L’omelia di mons. Negri al pellegrinaggio Populus Summorum Pontificum

Vi proponiamo in esclusiva la trascrizione dell’omelia pronunciata da Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa, nella Basilica Vaticana durante la messa pontificale celebrata da Monsignor Juan Rodolfo Laise, ofm cap., in occasione del quarto pellegrinaggio internazionale del popolo Summorum Pontificum a Roma, sabato 24 ottobre 2015.

Nel corso di quest’omelia, pronunciata a braccio e con un eloquio semplice ma molto potente, Monsignor Negri ha messo in risalto la doppia attitudine della Chiesa nella sua missione evangelizzatrice delle civilizzazioni umane, accettando e “cristificando” ciò che essa può e deve ricevere, ma al contempo rifiutando fermamente ciò che il mondo, e specialmente quello moderno, propone di contrario alla legge di Cristo. Verso la fine della sua predicazione, ha lanciato ai fedeli un avvertimento solenne verso la vecchia tentazione liberale che fa che i cristiani passino dalla parte del nemico: la sottomissione alla mentalità dominante.

Ricordiamo che quest’omelia vigorosa è stata pronunciata nel giorno della chiusura del Sinodo dei vescovi, alla stessa ora in cui, qualche centinaio di metri più in là, i Padri sinodali votavano, in un clima di fortissime tensioni, il documento finale sulla famiglia. Tra questi Padri sinodali si trovava il cardinale Cafarra che Monsignor Negri aveva accettato di sostituire per annunciare la parola di Dio ai pellegrini del popolo Summorum Pontificum.

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OMELIA DI MONS. LUIGI NEGRI PER IL IV PELLEGRINAGGIO POPULUS SUMMORUM PONTIFICUM
(Basilica vaticana – 24 ottobre 2015)

Sia lodato Gesù Cristo
Sempre sia lodato.

La parola della liturgia richiama la grande attesa della salvezza dell’intera umanità e, in particolare, l’attesa dei poveri, degli umili, dei disperati. Quella stessa attesa che ad un certo punto si muovesse l’acqua della piscina, perché qualcuno potesse entrare in essa e così partecipare della novità di vita identificata nel Messia d’Israele.

Ecco! Ora l’attesa è finita. L’attesa è finita perché l’avvenimento di Cristo ha squarciato definitivamente i cieli ed è penetrato dentro lo spessore della storia – dell’intera Storia – con tutte le sue grandezze e le sue povertà, con tutti i suoi limiti e le sue tentazioni, ma anche con l’immensa capacità dell’uomo, di affrontare responsabilmente, di generazione in generazione, il problema del destino della sua vita, del fine a cui è chiamato, del Regno di Dio cui tendiamo e che è in mezzo a noi.

È Cristo la vita nuova in mezzo a noi: la vita è pienamente realizzata in Lui, nel mistero della Sua Morte e Resurrezione e della Sua Ascensione, mistero comunicato a ciascuno nella profondità della nostra fede e nell’intensità della nostra carità.

Vita nuova perché la salvezza è una. E’ una nuova dilatazione dell’intelligenza e del cuore che si traduce poi in una nuova sensibilità verso sé stessi, verso gli altri, verso la realtà. Questa umanità nuova è dentro di noi come grazia, come dono della fede. Come verità non meritata ma offerta gratuitamente a quell’attesa profonda che anima la nostra esistenza.

Di fronte a questa grazia noi non siamo e non possiamo rimanere inerti come abbandonandoci ad una sorta di fatalismo che non è cristiano. Noi dobbiamo assumerci la nostra responsabilità, perché la grazia, principio di vita nuova in noi, sede di vita nuova in noi, possa maturare, possa investire e realizzarsi nella nostra umanità, ma soprattutto, realizzandosi nella nostra umanità, possa diventare principio di missione, principio di comunicazione. La fede ci è data per comunicare.

Nella Redemptoris Missio, San Giovanni Paolo II diceva: la fede si irrobustisce donando. Dunque, la gratitudine per la grazia che ci è stata data, diviene, nella profondità della nostra coscienza e del nostro vivere quotidiano, l’intendimento a offrire il nostro contributo alla grande missione di Cristo e della Chiesa. Un impegno a cui dobbiamo collaborare con tutte le nostre forze, quali siano gli ambiti del quotidiano, le circostanze che affrontiamo, i luoghi e le funzioni che abbiamo.

Una sola grande vocazione appartiene al popolo cristiano: comunicare la vita nuova di Cristo ad ogni uomo perché ogni uomo possa, investito di questa grazia, se vuole, corrispondere e fare anch’egli, a sua volta, esperienza di questa novità. Dunque la responsabilità cristiana è la missione, e questa è stata la grande e straordinaria, lezione della Chiesa nella sua storia bimillenaria, variegata faticosa, talora segnata da tanti limiti, ma segnata anche da tanta gloria.

La Chiesa è questa presenza inesorabile della vita di Cristo che viene offerta a tutti coloro che qualche volta non la desiderano neppure, ma dalla nostra presenza di testimoni vengono sollecitati a guardare Cristo, magari per la prima volta, in un mondo come quello in cui viviamo, così lontano dalla presenza del Signore.

Questa missione ha visto la sua identità, la sua moralità scandita da due grandi parole che nella sua storia la Chiesa ha spesso potuto e dovuto dire: la prima parola è la parola POSSIAMO,POSSUMUS, e in questa parola, in questo atteggiamento la Chiesa ha, di generazione in generazione, incontrato l’umanità; la fede ha incontrato la ragione; la libertà cristiana ha incontrato la legge umana; le vicende della vita, dei popoli e delle nazioni sono state inculturate dalla fede cattolica, così che, in più di un caso, questa fede cattolica ha saputo dare un contributo significativo a forme di cultura e di civiltà.

Nel possumus la Chiesa e il mondo si sono incontrati. L’umanità in ricerca si è incontrata con la Chiesa che porta il Dio che si rivela. L’esistenza umana, personale e sociale, questa grande storia di cultura e di civiltà, è significata dalla grande cultura cattolica che non è ancora finita e che ci parla attraverso le più diverse forme di espressione culturale. La missione ha avuto certamente nell’orizzonte del possumus la capacità di dare un contributo significativo all’incremento della vita umana, personale e sociale.

Ma la Chiesa ha potuto e dovuto dire, in modo inesorabile, anche un’altra parola: NON POSSIAMO NON POSSUMUS. La Chiesa in molte occasioni ha dovuto dire che non era lecito non denunciare il tentativo di eliminare la presenza della Chiesa dalla vita della società, ridurre i diritti di Dio, i diritti della Chiesa, e quindi inesorabilmente contribuire al degrado della vita umana e sociale. Non possiamo. Non c’è stato nessun momento della storia per quanto drammatica, soprattutto dell’occidente europeo, in cui la Chiesa non si sia, talvolta anche da sola, assunta la responsabilità di negare la legittimità di certe ideologie, la legittimità di certe impostazioni culturali, sociali e politiche.

La Chiesa, nel suo non possumus, non ha chiuso il dialogo con gli uomini, ma ha negato che le ideologie potessero essere un avvenimento significativo per la sua vita. La denuncia di ciò che contrastando la Chiesa avvilisce l’uomo, il mistero della vita, il mistero dell’amore. La sacralità della paternità e della maternità, gli avvenimenti più significativi della vita umana, stravolti, abbattuti, sostituiti da forme assolutamente inaccettabili di convivenze personali, familiari o sociali.

La Chiesa non potrà mai dire solo possumus, come non potrà mai dire soltanto non possumus, Dovrà, nella responsabilità missionaria, rendere possibile l’incontro fra Cristo e il cuore dell’uomo, dovrà sapere ritmare le aperture e le chiusure, le accoglienze intellettuali e morali e la negazione per tutto ciò che va contro i diritti di Dio. E andando contro i diritti di Dio mette le condizioni per un degrado, per una disumanizzazione della vita umana e sociale di cui è terribile esperienza la società in cui la Chiesa vive oggi.

Guai a noi dunque fratelli, se sostituiamo al binomio possumus – non possumus, un possumus a senso unico che consegna la cristianità alla mentalità dominante, che fa diventare obbiettivo della nostra vita ciò che è perseguito dal mondo nel suo aspetto negativo e diabolico: l’eliminazione di Cristo e della Chiesa. Noi non possiamo accettare che troppi avvenimenti o iniziative o tentativi in questo variegato mondo cattolico, siano fortemente condizionati da una volontà di piacere al mondo e di riceverne il suo appoggio.

Noi vogliamo vedere il volto di Cristo. Questo volto di Cristo che sfolgora nella bellezza della liturgia, e, come accennava il Santo Padre nel suo messaggio, ci introduce alla gloria definitiva del Suo volto. Il volto che è al tempo stesso di Risorto e di Giudice. Noi vogliamo solo mettere ogni giorno gli occhi della nostra intelligenza e del nostro cuore nel volto amatissimo del Signore. Perché da lì nasca un’intelligenza nuova, di noi e del mondo. Un cuore nuovo che ci fa amare ogni uomo che viene in questo mondo come parte del mistero di Cristo che ci si rivela. Che ci faccia sentire l’utilità del nostro tempo e della nostra vita soltanto come affermazione di Cristo e non come affermazione del nostro potere. Questo vogliamo.

Affidiamo alla Vergine la Santa Chiesa di Dio perché la letizia che scaturisce dalla fede sappia portare anche il peso del sacrificio della nostra vita quotidiana – della vita di tutta la Chiesa come di quella di ciascuno di noi – così da rendere inscindibile un binomio, che per la mentalità mondana sembra impossibile: letizia e sacrificio.

E così sia.

Fonte: http://it.paix-liturgique.org/

Il valore della Santa Messa detto da venti Santi

Sancta Missa 230

di Paolo Tescione

Soltanto in Cielo comprenderemo quale divina meraviglia sia la Santa Messa. Per quanto ci si sforzi e per quanto si sia santi ed ispirati, non si può che balbettare su quest’Opera Divina che trascende gli Uomini e gli Angeli. Ed allora abbiamo chiesto…. a 20 santi, un parere ed un pensiero sulla Santa Messa. Ecco che cosa siamo in grado di farvi leggere.

Un giorno, fu chiesto a Padre Pio da Pietrelcina:
“Padre, spiegateci la Santa Messa”.
“Figli miei – rispose il Padre – come posso spiegarvela?
La Messa è infinita, come Gesù…
Chiedete ad un Angelo cosa sia una Messa ed egli vi risponderà, con verità:
“Capisco che è e perché si fa, ma non comprendo, però, quanto valore abbia.
Un Angelo, mille Angeli, tutto il Cielo sa questo e così pensano”.

Sant’Alfonso de’ Liguori arriva ad affermare:
“Dio Stesso non può fare che vi sia un’azione più santa e più grande della Celebrazione di una Santa Messa”.

San Tommaso d’Aquino, con frase luminosa, scrisse:
“Tanto vale la Celebrazione della Santa Messa, quanto vale la Morte di Gesù in Croce”.

Per questo, San Francesco d’Assisi diceva:
“L’Uomo deve tremare, il Mondo deve fremere, il Cielo intero deve essere commosso, quando sull’Altare, tra le mani del Sacerdote, appare il Figlio di Dio”.

In realtà, rinnovando il Sacrificio della Passione e Morte di Gesù, la Santa Messa è cosa tanto grande da bastare, Essa sola, a trattenere la Giustizia Divina.

Santa Teresa di Gesù diceva alle sue figlie:
“Senza la Santa Messa che cosa sarebbe di noi?
Tutto perirebbe quaggiù, perché soltanto Essa può fermare il braccio di Dio”.
Senza di Essa, certamente, la Chiesa non durerebbe e il Mondo andrebbe disperatamente perduto.

“Sarebbe più facile che la Terra si reggesse senza Sole, anziché senza la Santa Messa” – affermava Padre Pio da Pietrelcina, facendo eco a San Leonardo da Porto Maurizio, che diceva:
“lo credo che, se non ci fosse la Messa, a quest’ora il Mondo sarebbe già sprofondato sotto il peso delle sue iniquità. È la Messa il poderoso sostegno che lo regge”.

Gli effetti salutari, poi, che ogni Sacrificio della Santa Messa produce nell’Anima di chi vi partecipa, sono ammirabili:
· ottiene il pentimento e il perdono delle colpe;
· diminuisce la pena temporale dovuta ai peccati;
· indebolisce l’impero di Satana e i furori della concupiscenza;
· rinsalda i vincoli dell’incorporazione a Cristo;
· preserva da pericoli e disgrazie;
· abbrevia la durata del Purgatorio;
· procura un più alto grado di gloria in Cielo.

“Nessuna lingua umana – dice San Lorenzo Giustiniani – può enumerare i favori dei quali è sorgente il Sacrificio della Messa:
· il peccatore si riconcilia con Dio;
· il giusto diviene più giusto;
· sono cancellate le colpe;
· annientati i vizi;
· alimentati le virtù e i meriti;
· confuse le insidie diaboliche”.

Se è vero che tutti noi abbiamo bisogno di Grazie, per questa e per l’altra vita, nulla può ottenercele da Dio come la Santa Messa.

San Filippo Neri diceva:
“Con l’orazione noi domandiamo a Dio le Grazie; nella Santa Messa costringiamo Dio a darcele”.

In particolare, nell’ora della morte, le Messe, devotamente ascoltate, formeranno la nostra più grande consolazione e speranza e una Santa Messa, ascoltata durante la vita, sarà più salutare di molte Sante Messe, ascoltate da altri per noi dopo la nostra morte.

“Assicurati – disse Gesù a San Gertrude – che, a chi ascolta devotamente la Santa Messa, Io manderò, negli ultimi istanti della sua vita, tanti dei miei Santi, per confortarlo e proteggerlo, quante saranno state le Messe da lui bene ascoltate”.
Quanto è consolante ciò!

Aveva ragione il Santo Curato d’Ars di dire:
“Se conoscessimo il valore del Santo Sacrificio della Messa, quanto maggiore zelo porremmo per ascoltarla!”.

E San Pietro G. Eymard esortava:
“Sappi, o Cristiano, che la Messa è l’atto più santo della Religione: tu non potresti far niente di più glorioso a Dio, né di più vantaggioso alla tua Anima che di ascoltarla piamente e il più sovente possibile”.

Per questo, dobbiamo stimarci fortunati, ogni qual volta che ci è offerta la possibilità di ascoltare una Santa Messa, né tirarci mai indietro di fronte a qualche sacrificio per non perderla, specialmente nei giorni di precetto (Domenica e Feste).

Pensiamo a Santa Maria Goretti che, per andare a Messa nel giorno di Domenica, percorreva a piedi, tra andata e ritorno, 24 chilometri!

Pensiamo a Santina Campana, che si recava a Messa con la febbre altissima.

Pensiamo a San Massimiliano M. Kolbe, che celebrava la Santa Messa anche quando era in condizioni di salute così pietose che un confratello doveva sostenerlo, all’Altare, affinché non cadesse.

E quante volte Padre Pio da Pietrelcina celebrò la Santa Messa, febbricitante e sanguinante?

Nella nostra vita d’ogni giorno, dobbiamo preferire la Santa Messa ad ogni altra cosa buona, perché, come dice San Bernardo:
“Si merita di più ascoltando devotamente una Santa Messa, che con il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze e con il girare pellegrinando su tutta la Terra”.
E non può essere diversamente, perché nessuna cosa al Mondo può avere il valore infinito di una Santa Messa.

Tanto più… dobbiamo preferire la Santa Messa ai divertimenti, in cui si sciupa il tempo senza nessun vantaggio per l’Anima.

San Luigi IX, re di Francia, ascoltava ogni giorno diverse Messe.
Qualche Ministro se ne lamentò, dicendo che poteva dedicare quel tempo agli affari del Regno.
Il Santo Re disse:
“Se impiegassi doppio tempo nei divertimenti… nella caccia, nessuno avrebbe da ridire”.

Siamo generosi e facciamo volentieri qualche sacrificio per non perdere un bene così grande!

Sant’Agostino diceva ai suoi Cristiani:
“Tutti i passi che uno fa per recarsi ad ascoltare la Santa Messa sono da un Angelo numerati e sarà concesso da Dio un sommo premio, in questa vita e nell’eternità”.

E il Santo Curato d’Ars aggiunge:
“Com’è felice quell’Angelo Custode che accompagna un’Anima alla Santa Messa!”.

San Pasquale Baylon, piccolo pastorello, non poteva recarsi in Chiesa ad ascoltare tutte le Messe che avrebbe desiderato, perché doveva portare le pecore al pascolo e, allora, ogni volta che udiva la campana dare il segnale della Santa Messa, s’inginocchiava sull’erba, fra le pecorelle, davanti ad una croce di legno, fatta da lui stesso, e seguiva così, da lontano, il Sacerdote che stava offrendo il Divin Sacrificio.
Caro Santo, vero serafino d’Amore eucaristico! Anche sul letto di morte egli udì la campana della Messa ed ebbe la forza di sussurrare ai confratelli:
“Sono contento di unire al Sacrificio di Gesù quello della mia povera vita”.
E morì, alla Consacrazione!

Una mamma di otto figli, Santa Margherita, Regina di Scozia, si recava e conduceva con sé i figli a Messa tutti i giorni; con materna premura insegnava loro a considerare come tesoro il messalino, che ella volle adornare di pietre preziose.

Ordiniamo bene le nostre cose, in modo da non farci mancare il tempo per la Santa Messa.
Non diciamo di essere troppo impegnati in faccende, perché Gesù potrebbe ricordarci:
“Marta… Marta… tu ti affanni in troppe cose, invece di pensare all’unica cosa necessaria!” (Lc. 10,41).

Quando si vuole, veramente, il tempo per andare a Messa si trova, senza venir meno ai propri doveri.

San Giuseppe Cottolengo raccomandava a tutti la Santa Messa quotidiana:
agli insegnanti, alle infermiere, agli operai, ai medici, ai genitori… e a chi gli opponeva di non avere il tempo per andarci, rispondeva deciso:
“Cattiva economia del tempo! Cattiva economia del tempo!”.

È così!
Se veramente pensassimo al valore infinito della Santa Messa, brameremmo parteciparvi e cercheremmo, in tutti i modi, di trovare il tempo necessario.
San Carlo da Sezze, andando in giro per la questua, a Roma, faceva le sue soste presso qualche Chiesa, per ascoltarvi altre Messe e, proprio durante una di queste Messe in più, ebbe il dardo d’Amore al cuore al momento dell’elevazione dell’Ostia.

San Francesco di Paola, ogni mattina, si recava in Chiesa e si tratteneva, là dentro, ad ascoltare tutte le Messe che si celebravano.

San Giovanni Berchmans – Sant’Alfonso Rodriguez – San Gerardo Maiella, ogni mattina, servivano più Messe che potevano e con un contegno così devoto da attirare molti fedeli in Chiesa.

Che dire, infine, di Padre Pio da Pietrelcina?
Erano tante le Messe in cui era presente, ogni giorno, partecipandovi con la recita di tanti Rosari?

Non sbagliava davvero il Santo Curato d’Ars a dire che “la Messa è la devozione dei Santi”.

Lo stesso bisogna dire dell’Amore dei Santi Sacerdoti alla celebrazione della Messa:
non poter celebrare era per loro una sofferenza terribile.
“Quando sentirai che non posso più celebrare, tienimi per morto” – arrivò a dire ad un Confratello San Francesco Saverio Bianchi.

San Giovanni della Croce fece capire che lo strazio più grande, patito durante il periodo delle persecuzioni, fu quello di non poter celebrare la Messa, né ricevere la Santa Comunione per nove mesi continui.

Ostacoli o difficoltà non contavano per i Santi, quando si trattava di non perdere un bene così eccelso.

Dalla vita di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, sappiamo che, un giorno, in una via di Napoli, il Santo fu assalito da violenti dolori viscerali.
Il Confratello, che l’accompagnava, lo esortò a fermarsi per prendere un calmante, ma il Santo non aveva ancora celebrato e rispose di scatto al confratello:
“Caro mio, camminerei così dieci miglia, per non perdere la Santa Messa”.
E non ci fu verso di fargli rompere il digiuno (a quei tempi… obbligatorio dalla mezzanotte).
Aspettò che i dolori si calmassero un po’ e riprese, poi, il cammino fino in Chiesa.

San Lorenzo da Brindisi, Cappuccino, trovandosi in un paese d’eretici, senza Chiesa Cattolica, fece quaranta miglia a piedi per raggiungere una Cappella, tenuta da Cattolici, in cui poter celebrare la Santa Messa.

Anche San Francesco di Sales si trovò in paese protestante e per celebrare la Santa Messa doveva recarsi, ogni mattina, prima dell’alba, in una Parrocchia Cattolica, che si trovava al di là di un grosso torrente.
Nell’autunno piovoso, il torrente s’ingrossò più del solito e travolse il piccolo ponte su cui passava il Santo, ma San Francesco non si scoraggiò, gettò una grossa trave là dov’era il ponte e continuò a passare, ogni mattina.
D’inverno, però, con il gelo e con la neve, c’era serio pericolo di sdrucciolare e cadere nell’acqua. Allora, il Santo s’ingegnò, mettendosi a cavalcioni sulla trave, strisciando carponi, andata e ritorno, pur di non restare senza la Celebrazione della Santa Messa!

Noi non rifletteremo mai abbastanza sul Mistero ineffabile della Santa Messa, che riproduce sui nostri altari il Sacrificio del Calvario, né ameremo mai troppo questa suprema meraviglia dell’Amore Divino.

“La Santa Messa – scrive San Bonaventura – è l’Opera in cui Dio ci mette sotto gli occhi tutto l’Amore che ci ha portato; è, in un certo modo, la sintesi di tutti i benefici elargitici”.

fonte: diariodeglieremiti.wordpress.com

Tradizione e Vaticano II

di p. Serafino M. Lanzetta, FI

FFI 11

1. La Tradizione della Chiesa

Uno dei tabù post-moderni più insidiosi, dal quale fino a qualche anno fa bisognava necessariamente emanciparsi nella Chiesa, è stato il lemma “Tradizione”. Il rischio, sempre ricorrente, è quello di emanciparsi però non solo da uno slogan, da una parola, per coniarne una nuova, ma dalla Chiesa stessa, che dalla Tradizione è strutturata e della Tradizione vive.

Infatti, in diversi livelli ecclesiali, il processo del rinnovamento conciliare, doveva passare necessariamente attraverso un ammodernato concetto di Traditio, che non ripetesse semplicemente quello che era stato già detto nei secoli precedenti, ma che desse alla stessa Chiesa un vigore nuovo e potesse essere inteso come dinamicità intrinseca, come vivezza del mistero, come progressività in una conoscenza biblica sempre più matura e intelligente, fino a scartare come non cattolico, quanto nella Bibbia non risultasse letteralmente scritto. La Tradizione doveva passare attraverso il filtro delle Scritture, viste in qualche modo come sua stessa possibilità e come suo metro di valutazione teologica. Senza dubbio si è verificata una “concentrazione scritturistica” mai prima conosciuta. Con tutti i pregi per aver favorito la sua conoscenza in virtù del metodo della lectio divina, accanto a nuovi problemi non meno significativi: la sua “volgarizzazione” ha favorito in molti, in diversi esegeti e anche in alcuni cristiani, un approccio soggettivistico. Smarrito il canone della Traditio, la Scrittura perde il suo stesso humus vitale dal quale è fiorita, la sua identità. Ridimensionando la Tradizione la Scrittura è stata allontanata dalla Chiesa e tutti ne sono diventati autorevoli interpreti

Il “problema Tradizione” però era un falso problema. Non c’era un’opposizione irriducibile tra Scrittura e Tradizione, per il semplice fatto che gli agiografi avevano scritto quanto il Signore aveva detto e quanto gli Apostoli avevano insegnato nella loro predicazione. Regola della fede sono le Scritture canoniche in quanto consegnate alla Chiesa, ispirate da Dio in ragione del fatto che, quei fedeli agiografi, avevano ricevuto dalla Chiesa per mano degli Apostoli quelle Parole, trasmesse con l’assistenza dello Spirito Santo. La Tradizione andava a costituire le Scritture e le Sacre Scritture diventavano il canone fisso di un dogma maturato in una compagine viva, nella Chiesa del Dio vivo, che così, con la sua stessa vita, diventava metro ultimo e prossimo della cattolicità. Perciò, la Bibbia non escludeva la Tradizione, né lo potrebbe. Molti, facendo leva su un’accennata distinzione dogmatica tra Scrittura e Tradizione di Dei Verbum – Tradizione è solo la predicazione apostolica e solo la trasmissione della Parola di Dio? (cf. Dei Verbum 9), oppure l’intera comprensione e trasmissione della fede, principiante dalla predicazione ed estesa a tutta la Chiesa, in ragione del Magistero ecclesiastico? –, e sul fatto che la classica distinzione delle due fonti della divina Rivelazione fu accantonata per chiari motivi pastorali ed ecumenici del Vaticano II, hanno favorito uno smarrimento della divina Tradizione, per fare spazio solo alla Bibbia, che facilmente però, come diecevamo, scade nel libero esame, in una fede adogmatica, che oggi si direbbe “fai da te”. Si è smarrito il criterio dell’essere cristiani. La forma del cattolicesimo. Non basta la Bibbia, è necessaria anche la Chiesa. Quel «non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa», rivolto da S. Agostino ai donatisti, oggi è di un’attualità imprescindibile e potrebbe essere riformulato anche così: non avrei il Vangelo, né lo capirei, se non mi venisse dato e spiegato dalla Chiesa. La Scrittura come regola di se stessa, del suo esserci, di barthiana memoria, non regge. C’è prima la Chiesa e poi la stesura del Vangelo, prima la trasmissione di quanto il Signore aveva detto e fatto e poi la sua elaborazione scritta. Questo “prima” è da intendersi in senso cronologico, che distingue in modo ontologico l’alterità tra Tradizione e Scrittura e ne determina la loro impossibile riduzione ad unum. Nella “Tradizione apostolica”, poi, che riceve e trasmette la Parola del Signore, s’innesta e si salda nell’unicità dello stesso tradere la “Tradizione ecclesiastica”, quale fedele deposito e l’accresciuta comprensione nel tempo della Chiesa di quelle verità di fede, che sempre identiche, crescono con colui che le medita, lasciando alla Chiesa il compito di scrutarle, di interpretarle rettamente e di insegnarle senza possibilità di errore. Anche quando le Parole del Signore furono messe per iscritto, la Tradizione (orale) non perse la sua efficacia, non solo al fine di interpretare rettamente le divine Scritture, ma per approfondire la stessa fede. Così, con quella divina suggestio dello Spirito Santo (cf. Gv 14,26), si arrivò alla comprensione e alla definizione di verità, quali la Verginità perpetua di Maria, l’Immacolata Concezione, il numero settenario dei Sacramenti, ecc.: non altre verità, ma quelle che il Signore aveva insegnato e che la Tradizione aveva ininterrottamente consegnato, attraverso le Scritture e attraverso la trasmissione orale dell’unico insegnamento del Signore Gesù. Unico è il deposito della fede, identico e immutabile, due però le vie, i rivoli se si vuole, per riceverlo e ritrasmetterlo accresciuto fino a quando il Signore verrà: quella scritta e quella orale.

Come si vede, Tradizione non è un elemento opzionale, facilmente superabile tacendone la sua essenza o riducendolo al mero momento dell’interpretazione scritturistica. Non è neanche un discrimen politico, come purtroppo da diversi anni a questa parte viene inteso. Sì, forse è stata questa la ragione del suo progressivo accantonamento: una Chiesa (politicamente) più aperta al domani, al progresso, al mondo, all’evoluzione (-ismo), avrebbe dovuto rinunciare al dato antico, al suo passato, al suo ieri, immagine di una Chiesa fissista. L’oggi invece è, per tanti, quello di una Chiesa capace d’avanguardie. Emanciparsi dalla Tradizione (dal mistero in definitiva) era l’urgenza dei tempi nuovi. Anche qui però si era impostato il problema in modo surrettizio: la Tradizione non era l’identità di un partito conservatore della Chiesa, era ed è la sua vita, la sua possibilità di essere, ieri come oggi. Se si rinuncia alla Tradizione, dimenticando quello che la Chiesa era, si smarrisce il vero fine di quello che la Chiesa dovrà essere. Un ritorno alla genuina e cattolica identità della Chiesa, è indispensabile per superare le divisioni nell’unico Corpo di Cristo e per dare speranza al futuro come presenza dell’unico ed indiviso Cristo nel mondo, per mezzo della Chiesa.

 2. Il dato della Tradizione in Dei Verbum:

I numeri della Costituzione sulla Divina Rivelazione riguardanti la Tradizione orale che maggiormente ci interessano sono il n. 9 e 10, i quali recitano rispettivamente:

 «La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio – affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli – ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l’una e l’altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza» (n. 9).

 «È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime» (n. 10).

 3. Il dato della Tradizione in Trento e nel Vaticano I

L’insegnamento relativo alla Tradizione, letta nelle “tradizioni non scritte”, è contenuto nel decreto Sacrosancta del Concilio di Trento, promulgato nella IV sessione dell’8 aprile 1546, che dice:

 «[…] il sinodo sa che questa verità e disciplina è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte, che raccolte dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo e dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, tramandate quasi di mano in mano, sono giunte fino a noi, seguendo l’esempio dei padri della vera fede, con eguale pietà e venerazione accoglie e venera tutti i libri, sia dell’antico che del nuovo Testamento, essendo Dio autore di entrambi, e così pure le tradizioni stesse, inerenti alla fede e ai costumi, poiché le ritiene dettate dalla bocca dello stesso Cristo o dallo Spirito Santo, e conservate nella chiesa cattolica in forza di una successione mai interrotta»1.

 Secondo alcuni critici, tra i quali J.R. Geiselmann, Y. Congar, P. de Vooght, scomparsa nel testo tridentino definitivo la particella partim e sostituita con la congiunzione et, alquanto innocua, da sola sarebbe stata incapace di definire la Tradizione come canale della Rivelazione, distinto e indipendente dalla Scrittura. Per questi autori, il Concilio di Trento avrebbe assunto con l’et una posizione descrittiva più che esplicativa, limitandosi ad affermare che accanto alla Scrittura ci sono anche tradizioni apostoliche non scritte. Così arrivavano alle seguenti conclusioni:

a)     la Scrittura contiene tutta la rivelazione («principio, questo, comune sia ai cattolici che ai protestanti, della sufficienza materiale della “Scriptura sola”»);

b)     la Scrittura per essere rettamente capita necessita della Tradizione (principio dell’insufficienza formale delle Scritture, non in comune con i protestanti);

c)      di conseguenza la Tradizione ha solo una funzione interpretativa e dichiarativa della Scrittura.

 In realtà, come ripeterà il Vaticano I, la Chiesa attinge e dalla Scrittura e dalle tradizioni non scritte la sua fede. Pertanto, c’è anche una Tradizione costitutiva della fede.

Il testo principale del Vaticano I, che tratta della Tradizione, è la Costituzione Dei Filius, promulgata nella III sessione del 24 aprile 1870 che, mentre riproduce quasi letteralmente il decreto Sacrosancta del Tridentino, s’intrattiene più diffusamente sulla Scrittura, per rispondere ai problemi e alla necessità di quel tempo. I Padri del Vaticano I chiedono fondamentalmente due cose al primigenio testo della Commissione dottrinale: riprodurre fedelmente il testo del Tridentino, e togliere quelle piccole aggiunte che erano state apportate. Così recita il testo definitivo:

 «Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede della chiesa universale, proclamata dal santo concilio di Trento, è contenuta “nei libri scritti e nella tradizione non scritta, che, ricevuta dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo o trasmessa quasi di mano in mano dagli stessi apostoli, per ispirazione dello Spirito Santo, è giunta fino a noi”»2.

 Il padre francescano Umberto Betti, acuto conoscitore del Vaticano I, membro della Commissione dottrinale del Vaticano II e relatore sul cap. II della Dei Verbum, commentando questo testo della Dei Filius, riconosce che anche nelle precedenti formulazioni del testo, «mai è affiorato qualche dubbio sull’uguale importanza della parola di Dio scritta e non scritta». Pertanto «non è arbitrario pensare che se i Padri conciliari ne avessero avuto l’occasione avrebbero dato anche sulla Tradizione un insegnamento ufficiale conforme alla convinzione comune che ne avevano. Ed essa era appunto che la Tradizione è fonte di rivelazione nello stesso modo che lo è la Scrittura»3.

 4. Un “nuovo” concetto di Tradizione o una scelta pastorale del Vaticano II?

Perché però il Vaticano II preferisce non ritornare sulla dottrina delle due fonti della Rivelazione – magari anche migliorando il lemma “fonte” con uno nuovo più perfetto dal punto di vista teologico – e spiegare la Tradizione come trasmissione della Parola di Dio e dell’insegnamento degli Apostoli, tralasciando la definizione ormai matura e opportuna della insufficienza materiale delle Scritture? Chiaramente, qui si enuclea il fine del Concilio che è pastorale e una delle sue principali preoccupazioni: l’ecumenismo nel dialogo con gli esponenti della Riforma. Il fine del Concilio permea anche un documento così importante quale la Costituzione sulla Divina Rivelazione. La non-infallibilità (generale o generica) dei documenti del Vaticano II, che non significa affatto fallibilità ma unicamente non-definitività, perciò suscettibilità di verifica e di miglioramento, in vista di un eventuale pronunciamento ex cathedra, in questo caso, mentre spiega la ragione di una scelta e di una riduzione così importanti, diventa sprone per un’analisi attenta, in ragione soprattutto degli effetti deleteri di un’ermeneutica della discontinuità applicata alla Costituzione sulla Divina Rivelazione rispetto al patrimonio dottrinale della Chiesa su questo dato così centrale.

Perciò, non si può prescindere dalla scelta pastorale del Concilio, quale vero metro di confronto dottrinale.

Questa scelta pastorale di dire la dottrina della Tradizione attraversa l’intero Concilio e limita, allo stesso tempo, anche l’insegnamento propriamente dogmatico al tempo che si voleva incontrare, nulla vietando che il Magistero possa nuovamente pronunciare su questo tema in modo definitivo, chiarendo l’in sé della Tradizione della Chiesa, e riprendendo così quanto era già unanime. Non è in discussione l’opportuno approfondimento teologico del concetto di “Rivelazione”, ma la cogenza della Tradizione, oggi e domani, per la costituzione della fede cattolica.

Dalla Dei Verbum in poi c’è stata comunque una vera svolta teologica. La Tradizionenormalmente è presentata come sola trasmissione della Scrittura. È solo un caso il possente biblicismo impostosi a scapito della Parola di Dio letta nella fede della Chiesa e interpretata con un’esegesi veramente teologica e non solo o meramente storico-critica?

Si è verificata una vera inversione che puntualmente viene così sintetizzata da Mons. Gherardini:

 «…la disgregazione dell’identità cattolica, dovuta ad un’insostenibile reinterpretazione delle fonti cristiane, con conseguente alterazione dei dati storici, relativizzazione della parola di Dio orale e scritta  e una rilettura della Tradizione apostolica sullo sfondo dello storicismo hegeliano e del relativismo dottrinale4.

 È prevalso poi l’attributo “vivente” applicato alla Tradizione, inteso come progresso in sé, mutazione evolutiva, non nell’alveo dell’eodem sensu eademquae sententia, ma del nuovovoluto per se stesso e spesso in contraddizione con l’antico. Facendo ingresso la categoria “storia” nell’impianto della fede, la fede stessa, libera da un canone quale regola fidei proximaet norma normans fidei, ovvero la Tradizione, è stata soggetta ad ogni divenire. Anche al divenire della fede. Quell’adattamento al mondo era possibile perché la fede poteva diventare anche altro, poteva assumere anche un’altra forma da quella cattolica.

La Tradizione della Chiesa, invece, è un baluardo di difesa, un vero progresso, è il criterio della verità, la sua misura, perché radicata nella verità di Cristo. Di quell’unica verità è annunziatrice, di quella Verità che ininterrottamente ci raggiunge oggi, ed è la sola che può assicurare alla fede la sua consistenza e durata, ieri come oggi e nel futuro.

Non si tratta di fare un processo al Vaticano II, ma di vedere con realismo i punti di svolta rispetto alla dottrina definita sulla Tradizione (orale). Questo non per affossare il Concilio, ma per capirlo correttamente e collocarlo nella sua giusta dimensione: non un tutto o il tutto della fede, ma uno sforzo di dialogo pastorale che certamente promana dalla dottrina, che però talvolta risente, in larga misura, dello stesso sforzo pastorale ed ecumenico.

NOTE

1. DH 1501.

2. DH 3006.

3.  U. Betti, La Tradizione è una fonte di rivelazione?, in «Antonianum» 38 (1963) 41.

4. B. Gherardini, Quod et tradidi vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Frigento 2010, p. 230.

 

Fonte: http://www.conciliovaticanosecondo.it/

In che senso l’Eucarestia è sacrificio

di don Ivo Cisar

Comunione 23

da “Palestra del Clero” 73 (1994), 215-217

 Pur ricorrendo il termine “sacrificio” più di una volta nelle preci eucaristiche, specialmente nella prima e nella terza, oltre che in varie orazioni, nell’offertorio e nelle parole della consacrazione, molti fedeli, soprattutto i giovani, non sanno che l’eucaristia è anche e principalmente sacrificio, e che cosa significhi questo termine. Si parla molto della messa come liturgia della Parola (di Dio) e come banchetto-cena, poco del fatto che essa è sacrificio. Che vi sia un cedimento al protestantesimo? Per i protestanti l’eucaristia non è sacrificio, perché porterebbe pregiudizio all’unicità del sacrificio di Gesù sulla croce. Inoltre, nel linguaggio corrente, la parola “sacrificio” ha una connotazione negativa, oltre che puramente profana, come quando si parla dei “sacrifici” fatti per i figli, ecc.

Alcuni teologi odierni danno spiegazioni erronee o incomplete del sacrificio eucaristico, o addirittura di quello in genere, anche rifiutando troppo frettolosamente, come se fosse sbagliata, la concezione del sacrificio nelle religioni. Così alcuni (Ch. Biscontin) lo descrivono come dono di Dio, vale a dire “in linea discendente”, confondendolo così con i sacramenti, mentre esso si svolge “in linea ascendente”. Si ha l’impressione che, come in generale, si esageri alla maniera protestante presentando tutto unilateralmente come dono di Dio (lo è, ma non solo), secondo i princìpi della sola gratia, sola fides, e comprimendo la parte umana. Altri teologi (come R. Falsini, in “Vita Pastorale” 1994, 2, 8) riducono il concetto di sacrificio a quello di memoriale, liquidando con disinvoltura la teologia postridentina invece di approfondirla. Certamente il sacrificio eucaristico è “sacramento”-memoriale-anamnesi di quello della croce attraverso quello della Cena: questo è vero, ma non è tutto. Molti rifiutano il concetto di sacrificio, perché pensano che esso esprima un atteggiamento sanguinario della divinità da placare mediante la morte.

Ma già biblisti come S. Lyonnet e teologi come padre Philippe de la Trinité hanno avvertito che la funzione del sangue nel sacrificio di Gesù si rifà ai “sacrifici nel sangue” dell’Antico Testamento, quali quello liberatorio dell’agnello pasquale (Es 12,3-14; cfr. Gv 19,36), quello dell’alleanza (Es 24,6-8; cfr. Eb 9,19-22; Mt 26,28 par.), quello purificatorio di propiziazione (Lv 16,14-15; cfr. 1Gv 2,2; 4,10).

Inoltre, nell’ambito della scienza delle religioni, il mio venerato Maestro mons. Giuseppe Graneris ha dimostrato, sulla scia di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, che il fine del sacrificio e il significato originario della stessa parola “immolazione” (il senso della parola proviene dall’uso, proprio della religione romana di cospargere la vittima sacrificale con la mola salsa, mistura di farro tostato e sale preparata dalle Vestali in tre particolari giorni dell’anno sacrale: immolare est mola, id est farre molito et sale, hostiam perspersam sacrare, Festo, De verborum significatu, p. 97 Lindsay, sv.Immolare), non è la distruzione, ma la trasformazione della vittima, renderla sacra (sacrum facere) trasferendola nella sfera divina: è un dono fatto a Dio in segno della propria assoluta sottomissione. Non si offrono, infatti, a Dio soltanto animali, ma anche i frutti della terra (cfr. Gn 14,18; Eb 5-7), specialmente le primizie. La mactatio è solo il mezzo per realizzare un’offerta. (su tutto ciò G. Graneris, La vita della religione nella storia delle religioni, Torino, Sei, 1980, 201-299; per sant’Agostino cfr. pure CCC 2099). La morte di Cristo poi è la conseguenza del peccato degli uomini (Rm 5,12; 6,23; Fil 2,8; Gv 1,29), ma anche il mezzo del passaggio di Gesù al Padre (Gv 13,1).

Non è pertanto fuori luogo tentare di approfondire la teoria del sacrificio sul tronco della dottrina esposta egregiamente da Pio XII nell’enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947), nella parte II, 1, in cui egli si rifà al dogma tridentino (Sess. XXII, DS 1738-1759, cfr. CCC 1367). Pio XII spiega che “la divina sapienza ha trovato il modo mirabile di rendere manifesto il sacrificio del nostro Redentore con segni esteriori che sono simboli di morte. Giacché, per mezzo della transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche, poi, sotto le quali è presente, simboleggiano la cruenta separazione del corpo e del sangue. Così il memoriale della sua morte reale sul Calvario si ripete in ogni sacrificio dell’altare, perché per mezzo di simboli distinti (per distinctos indices) si significa e dimostra che Gesù Cristo è in stato di vittima“. Non si vorrà negare che il sacrificio di Gesù sulla croce sia consistito nella sua passione e morte (la risurrezione è propriamente il suo effetto, la risposta del Padre), e che il sacramento, in quanto segno sacro, deve in qualche maniera significarlo. È ovvio che l’essenza del sacrificio è l’atto interiore di oblazione-amore.

Ma perché il sacrificio della croce si rinnova sull’altare? Già sant’Agostino scrisse che Cristo sacerdote volle un sacrificio della Chiesa, perché Lei, suo corpo, imparasse a offrire sé stessa per mezzo suo (Sant’Agostino, De civitate Dei 10,20, cfr. pure CCC 1372). Anche il Concilio di Trento insegna che Cristo ha lasciato alla Chiesa sua Sposa un sacrificio visibile, perché in esso venisse offerto dai sacerdoti per l’applicazione della virtù salvifica del suo sacrificio (Sess. XXII, cap. 1; DS 1740-1741).

Pertanto si può dire che il sacrificio eucaristico è semplicemente applicativo da parte di Cristo, essendo memoriale-rinnovamento sacramentale del suo unico sacrifico della croce, ma comporta insieme una novità da parte della Chiesa, cioè di noi, in quanto dobbiamo appropriarci del sacrificio di Cristo, inserendoci in esso, diventando insieme con Lui vittime che si offrono, consacrano, donano filialmente a Dio Padre. Questa offerta di noi stessi s’inizia nell’offertorio in cui la Chiesa presenta, in segno della propria offerta, i suoi poveri doni di pane e vino. Questi poi vengono trasformati, (transustanziati, s’intende) nella consacrazione, e così devoluti nella sfera divina, divenendo corpo e sangue di Cristo. Ma nel momento stesso e con l’atto stesso con cui si perfeziona il sacrificio della Chiesa (in tale senso “assoluto”), esso diventa tutt’uno con il sacrificio di Cristo, sacramentalmente presente e operante (sacrificio relativo). Qualcuno ha paragonato l’altare al talamo nuziale di Cristo e della Chiesa e vi si può applicare la parola di san Giovanni Battista sulla sua funzione di amico dello sposo di unire lo sposo e la sposa (Gv 3,29): è il compito del sacerdote celebrante (cfr. LG 10b; grazie al sacerdozio ministeriale si attua ed esercita il sacerdozio comune dei fedeli; cfr. anche Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis 16). Infine, a opera dello Spirito Santo, come è avvenuta la consacrazione, così avviene anche poi (vedi le due epiclesi, prima e dopo la consacrazione), nella santa comunione, il passaggio delle nostre persone nella sfera divina, in qualità di figli di Dio Padre, destinati alla risurrezione futura, della quale l’eucaristia è il germe. Effetto del sacrificio, quindi, è la vita divina in noi (grazia), mentre mezzo ne è la morte al peccato (cfr. Eb 9,23-28).

In quest’azione il sacerdote celebrante si unisce a Cristo vittima: è vittima, perché sacerdote (cfr. PO 13), mentre i fedeli esercitano il loro sacerdozio comune, in quanto vittime, offerenti e consacranti sé stessi a Dio Padre (cfr. LG 11a; PO 5c).

Da questi cenni segue l’importanza della partecipazione spirituale al sacrificio eucaristico, già a partire dall’offertorio, in cui presentiamo a Dio noi stessi mediante i doni simbolici; poi la necessità della partecipazione spirituale (“sacrificio spirituale e perfetto”, del Canone Romano, “sacrificio perenne a te gradito”, Preghiera eucaristica III) alla consacrazione e alla relativa preghiera del Canone. Per partecipare con frutto alla santa messa (cfr. SC 48a, 59a) bisogna che impariamo a offrirci con Cristo e mediante Lui a Dio Padre, quali figli obbedienti (cfr. Eb 5,8). Mentre durante la liturgia della Parola aderiamo a Dio mediante la fede (professata poi esplicitamente nel Credo), nella liturgia eucaristica esercitiamo prima la carità verso Dio Padre, consistente nell’osservanza dei suoi comandamenti (cfr. 1Gv 5,3), nella sua parte sacrificale, e poi la speranza, in quanto la santa comunione eucaristica ci viene data come pegno della nostra risurrezione futura (cfr. Gv 6,54; 11,25).

La Dottrina cattolica sulla S. Messa

Sancta Missa 257

Per comprendere il messale promulgato nel 1568 da san Pio V (e leggermente modificato dal beato Giovanni XXIII nel 1962), sono necessarie alcune notazioni previe sugli errori degli eretici protestanti riguardo alla dottrina sulla santa Messa. Essi riducevano la Messa ad un semplice memoriale, un ricordo della cena del Signore, durante la quale vi sarebbe soltanto una certa Sua assistenza spirituale, ma non la Sua Presenza Reale, la transustanziazione: trasformazione del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo. Tutto deve lasciar trasparire che si tratta di una semplice cena memoriale, di una cerimonia totalmente umana, di una cerimonia in cui prevale l’orizzontalità della comunicazione, di una cerimonia caratterizzata, in prevalenza, dal dialogo fra presidente e assemblea, per cui:

– l’altare sacrificale viene sostituito con il tavolo conviviale;

– viene introdotto l’uso della lingua del popolo al posto della lingua latina;

– non vi è sacerdozio fuori di quello che possiedono tutti i battezzati. Il celebrante, dunque, non è un sacerdote diverso da come lo è il popolo, ma soltanto presidente di un’assemblea di fedeli che è essa stessa a celebrare il memoriale;

– viene cambiata la formula della consacrazione: scompare ogni distinzione tonale (“segretamente”), gestuale (“chinato sopra l’Ostia”) e tipografica appunto perché non esiste distinzione, tutto è narrazione, ricordo di un qualcosa avvenuto in passato, avvenuto una volta e basta.

Il Concilio di Trento ci ha ricordato gli elementi obbligatori della fede cattolica circa la S. Messa, condannando così le negazioni protestanti.

Anzitutto afferma che la S. Messa è un sacrificio vero e proprio, nel quale sotto le apparenze sensibili del pane e del vino si offre dal sacerdote a Dio sull’Altare, il Corpo e il Sangue di Cristo istituito nell’Ultima Cena, quando Gesù costituì gli apostoli sacerdoti e con essi i loro successori e diede loro il potere di offrire questo sacrificio.

La S. Messa non è solo un sacrificio di lode o di ringraziamento o soltanto una commemorazione del sacrificio della Croce, ma anche ed essenzialmente un sacrificio propiziatorio:¹ Esso rinnova e perpetua il Sacrificio del Calvario. Gesù Cristo è morto sulla Croce per tutti gli uomini, già vissuti, viventi e che vivranno, per soddisfare il debito della pena che esigeva la giustizia divina offesa dal loro peccato.

La S. Messa, come rinnovazione e perpetuazione del Sacrificio della Croce, è dunque anch’essa un vero sacrificio espiatorio e applica la soddisfazione della Croce per la remissione dei nostri peccati e della pena ad essi dovuta.

Il Concilio di Trento insegna ancora che sulla Croce e nella Messa una sola e identica è la vittima e identico è colui che allora offrì se stesso una sola volta sulla Croce; soltanto è diverso il modo di offrire: nella Messa s’immola in modo incruento per il ministero dei sacerdoti. Vi è identità tra la Santa Messa e il sacrificio della Croce, perché tanto sul Calvario che nella Messa una sola è la vittima e un solo sacerdote principale: Gesù Cristo; vi è anche diversità, ma solo nel modo di compierlo. Sulla Croce Cristo offrì direttamente se stesso e in modo cruento, sanguinoso; sull’Altare si offre indirettamente per mezzo dei sacerdoti e in modo incruento, senza spargimento di sangue, sotto le apparenze del pane e del vino offerte e consacrate separatamente. Gesù Cristo sulla Croce, dando volontariamente il suo Sangue, meritò ogni grazia per noi; invece sull’Altare Egli, senza spargere sangue, si sacrifica e si annienta misticamente e sacramentalmente, nel senso che le specie del pane significano il sacrificio del suo Corpo e quelle del vino lo spargimento del suo Sangue. In quanto vengono consacrate e offerte separatamente rappresentano la reale separazione del Corpo dal Sangue nella morte avvenuta sulla Croce. Il sacerdote celebrante, quale celebrante in Cristo, ci applica qui ed ora i meriti del sacrificio della Croce.

Non bisogna pensare dunque che la Santa Messa sia un nuovo sacrificio di Cristo, poiché Egli «si è offerto una volte per tutte allo scopo di togliere i peccati» (Eb 9, 28). Ma è anche vero che «Egli, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta; è sempre vivo per intercedere a nostro favore» (Eb 7,24-25; Rom 8,34). Il Sacrificio della Messa, dunque, non vanifica il Sacrificio della Croce, perché non è un altro Sacrificio.

I padri del Concilio sapevano perfettamente che la maggior parte dei fedeli che allora assistevano alla Messa non sapevano il Latino e neppure potevano leggere la traduzione essendo generalmente analfabeti ed illetterati. Ma sapevano anche che la Messa contiene molte parti di istruzioni per i fedeli. Tuttavia essi non approvarono la opinione dei Protestanti che fosse indispensabile celebrare la Messa solo in vernacolo [= in lingua volgare].

Al fine di favorire l’istruzione dei fedeli, il Concilio ordinò di mantenere ovunque l’antica tradizione approvata dalla Santa Chiesa Romana, la quale è madre e maestra di tutte le chiese, di aver cura cioè di spiegare alle anime il mistero centrale della Messa.

La lingua latina è, in primo luogo, una lingua sacra e solenne: aiuta il fedele ha comprendere la grandezza dell’evento che nella Messa si realizza (il rinnovarsi del Sacrificio del Calvario). Si tratta di un evento straordinario, non comune, che necessita, per essere espresso, di un linguaggio non comune, straordinario. Il latino ha questa caratteristica. Il latino, inoltre, quale lingua non soggetta ad evoluzione, rappresenta una precisa garanzia dell’ortodossia e della universalità o cattolicità della Chiesa, dell’immutabilità del dogma (cfr. Eb 13,8-9), compromessa dalle molteplici e non sempre felici traduzioni, peraltro bisognose di continui aggiornamenti.

¹Significa che il sacrificio della Messa viene offerto per i vivi e per i morti, per i peccati, le pene, le soddisfazioni e altre necessità

 

fonte: http://www.parrocchiasanmichele.eu/

Posizione e importanza del tabernacolo nelle chiese

Perché il Santissimo non si trova più nel presbiterio? Perché nel presbiterio troneggia la sedia del celebrante? Alcune riflessioni al riguardo…

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Nell’attuale periodo storico, in più diocesi italiane (ma anche all’estero) si registra un dibattito sulla conservazione delle ostie consacrate, al termine del Sacrificio Eucaristico. Per una lunga fase temporale, le Sacre Specie sono state conservate in un tabernacolo posto in posizione preminente nel presbiterio. Prima, sopra l’altare maggiore, poi – quando l’altare è stato rivolto verso l’assemblea dei fedeli – sempre in un luogo centrale, poggiato su un’apposita mensola. In tempi recenti, un sempre più alto numero di persone si sta accorgendo che, specie nelle chiese di recente costruzione, è posto al centro del presbiterio esclusivamente l’altare, mentre il tabernacolo è messo da parte, posizionato altrove. In alcuni casi (es. parrocchia Santa Paola Romana, Roma-Balduina), a troneggiare è la sedia del presidente dell’assemblea (quasi una “cattedra”), mentre il tabernacolo è posto sopra una colonnina a destra, in posizione defilata e con scarso decoro (esiste poi, semi-nascosta, una cappella dell’adorazione).
In altre situazioni, il Santissimo non è conservato nel presbiterio, ma è collocato al di fuori, in un luogo diverso (cappella, altare laterale, struttura di tipo monumentale).

A questo punto, tra i fedeli, sono sorti molti interrogativi. Perché il Santissimo non si trova più nel presbiterio? Perché nel presbiterio troneggia la sedia del celebrante? Da varie voci, riportate dai media, deriva pure la seguente considerazione: al di là di ogni concezione “architettonica”, se non addirittura “utilitaristica”, dovrebbe essere semplice comprendere che è dalla dottrina (dall’insegnamento) che scaturisce l’edificio di culto, e non viceversa. Per cui a pari dottrina dovrebbe corrispondere pari edificio. Se oggi si notano delle considerevoli differenze tra gli edifici moderni e quelli passati non si può fare a meno – affermano alcuni – di considerare che “forse” è cambiata la dottrina.

A questi punti, si aggiungono poi dei nuovi quesiti: perché nelle chiese di recente costruzione si tende a togliere il Crocifisso? Oppure lo si pone a un lato dell’altare? O lo si sostituisce con immagini del Risorto? Su quanto abbiamo riportato esiste disorientamento, e non mancano criticità mal dissimulate. Per tale motivo ci siamo rivolti a uno storico della Chiesa rivolgendogli vari quesiti. Queste le risposte fornite dal prof. Guiducci.

***

Prof. Guiducci, partiamo dalla storia del tabernacolo…
Si. Certamente. Può essere utile ricordare, intanto, che il termine tabernacolo deriva dal latino tabernaculum. È diminutivo di taberna con significato di dimora. Non è quindi un ripostiglio, o un contenitore ove tenere da parte “qualcosa”.
Nella Traditio ebraica e cristiana manifesta il luogo della casa di Dio presso gli uomini. Infatti, nella Vulgata (san Girolamo), la parola tabernaculum fu utilizzata per tradurre l’espressione ebraica: מִשְׁכָּן mishkhan, che significa dimora.

Il tabernacolo aveva storicamente delle caratteristiche?
Sì. Molto importanti. Una prima caratteristica era la centralità del tabernacolo. Presso il popolo di Israele si trattava di un santuario che si poteva trasportare. Accoglieva l’Arca dell’Alleanza (in ebraico ארון הברית, ʾĀrôn habbərît). All’interno dell’Arca erano contenuti i dieci Comandamenti, la verga di Aronne fiorita, e la manna. Il tabernacolo veniva eretto nel deserto. Accompagnava gli israeliti nel loro esodo, dopo l’uscita dall’Egitto. Ne avevano cura i membri della tribù di Levi (Leviti). In seguito, con l’entrata nella Terra Promessa, fu sostituito dal Tempio (Gerusalemme).

Perché era centrale il Tabernacolo?
Perché richiamava alla Presenza di Dio. In pratica: il Signore non guarda dall’alto, come uno spettatore il suo popolo, ma lo accompagna. Ne condivide i vissuti.

Un po’ come succede con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)…
Esattamente.

Oltre la centralità, esistevano altre caratteristiche del tabernacolo?
Sì. La sua disposizione grafico-spaziale, simboleggiava (schema geometrico) anche la creazione, la struttura del cosmo, la storia futura del popolo d’Israele fino all’età messianica, il tempo del “regno dei cieli”.

Il Cristianesimo ha ripreso il concetto di dimora…
Sì. Certo. Ovviamente in altri termini. La riflessione sulla reale Presenza di Dio nel pane consacrato pose un’esigenza: era necessario individuare un luogo di adorazione. Nei primi secoli, in genere, le Sacre Specie erano tutte consumate dai presenti durante la celebrazione eucaristica.
In seguito, le Chiese locali divennero territorialmente molto vaste. Dopo la Messa restavano ancora delle Specie Eucaristiche. Si decise, ovviamente, di tutelarle in ambienti adatti ad assicurare una protezione da profanazioni.
In seguito, intorno al XII secolo, cominciarono ad essere costruiti dei tabernacoli. Non vennero mai considerati dei contenitori, ma dei “troni” eucaristici. Cioè, dei punti centrali di tutto l’edificio di culto.
Tale dato è confermato anche da un fatto storico. Quando cominciò l’uso delle “Quarantore”, l’adorazione dei fedeli era in direzione del tabernacolo perché non esisteva ancora un’esposizione solenne (come avvenne, poi, in seguito).

Quindi, nel tabernacolo, Cristo-Eucaristia dimora…
Ovviamente il Signore Gesù è presente in ogni angolo dell’universo. È nel cuore di ogni persona. Però, certamente, nel tabernacolo esiste la Sua reale Presenza. Non la memoria, il ricordo, il segno, l’emblema, ma la Presenza.
Per tale motivo, tutte le chiese vennero edificate con un disegno che direttamente e indirettamente riconduceva alla centralità del tabernacolo. Cioè alla Presenza di Dio. È vero che per un lungo periodo fu possibile celebrare Messe negli altari laterali, ma ciò non mutò mai la centralità dell’altare maggiore e del tabernacolo…

Si può quindi parlare di uno strettissimo collegamento tra l’altare e il tabernacolo…
Sì. Certamente. L’altare richiama alla Passio Christi. E la tovaglia che vi si stende si collega alla Sacra Sindone.
Il tabernacolo riconduce al Christus risorto, trionfatore del peccato e della morte.
Ciò lo si comprende bene se si tiene conto che l’intero Evento Pasquale è costituito dalla Passio-Mors-Resurrectio del Signore Gesù.

Sul piano storico, sono avvenuti dei cambiamenti?
Sì. In talune comunità evangeliche si sono sviluppate delle prassi conseguenti ad alcuni enunciati dottrinali.

Quali?
Partendo dall’idea della “Cena”, alcuni evangelici hanno ritenuto che l’altare doveva essere curato secondo i normali criteri famigliari. Quando si cena si apparecchia la tavola. Quando si è terminato di mangiare, la tavola viene sparecchiata. Da qui la conseguenza: molti altari di comunità evangeliche rimangono spogli in assenza di riti.
C’è poi un secondo aspetto. In vari evangelici non viene riconosciuta la transustanziazione, cioè la trasformazione del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo. Da qui la conseguenza: terminata la “Cena” non c’è bisogno di conservare il pane con il quale si comunicano i fedeli. Non c’è quindi tabernacolo.

La prassi che Lei ha ricordato ha riversato effetti anche nel mondo cattolico?
Lei comprende che i discorsi generalizzanti rimangono sempre deboli. Però, si può cautamente affermare che in molte chiese cattoliche l’altare maggiore, al di fuori della celebrazione eucaristica, tende a rimanere una struttura disadorna, simile più a una qualsiasi tavola famigliare che alla mensa ove viene celebrato il Sacrificio Eucaristico.

E con riferimento al tabernacolo?
Per secoli si è insistito giustamente su una esposizione velata. E anche in canti eucaristici torna questa linea. Attualmente, si ha l’impressione che emerga un linguaggio che accentua principalmente il concetto di custodia, di mera conservazione delle particole consacrate, di “riserva eucaristica”.

Ci sono delle conseguenze?
Beh, tenga conto che il fedele – quando entra in una chiesa moderna – sovente neanche si accorge dove sta il Santissimo Sacramento. E, nella migliore delle ipotesi, va alla ricerca del lumicino rosso che avverte della Presenza del Signore. Quando, poi, questi lumicini, sono tenui (o la chiesa non è illuminata), non è facile individuare il tabernacolo. A questo punto salta un percorso ascetico.

In che senso?
Vede, le nostre chiese – sul piano storico – sono sempre state costruite avendo alla base un itinerario spirituale. Il percorso è simboleggiato dalla navata centrale. Il rosone richiama la Perfezione, la Sapienza di Dio “Luce del mondo”, il battistero è il luogo dal quale inizia un itinerario ecclesiale, le immagini laterali (statue, dipinti, ecc.) richiamano il sostegno della Vergine Maria e dei santi, le finestre laterali sono simbolo dei Sacramenti (la Luce della Grazia), e – alla fine – si arriva all’altare maggiore, alla Presenza di Dio.

Ciò viene accompagnato anche da manifestazioni di fede…
Certo. La prima è quella di inginocchiarsi. Atto di adorazione.
La seconda è quella di segnarsi con l’acqua benedetta. Perché nella Chiesa e nella vita quotidiana tutto avviene “nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo”.
Inoltre, alcune esclamazioni richiamano la gioia dei pellegrini che si avvicinano al santuario di Dio finalmente raggiunto: “Sia lodato e ringraziato ogni momento il Santissimo e Divinissimo Sacramento”.

Prof. Guiducci, qualcuno ha scritto che le moderne chiese sono grandi, sono dispersive, sono fredde, non aiutano la concentrazione. Meglio una cappella dell’adorazione…
Vede, qui bisogna essere chiari. Intanto, molte chiese moderne (che ben conosco) sono inadatte alla loro funzione perché “brutte”, incapaci di comunicare la sacralità del luogo. Alcune sembrano casermoni. Altre rimangono vicine a dettami estetici poco liturgici. Altre potrebbero tranquillamente ospitare un incontro di boxe, in considerazione del disegno geometrico…
Ora, noi stiamo parlando di chiese cattoliche. Non di aule assembleari. Non di ambienti per manifestazioni culturali.
Allora, se parliamo di chiese, dobbiamo tornare al perché storico della chiesa. La chiesa è la Casa di Dio, ove i fedeli adorano, lodano, ringraziano e invocano singolarmente e comunitariamente il Signore Risorto, Dio della Vita e della Storia.
La conclusione è semplice. Se la chiesa è la Casa di Dio, allora è tutta la struttura che è al servizio dell’adorazione divina e non l’incontrario. Non è la liturgia che in qualche modo si deve adeguare all’astrattismo di alcuni architetti, ma è la creatività umana che deve essere capace di ricondurre sempre a un punto centrale. Ove è collocato l’altare del Sacrificio e il tabernacolo con il Cristo Risorto.

Prof. Guiducci, alcuni fedeli comunicano che nelle loro chiese si vanno togliendo i Crocifissi, sostituendoli con immagini di Gesù Risorto. La spiritualità della Croce sta mutando?
C’è qui un aspetto che trae origine, probabilmente , da aspetti (non ben compresi) della spiritualità ortodossa.

In che senso?
Nella spiritualità della Chiesa Latina ha progressivamente trovato spazio una contemplazione del Christus patiens, grazie anche alla predicazione dei Francescani e a quella di altri Ordini.
Secondo alcuni, questo insistere sui Dolori di Gesù, sull’agonìa, ha favorito degli itinerari di santificazione segnati fortemente da sofferenze personali, da discipline, dall’insistenza sulla corruzione della natura umana, da pessimismo con riferimento all’uomo redento, da ambienti tetri, da decorazioni macabre (con ossa umane), da mancanza di gioia, di letizia interiore…
Nella Chiesa d’Oriente, ha prevalso nel tempo una visione spirituale più legata alla divinizzazione originaria della natura umana, alla partecipazione di quest’ultima alla vita trinitaria, da cui deriva il suo carattere “dialogale” con il cielo…
A questo punto, qualcuno – forse – ha ritenuto utile una minore esposizione di Crocifissi e una migliore ostensione del Gesù Risorto.
La conseguenza, in alcune chiese, è stata evidente. Dall’altare è stato tolto il Crocifisso. In alcuni casi, l’immagine dell’Uomo dei dolori è stata collocata a un lato dell’altare, creando una situazione che lascia un po’ perplessi.
In altre situazioni, il Crocifisso è stato tolto del tutto, e si fatica un poco a ritrovarlo (in alto… in qualche parete… sotto l’altare…appoggiato a una colonna…).

Una situazione che disorienta…
Sì. È un qualcosa che genera confusione. Che rende perplessi. Per vari motivi. Esiste un rapporto inscindibile tra il Crocifisso e l’altare. Non sono realtà diverse. Che si possono separare. Sono un’unica realtà. Su “quell’altare” è posta la Croce. Su “quell’altare” Cristo si immola. Su “quell’altare” è mostrato ai fedeli il Corpo e il Sangue del Crocifisso. Tutto proviene da “quella” Croce.

Questo è un dato-chiave…
Sì, è fondamentale. Perché la Redenzione è passata attraverso la Croce. Certo, non si è fermata al Venerdì Santo. Ma ha comunque affrontato l’Ora profetizzata nei secoli, e ricordata dallo stesso Gesù ai suoi discepoli.

Quindi non esiste “squilibrio” nell’insegnamento cattolico…
Non c’è alcun squilibrio perché l’Evento Pasquale include la Sofferenza del Figlio di Dio, l’Oblazione totale, la Deposizione, la Risurrezione. A questo punto, insistere sulla “tristezza” permanente nella Chiesa è un fatto debole per un motivo…

Quale?
Perché è proprio guardando al tabernacolo che ci si rende conto di essere in presenza del Risorto.
In tal senso, tutto il Mistero Pasquale è segnato da un percorso che si conclude con un Evento di vittoria: l’altare (Passio), la tovaglia dell’altare (deposizione), il tabernacolo (Cristo trionfante).
Evidentemente, la vittoria del Signore Gesù si colloca nel grande Mistero della nostra Redenzione. Quindi, la gioia cristiana è una letizia interiore. Nasce dalla consapevolezza che siamo dei redenti. Delle persone nuove in Cristo.

Possiamo trarre qualche conclusione?
Non è semplice. Comunque si può affermare, da una parte, che il fedele deve rimanere attento alle indicazioni che riceve dall’autorità ecclesiastica. Dall’altra, si può forse accennare al fatto che in taluni luoghi di culto si osserva una minore attenzione alla Presenza reale di Gesù-Eucaristia.
Lo si denota in tante piccole situazioni. Osservando, ad esempio, alcune celebrazioni dell’Eucaristia emergono, in alcuni casi, realtà deboli. Ad esempio: rito della Consacrazione divenuto “celere” perché l’omelia è andata per le lunghe, o una genuflessione (gesto di adorazione) affrettata, o un distribuire l’ostia consacrata con un comportamento poco liturgico.
Altri esempi: persone che entrano in chiesa senza inginocchiarsi (tanto non c’è il Santissimo), senza fare il segno della croce, parlando tra loro stile salotto. Si potrebbe continuare ma si lascerebbe in tal modo il sentiero della cronaca bianca.
È meglio, quindi, evidenziare solo un’idea. Inginocchiarsi davanti alla sedia del celebrante non ha senso. Ricollocare al centro dell’abside il tabernacolo, e spostare ai lati le sedie dei celebranti, sarebbe meglio. Si tornerebbe a contemplare Gesù Vivo che nell’Ultima Cena dona Sé stesso.

fonte: CarloMafera.wordpress.com

IV Pellegrinaggio Summorum Pontificum con mons. Negri e mons. Laise

di Federico Catani

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Tutto è pronto per il IV Pellegrinaggio a Roma del Popolo Summorum Pontificum, ovvero di tutti quei fedeli che sono legati alla liturgia tradizionale della Chiesa, in vigore sino alla riforma del Messale Romano avvenuta nel 1969 e pienamente “riabilitata” da Papa Benedetto XVI con il motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. A chi pensasse che la questione riguardi un manipolo di anziani nostalgici, di nobili decaduti con manie estetizzanti o di estremisti “catto-nazisti”, bisogna subito fugare ogni dubbio: il “popolo Summorum Pontficum” è fatto da cattolici normali, provenienti da tutto il mondo, da uomini, donne, famiglie e giovani – tanti giovani, perché la cosiddetta “messa in latino” riscuote molto successo tra le nuove generazioni – che vivono in questo mondo e nella Chiesa guidata da Papa Francesco. E che, come tanti cattolici appartenenti a gruppi e movimenti ecclesiali, decidono, una volta l’anno, di andare a pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro.
Dal 22 al 25 ottobre la Città Eterna vedrà tanta gente riunirsi attorno alla stessa liturgia dei nostri padri, dei nostri nonni e di tutte quelle immense schiere di santi che ad essa hanno attinto per santificarsi e costruire un mondo fondato sui principi del Vangelo. Gli organizzatori hanno annunciato che le preghiere dei partecipanti quest’anno si eleveranno in particolare verso la Santa Famiglia di Nazareth per il successo del Sinodo sulla famiglia, che si chiuderà proprio in concomitanza con il pellegrinaggio.
In questa edizione è da segnalare in particolare la presenza dell’arcivescovo di Ferrara-Comacchio mons. Luigi Negri, uno dei vescovi attualmente più combattivi nel difendere la verità cattolica integrale, anche sulla famiglia, tanto messa in discussione da certi pastori d’anime. Mons. Negri interverrà in quello che è l’evento centrale di tutto il pellegrinaggio: infatti terrà l’omelia durante la Messa pontificale – celebrata dal vescovo emerito di San Luis (Argentina) Juan Rodolfo Laise – sabato 24 nella Basilica di San Pietro. Mons. Laise è un altro vescovo coraggioso. Nel 1996, la Conferenza Episcopale argentina decise di introdurre la prassi della Comunione in mano. Mons. Laise si oppose e volle mantenere la prassi tradizionale nella sua diocesi. Accusato di rompere la collegialità episcopale, in realtà ottenne da Roma la conferma che la sua fedeltà alla norma vigente (ovvero la comunione in ginocchio e sulla lingua) prevaleva sull’allineamento alle direttive dei suoi confratelli vescovi. A tal proposito, nel pomeriggio del 24 ottobre presso l’auditorium dell’Augustinianum, il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum (la sezione italiana del pellegrinaggio), presenterà il suo nuovo libro sulla Comunione in mano, in uscita presso le edizioni Cantagalli.
A prestare servizio liturgico in gran parte delle funzioni sarà la Schola Sainte Cécile, coro dei fedeli della parrocchia Saint-Eugène di Parigi, dove dal 1985 la Messa tradizionale si è affiancata a quella moderna. In un’intervista a Paix Liturgique il direttore del coro Henri Adam de Villiers ha detto che nelle celebrazioni darà un «posto d’onore al canto gregoriano». Per quanto riguarda la polifonia, invece, si approfitterà delle tribune presenti nelle chiese romane «per cantare a più cori, secondo l’antica tecnica detta “dei cori spezzati”. I coristi sono disposti in varie tribune e si rispondono, a volte in modo molto dinamico, dando vita a degli effetti acustici meravigliosi. Questo uso dei “cori spezzati” era molto diffuso a Roma dal Rinascimento alla fine del XVIII secolo». «Noi abbiamo la gioia di riproporre le opere del grande repertorio occidentale di musica sacra nel quadro esatto per il quale esse vennero composte, in chiesa e per la liturgia, mentre in genere esse non vengono quasi più eseguite che in occasione di concerti – ha dichiarato -. Riportate al loro scopo originario, la gloria di Dio, esse riacquistano tutto il loro significato, che invece viene loro tragicamente amputato in occasione delle esecuzioni in quadri lontani da quello liturgico». E sulla liturgia tradizionale ha aggiunto che «è esigente: la strada da seguire è piuttosto precisa e la soggettività personale passa senz’altro in secondo piano, perché è necessario rispettare i dettami di una tradizione multisecolare di musica sacra. La liturgia tradizionale è esigente, ma alla fine diventa essa stessa una scuola di eccellenza che ci trascina verso l’alto e che ci fa dare il meglio di noi stessi. Ecco perché questa liturgia ha generato nel corso della Storia tante meraviglie in campo artistico, nella musica, certamente, ma anche negli altri campi e in particolare in architettura con le bellissime testimonianze di cui la città di Roma è così ricca». D’altra parte, ha concluso il direttore, «Dio è il Sommo Bene e la Bellezza Somma e la liturgia non è che un assaggio della sua gloria, un’epifania, il Cielo sulla terra! Di fronte a questo, non si può dunque offrire la mediocrità».
Il programma dettagliato dell’intero pellegrinaggio è consultabile sul sito www.unacumpapanostro.com. In sintesi, si inizierà giovedì 22 nella Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini (che è la parrocchia romana dedicata esclusivamente al rito cattolico tradizionale), con i Vespri pontificali celebrati da Mons. Laise. Il giorno seguente, al mattino, presso la Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella) si reciterà il Rosario e si pregherà San Filippo Neri. Poi, all’Angelicum, vi sarà un incontro per sacerdoti sull’attualità del tomismo nella formazione sacerdotale, con il padre domenicano Serge-Marie Bonino. Nel pomeriggio, invece, al Palatino si terrà la Via Crucis. A seguire, nella chiesa di Santa Maria in Campitelli, la Messa pontificale celebrata da Monsignor Guido Pozzo, arcivescovo titolare di Bagnoregio, segretario della Commissione Ecclesia Dei. Il 24 ottobre, al mattino, nella basilica di San Lorenzo in Damaso vi sarà l’Adorazione eucaristica presieduta da don Marino Neri, segretario dell’Amicizia Sacerdotale Summorum Pontificum. A seguire, la Processione solenne verso la Basilica di San Pietro, dove, come già detto, vi sarà la Messa pontificale. Domenica 25, infine, nella Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, Messa celebrata dal benedettino dom Jean Pateau, abate di Fontgombault. Nell’occasione, la musica sarà affidata al coro Cantus Magnus.
Tra le realtà che prenderanno parte al pellegrinaggio vi saranno la Federazione Internazionale Una Voce e l’associazione Madonna di Fatima, che porterà la statua della Beata Vergine apparsa ai tre pastorelli quasi cento anni fa. Gesto importante, perché i buoni cattolici confidano in quella fatidica promessa: “Alla fine, il mio Cuore immacolato trionferà”.
(La Croce quotidiano, 20 ottobre 2015)