summorum Pontificum va cancellato, o quanto meno fortemente limitato. Ma Francesco ha detto no.

E’ sempre monsignor Padovano a dirlo, spiegando che Francesco ha risposto loro di vigilare sugli estremismi di certi gruppi tradizionalisti, ma suggerendo altresì di far tesoro della tradizione e di creare i presupposti perché questa possa convivere con l’innovazione. A tal proposito, come scrive Magister, Bergoglio avrebbe pure raccontato le pressioni subite dopo l’elezione per avvicendare il Maestro delle cerimonie liturgiche, quel Guido Marini dipinto al Papa come un tradizionalista che andava rimandato a Genova, la città che nel 2007 lasciò a malincuore obbedendo alla volontà di Benedetto XVI che lo volle a Roma. Anche in questo caso, però, Francesco ha opposto il suo rifiuto a ogni cambiamento nell’ufficio delle cerimonie. E lo ha fatto “per fare tesoro della sua preparazione tradizionale”, consentendo al mite e poco protagonista Marini di “avvantaggiarsi della mia formazione più emancipata”.

La differenza culturale c’è tutta, il gesuita che per tradizione ignaziana “nec rubricat nec cantat” si trova improvvisamente catapultato in una realtà in cui negli ultimi otto anni erano stati pazientemente e lentamente recuperati elementi liturgici abbandonati negli ultimi trenta-quarant’anni, giustificando così chi vedeva nel Concilio una rottura anche in campo liturgico. Il filo conduttore delle cerimonie benedettiane era riassumibile nella sintesi tra solennità e compostezza: il ritorno sull’altare dei sette alti candelabri e della croce centrale e gli avvisi a non applaudire ne sono un esempio. E poi il latino, lingua della chiesa, che veniva usato per le celebrazioni non più solo a Roma ma in ogni angolo del pianeta, Africa compresa. Non pochi, guardando il volto serio di Marini quella sera di marzo mentre Bergoglio appariva per la prima volta alla Loggia delle Benedizioni con la semplice talare bianca, senza mozzetta né stola, avevano previsto un avvicendamento imminente. Invece Francesco sa che Roma non è Buenos Aires, che fare il Papa richiede anche di mantenere un apparato simbolico ancorato nella storia e nella tradizione millenaria della chiesa cattolica.

La continuità che non piace a tutti

Un recupero, quello avvenuto negli anni di Benedetto XVI, che a molti non è piaciuto, anche dentro le Mura leonine. Monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, diceva lo scorso 7 maggio a margine della presentazione della costituzione d’indizione del Concilio “Humanae  salutis” che “quando oggi vedo in certi altari delle basiliche quei sette candelabri bronzei che sovrastano la croce mi viene da pensare che ancora poco è stato capito della costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium”. Ecco perché qualcuno, come il vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano, monsignor Felice Di Molfetta – che da sempre considera la messa in forma extra-ordinaria incompatibile con il messale di Paolo VI, espressione ordinaria della lex orandi della chiesa cattolica di rito latino – qualche giorno fa ha fatto sapere ai fedeli della sua diocesi di essersi vivamente rallegrato con Francesco “per lo stile celebrativo che ha assunto, ispirato alla nobile semplicità sancita dal Concilio”.

© – FOGLIO QUOTIDIANO

 

Abbè Barthe: un bilancio del pontificato e il prossimo futuro

– Quali sono le ragioni [della rinunzia del Papa]? Il Papa ha parlato della sua fatica; possiamo supporre che non ha trovato il supporto che egli stesso ha rappresentato per Giovanni Paolo II?
Benedetto XVI ha accennato alla sua stanchezza. Si parla dello stato allarmante del suo cuore. Si può dire anche, in effetti, che non è riuscito, non ha saputo, non ha voluto forse, trovare aiuti forti per l’esercizio della sua carica. Sapendo che era un intellettuale di alto livello, ma non un uomo di governo, avrebbe potuto sollecitare il sostegno di un Segretario di Stato che dirigesse saldamente la Curia, di un uomo di sana dottrina all’ex S. Ufficio, di cardinali capi dei dicasteri che fossero dei potenti “baroni”, come ai tempi di Giovanni Paolo II, ma questa volta dei baroni ratzingeriani.
Ha dato l’impressione di esitare egli stesso per sapere che cosa fosse la vera “linea Ratzinger”, quella del teologo conciliare che aveva contribuito a rovesciare la Curia di Pio XII, o quella dell’autore dell’Intervista sulla fede, che per quasi 25 anni, come Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, aveva tentato di arginare il torrente del Concilio e che aveva, si può dire, intellettualmente teorizzato il processo di restaurazione iniziato da Giovanni Paolo II. Le nomine curiali di Benedetto XVI sono state per lo più, almeno dal punto di vista simbolico, della linea di Intervista sulla fede (tra gli altri: Burke, Piacenza, Sarah, Canizares, Ranjith; questo ultimo che resta, pur a migliaia di chilometri – Colombo – un uomo di Curia).
Ma c’erano anche nomine fatte, per intenderci, dal primo Ratzinger: Hummes, per un certo tempo alla Congregazione del Clero, Müller, l’anno scorso, all’ex Sant’Uffizio, Ravasi, soprattutto, un esegeta semi-liberale.
Era questo tutto il problema di questo pontificato che finisce come un concerto a metà dello spartito?
L’opposizione al Papa, varia ma feroce, ha costantemente cercato di spingerlo alla dimissione morale. Ma si ha l’impressione che è stato l’insieme dei ‘buoni’ che, con il Papa, è stato intimidito, anchilosato.
Che cosa sarebbe successo se questi uomini nominati da lui, tra cui alcuni eccellenti, avessero esercitato un potere di sostituzione come avevano fatto sotto Giovanni Paolo II, certo nel disordine, i Sodano, Re, Sandri, che possiamo stimare nocivi, o come i Medina, Castrillón, un vero ‘ataccante’, e anche come… il cardinale Ratzinger?
Papa anziano, che risparmiava le sue forze al massimo, diventato quasi inaccessibile (la maggior parte dei capi dei dicasteri non avevano conversazioni regolari con lui), protetto da un entourage dominato dalla simpaticissima personalità di Georg Gänswein, era convenuto che tutte le decisioni sensibili da prendere dovessero passare nelle mani di Benedetto XVI. E ci restavano mesi e mesi.
– Non c’è, ora, il rischio di una «frattura», tra sostenitori del vecchio e del nuovo Papa, se si può dire. E, più filosoficamente, il rischio di un relativismo, contro il quale Benedetto XVI si è così spesso levato?
La domanda implica il caso di un futuro Papa che non sia nella linea di Benedetto XVI, ma sia, non un progressista perché non ne esistono tra i papabili, ma un ‘ratzingeriano’ di sinistra, se possiamo stabilire questa categoria. In questa ipotesi, la più probabile sarebbe l’elezione di Gianfranco Ravasi, 72 anni, Presidente del Consiglio per la cultura, sul cui nome potrebbero confluire i voti di tutti i personaggi della Curia di Giovanni Paolo II messi da parte, i pochi veri progressisti e tutti coloro che, approssimativamente parlando, tra i cardinali elettori non si ritrovano nella linea restaurazionista rappresentata da questo pontificato. La macchina restaurazionista, se mi si consente l’immagine, non ha comunque lavorato che al 10% della sua capacità in materia di nomine, di liturgia, di difesa del Summorum Pontificum. Per non parlare di quanto riguarda la repressione delle eresie evidenti e dello scisma latente che quelle comportano…
Allora, in effetti, si vedrebbe non riemergere, perché è sempre stato ben presente, ma riprendere un certo numero di posti di comando a tutti i livelli, un progressismo che è in realtà un liberalismo mortifero. Il sollievo che esso manifesta dopo l’annuncio delle dimissioni dimostra che esso pensa che la sua ora è tornata. Immagino un grande scoramento, da una parte di coloro che vengon chiamati i membri delle forze vive (tradizionalismi vari, comunità nuove, giovani sacerdoti col colletto romano, comunità religiose che reclutano, famiglie, movimenti giovanili, ecc.), ma anche uno scoraggiamento dei liberali stessi, perché il loro ritorno non farebbe che accentuare la desertificazione delle diocesi, parrocchie, congregazioni.
Così il relativismo contro cui Benedetto XVI si è levato riprenderebbe ad intra tutti i suoi diritti. Questo provocherebbe il rischio di una frattura nella Chiesa? Non il rischio, ma una salutare frattura.
Fortunatamente, l’ipotesi implicita nella domanda non è la sola.
– Quale sarebbe l’ipotesi alternativa?
L’ipotesi alternativa mi sembra la più plausibile: un restaurazionista dovrebbe raccogliere i due terzi dei voti del conclave. Ma questo ci dice molto poco, perché ci sono molti gradi in questa denominazione generica, che va dal cardinale Burke al cardinale Schönborn, arcivescovo di Vienna. Nel 2005, se il Conclave si fosse prolungato, il cardinale Ratzinger avrebbe desistito e due uomini molto diversi umanamente, ma apparentemente di comune sentire, avrebbero potuto  emergere: il canadese cardinale Marc Ouellet, 69 anni, ora prefetto della Congregazione dei vescovi e il cardinale Angelo Scola, età 71, arcivescovo di Milano. C’è oggi anche il cardinale Dolan, 63 anni, stesso profilo, pugnace arcivescovo di New York. E se il conclave del mese prossimo durasse a lungo, perché non pensare a un cardinale di paesi emergenti, come si suol dire, dall’Asia ad esempio?… Non faccio assolutamente alcun pronostico. Ma se fossi cardinale – una “supposizione impossibile” come quella di San Francesco di Sales – e supponendo che candidati cui mi sento molto vicino sembrano non avere più chance dopo le “primarie” dei primi scrutini, io voterei Scola per vari ragionevoli motivi. Il primo è che è italiano e dopo tutto è normale che il vescovo di Roma sia italiano.
– Se d’altronde Benedetto XVI ha la sensazione che la situazione si sta disfacendo (non parlo della questione fisica), non è da considerare che preferisca che l’elezione abbia luogo ora, anziché più tardi?
Sono assolutamente d’accordo. Tanto più che la sua ombra si stenderà necessariamente sulle congregazioni di cardinali che precederanno il conclave e sul conclave stesso, nel quale entrerà, non per votare ma in qualità di prefetto della Casa Pontificia, Mons. Gänswein.
 [..]
– Che ne sarà del motu proprio Summorum Pontificum? Può essere revocato? E in che cosa questo punto (o altri) s’imporrà al prossimo successore di Pietro?
L’elemento principale del motu proprio, su cui si fondano tutte le sue disposizioni, è questa constatazione: “È pertanto permesso di celebrare il sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato”. Un participio passato (“abrogato”) negato da un avverbio di tempo (‘mai’: in nessun momento).
Questo è tutto, ma le conseguenze sono colossali. Si può immaginate un Papa che dica: “Benedetto XVI si è sbagliato, perché Paolo VI aveva eccome abrogato il Messale anteriore”? Questo non si fa. Anche se Benedetto XVI l’ha in effetti fatto nei confronti di Paolo VI. Si può immaginare un Papa che dica: “Io stesso abrogo il Messale precedente alla riforma di Paolo VI”? Fino a che un altro Papa abroghi l’abrogazione, confermando la non abrogazione? Ecc, ecc.
La questione dottrinale è: si tratta di una Messa sostanzialmente abrogabile? Non ho bisogno di dare la mia risposta.
È chiaro che un papa ostile al Summorum Pontificum potrebbe voler aumentare le condizioni frapposte alla celebrazione di Messe pubbliche straordinarie.
La cosa peraltro non sarebbe nemmeno necessaria, perché tantissimi vescovi mettono già in opera, contro la legge e contro il suo spirito, un’interpretazione già molto restrittiva. È sufficiente che il Papa li incoraggi a ciò. O più, semplicemente ancora, che continui a non farli desistere dall’agire in tal modo.
Ma il futuro Papa può anche ampliare Summorum Pontificum. E, in ogni caso, tutti i suoi utilizzatori d’ogni rango devono adoperarvisi, come dopo la riforma di Paolo VI si adoperarono per far vivere e prosperare l’antica liturgia romana.
Ne va dell’onore reso a Dio e della salvezza delle anime.
– Che ne sarà delle discussioni e del futuro della FSSPX?
Per incredibile che possa sembrare, nell’immediato futuro, nulla è cambiato. Mi spiego meglio. Tutti sanno ormai che la Commissione Ecclesia Dei ha inviato una lettera al vescovo Fellay l’8 gennaio e che si aspetta una risposta da lui il 22 febbraio, il giorno della festa della cattedra di San Pietro. In questo giorno, 22 febbraio, potrebbe essere datata l’erezione della prelatura San Pio X. Questo rappresenterebbe la vera conclusione del pontificato di Benedetto XVI: la riabilitazione di mons. Lefebvre. Potete immaginare che rombo di tuono e anche, indirettamente, quale peso nell’orientamento degli eventi di marzo.
da messainlatino.it

Il Giuramento antimodernista

IL GIURAMENTO ANTIMODERNISTA
Acta Apostolicæ Sedis, 1910, pp. 669-672

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IO (NOME) fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.
Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti.
Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell’origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.
Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.
Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell’evoluzione dei dogmi da un significato all’altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.
Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall’oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell’intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.
Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell’enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.
Riprovo altresì l’errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.
Disapprovo pure e respingo l’opinione di chi pensa che l’uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.
Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l’analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.
Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l’insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull’origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell’aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l’esame di qualsiasi altro documento profano.
Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c’è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l’abilità e l’ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.
Mantengo pertanto e fino all’ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell’episcopato agli apostoli (1), non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (2).
Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell’insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti.
Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

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Note:
1 Ireneo, Adversus haereses, 4, 26, 2: PG 7, 1053.
2 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 28: PL 2, 40
da amiciziacristiana.it